Merola l’ultimo Sindaco comunista

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fausto Anderlini
La lunga marcia di Virginio Merola
Con l’uscita di Merola da Palazzo d’Accursio, si chiude definitivamente la genealogia del comunismo bolognese e delle sue postume trasfigurazioni. Giacchè Merola è stato un iscritto Pci, del Pds, dei Ds ed infine, con altri disgraziati, ‘cofondatore’ del Pd. L’unico sindaco, fra tutti, ad avere partecipato a tutte le tappe della lunga marcia verso l’estinzione. Ma per quanto in discesa (e del resto anche uscire per ultimi è un privilegio) non è questo l’unico primato.
Del fatalismo attivo.
Così si potrebbe definire la cifra psicologica di Virginio. Un attivo fatalismo. Flemmatico, ironico, scanzonato, spesso svagato se non smarronato. Affabile il giusto non perde mai la calma. Portamento gentile e navigato, mai aggressivo e per nulla algido si tiene alla distanza giusta, rifugge l’eccesso di intimità. In lui alberga comunque un’animo passionale che si rivela in una irrefrenabile tendenza a commuoversi mentre parla. Può capitare che un mal trattenuto singhiozzo si palesi non solo all’acme di un discorso a sfondo epico-commemorativo ma anche durante l’inaugurazione di una nuova linea di filobus. Un navigatore ben temperato che cela un fuoco interiore, un nodo psicologico, una impedenza che nel mentre lo trattiene da un eccesso di autostima lo sprona a non demordere.
Bolognese di nuova generazione
Se non un napoletano verace, visti i natali in quel di Santa Maria Capua a Vetere, sicuramente un campano. Cioè un non emiliano-romagnolo, o meglio un bolognese di nuova generazione. Infatti in lui è assente ogni reminiscenza dialettale atavica (come tipico nei bolognesi adottati in tenera età). Come tale il primo ed unico extra-regione nella lunga teoria dei sindaci bolognesi; Dozza e Fanti, ma anche Guazzaloca, erano nativi di Bologna o dintorni, cosiccome Vitali. Imbeni veniva da Modena e Zangheri da Rimini. Mentre Mantova, base natia di Del Bono, è a tutti gli effetti una provincia emiliano-lombarda. Quanto a Cofferati sebbene cremonese, cioè dei paraggi dell’Emilia Lombarda, egli precipitò dall’alto dei cieli, in certo senso astrattizzato. Mentre Virginio è salito dal basso. Piace pensare che questa ‘estraneità’ abbia contribuito a plasmare la personalità politica di Virginio secondo un doppio risvolto, anche in considerazione delle umili origini familiari: la preservazione dei tratti migliori del retaggio atavico partenopeo e la determinazione a integrarsi emergendo. Ma forse sono boiate, Faccio conto di non avefrle scritte.
La vocazione. Figlio ribelle del Dio minore
Le esperienze come presidente di quartiere in quel di Mazzini e l’assessorato all’urbanistica con Cofferati sono state le tappe di una unica vocazione; fare il Sindaco. Del resto la carica più importante per ogni buon comunista locale, per il quale Palazzo d’Accursio (la ‘cmouna’) vale più del Cremlino. Per lui una vera mania, che deve aver coltivato fin da piccolo in sostituzione di più comuni desideri, come fare il camionista o l’astronauta. Già dopo l’addio di Cofferati scende in campo e alle primarie sfida Del Bono prescelto dalla coalizione come candidato ufficiale. Non gli va granchè bene, visto che viene superato anche da Cevenini, però quel venti per cento che racimola è un segnale. Rompe un tabù, personalizza la sua presenza politica, comincia a racimolare un seguito anche al di là del recinto del partito. Proprio rivendicando la sua militanza funzionariale di partito di contro al rampollo della prodiana e professorale società civile E’ un figlio del Dio minore che si ribella al suo destino.
Carpe diem, ma anche cavedani, pesci gatto e altro pescato
Finito rovinosamente Del Bono ed esaurito l’interregno commissariale, sembra che tutto congiuri a favore di Cevenini. La città è come stanca del blasone politico. Ha esaurito tutto d’un colpo le aspettative carismatiche. Non crede più alla funzione taumaturgica e restauratrice dell’antica grandezza affidata a ‘briscoloni’, ma neppure all’intellettualismo dei ‘competenti’ e men che meno al manovriero razionalismo della politica. Vuole Cevenini; il compagno semplice e leggero, l’uomo dei matrimoni, delle sagre, dello stadio, della vicinanza popolare. L’uomo provvidenzialmente sintonico col minimalismo affettuoso del senso comune. Ma Cevenini, per ragioni ancora ignote e forse solo sintomatiche, probabilmente investito dal vacuum psicologico che stressa le star in perenne full immersion con le masse, cede di schianto. Per Merola si dischiude una inaspettata nuova occasione. E però deve vedersela con De Maria, l’altro rampollo fatto in casa. Uno degli ultimi catechisti. Anch’egli infatti vuole fare il sindaco e ambisce a cimentarsi nelle primarie. Nessuno dei due vuole cedere e la situazione si fa imbarazzante perchè la doppia candidatura potrebbe favorire il successo di un terzo incomodo (come la Frascaroli, prodotto di uno strano connubio di prodiani e vendoliani). Alla fine l’ha vinta Merola. Vince perchè punta i piedi più forte e perchè non ha nulla da perdere. Al contrario di De Maria non ha alcun second best a disposizione. Fare il parlamentare non lo interessa. O il Sindaco o il diluvio. Così si vince le primarie e anche grazie al ciclo politico benigno (la destra berlusconiana è in piena ritirata) nonchè col supporto del convalescente Cevenini è eletto al primo turno. Non è proprio un trionfo: supera di misura la soglia del 50% e sconta un decalage di almeno quattro punti rispetto alla coalizione. Segno che i renitenti alla ‘guida’ hanno un certo peso. Ma quel che importa è che vince. Una grande volontà associata al caso (e al vuoto di leadership). Così comincia il suo regno. Rasoterra, senza marce trionfali,
Fottuta testardaggine e colpo di culo
E’ un fatto. La fortuna arride ai testardi. La cui vera virtù è la resistenza alla frustrazione…Stare, non mollare. Anche quando le circostanze si aggrovigliano e remano contro. In direzione ostinata e contraria (De Andrè) è il suo motto. Non bastassero le ostilità degli incumbent il 2016 è un annus horribilis. Il renzismo sta precipitando mentre le regionali accusano una enorme ondata astensionistica. Il Pd è investito da una virulenta acredine popolare, Sicchè al primo turno è una debacle. Raddrizzata con fatica al ballottaggio, dove la destra tocca l’apice del 45 %, ma raddrizzata. La stella di Virginio si illumina a corrente alternata ed è strutturalmente fioca. Ma non si spegne e riprende a far luce quando sembrerebbe fulminata.
Dell’utile ambiguità
Senza il necessario opportunismo non c’è fortuna. Virginio naviga a vista, ma tiene il mare. Non s’impone, non indica rotte catartiche, ma tiene il timone ben stretto. Galleggia. Così ha attraversato i marosi del renzismo. Se ha tradito Bersani, come quasi tutti, è stato un sostenitore tiepido e circospetto del vile fiorentino. Sin dall’atto della rielezione mal digerisce la sapida ironia di Renzi che confronta il suo magro risultato con i fasti del riminese Gnassi. E comincia a distanziarsi. Se è vero che si guarda bene dal rientrare nei ranghi dei vecchi sodali a Bologna è tra i primi a tramestare coi pentiti, anche a costo di imbrancarsi con Pisapia e scadere dal minimalismo al pochismo quasi comico. Lepore va più in là e si spinge a teorizzare un format civico trascendente il Pd tarato dal renzismo. Comunque sia Virginio si è tenuto ben distante dallo zelo ambizioso e prosopeico di Bonaccini. Preferendo la cautela e una tenuta di strada più adattabile e riflessiva.
Il rendimento istituzionale
Come in tanti dicono: senza infamia nè gloria. Il più grande successo è stato il decollo turistico della città, favorito anche da un decoroso restyling dell’area centrale e dalla sistematica delle aree pedonali (T days ecc.). Cosa che ha favorito un prorompente sviluppo del settore ricettivo e la transizione definitiva della città dalla fase industriale a quella commerciale post-moderna. Cionondimeno tale trasformazione è stata perseguita senza troppo allontanarsi dal milieu delle politiche sociali tradizionali della sinistra. Sicchè il liberismo di Virginio, i cui prodromi erano rintracciabili già nel mandato Vitali, ha avuto un carattere socialmente temperato. Del resto queste ‘politiche urbane’ erano già iscritte come conseguenze, dirette, indirette, e anche perverse, dell’approccio elaborato dalla sinistra in termini di vivibilità urbana. E se anche le cose hanno poi preso una piega autonoma e naturale (difficilmente osteggiabile) Virginio, col suo minimalismo, ha fatto meglio di molti strombazzati sindaci che calcano il jet set televisivo. Come Imbeni, anch’egli un Sindaco incomparabile col fervore progettuale di Fanti e Zangheri, per non dire della febbre del fare dozziana, è stato onesto. Ha esercitato secondo passione non per interesse. L’unica condanna che ha subito (nel frullatore peloso della giustizia affacciata sul teatro gossiparo della politica) è stata per aver messo a gabinetto il nostro caro Lombardelli: un odontotecnico della Ditta senza laurea. Una vera quanto odiosa rappresaglia classista.
Poi, dulcis in fundo, Virginio ha governato in un’epoca di declassamento del ruolo dei comuni con l’emergere dell’onnivoro neo-centralismo regionale e i suoi satrapeschi governatori. La ciofeca della città metropolitana e della riforma Del Rio non è colpa sua. Anche se qui, è vero, come rispetto alla deforma istituzionale renziana, avrebbe potuto tirar fuori qualche quartino di coraggio. Sono i temi sui quali meno gloriosa è stata la sua navigazione….
Riassunto
In sintesi se si deve trarre un bilancio, Merola non ha fatto danni. Si direbbe anzi che li ha limitati. Ha navigato in acque difficili con abilità e fortuna. Prova ne è che non lascia un vuoto (come accadde con Cofferati), nè sfracelli come conseguirono dai mandati di Vitali e Del Bono. I danni del renzismo sono stati più contenuti che altrove, tanto che oggi si configura una coalizione solidamente spostata a sinistra. E una parte del merito gli va sicuramente attribuito. Ha governato dieci anni, saturando il doppio mandato. Dieci anni, sebbene sul filo del rasoio. Una durata che non capitava dai tempi di Imbeni, cioè da un terzo di secolo a questa parte. E anche questo è un primato. Tanto più se si considera che è stato conseguito senza l’appoggio del partito egemone d’un tempo e in un’epoca di grande incertezza.
L’aio discreto e il giovin signore
Ma c’è un altro primato che va rimarcato. Totalmente inedito. E se si considerano le usanze di un tempo, persino blasfemo. Tra l’altro guadagnato (così almeno promette) con successo. Cosa che non riesce quasi mai. Ha favorito la sua successione, provvedendo a dar spazio al delfino, cioè a Lepore. Una avveduta malleveria, senza eccessi nè protervia, cioè aliena alla mera cooptazione. Un rilascio con stile. Merola è stato cioè in grado di provvedere alla sua successione senza succedere a sè stesso per interposta persona. Quel difetto che rende normalmente antipatici i delfini e insopportabili i designatori. Sicchè il Lepore appare per quel che è in grado di proporre di sè. Una diversità manifesta e naturale. Tale da non aver bisogno di rivendicare una continuità nè di affermare la discontinuità rispetto al predecessore. In ogni caso va rimarcato che questo colpo nominante non è mai riuscito a nessuno. Nella tradizione comunista, e anche post, che il sindaco provvedesse alla successione era un peccato capitale meritevole di una dura sanzione. Perchè il candidato è del partito, non di altri. Men che meno di un Sindaco. E comunque anche in assenza del partito questi disegni sono intimamente critici e quasi mai vanno in porto. Sicchè quello di Virginio è stato un vero capolavoro.,
Virginio e me, ma anche noi dell’onorata (ma non premiata) Ditta
Con Virginio ho sempre avuto un buon rapporto. Comunque non ostico, anche quando l’ho aspramente criticato per le sue giravolte in epoca renziana. Conosco i suoi pregi e lui i miei difetti. Siamo innocui l’uno per l’altro. L’ho votato alle primarie del 2015 (ma non nelle altre). Nel 2016 ho votato la coalizione civica ma poi l’ho opzionato al ballottaggio. Non me ne sono mai pentito. Se mi sono permesso questi giudizi è perchè, raggiunta una certa età, sono conscio dei miei limiti e di quanto goffamente mi sono mosso nella cristalleria della politica. Di Virginio potremo dire qualsiasi cosa, ma non che non sia stato, nel suo understatement, un grande navigatore. Basterebbe questo, volesse davvero finir bene e come si deve (vero grande cimento del politico professionale), per poter essere accolto (certo dopo diversi esercizi espiatori) nella nostra abbazia. L’abate Bersani è generoso. In fin di tutto come non riconoscere in Virginio Merola un uomo della Ditta’ ? L’ultimo sindaco della Ditta. Ma di questo primato jusq’au bout de souffle ho già detto……
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