di Gian Franco Ferraris, 25 aprile 2016
Da almeno 15 anni volevo intervistare Rino Morbelli (alla fine di questo articolo potete vedere il risultato di una lunga intervista con lui). La sua è una storia unica, di un uomo nato nel 1923 e, come i suoi coetanei, chiamato a combattere la seconda guerra mondiale. Si è rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò ed è finito in campo di concentramento in Germania, dove si è ammalato. Era già accatastato con i morti e si è salvato miracolosamente. Mi ha raccontato la sua incredibile storia 70 anni dopo. Rino era anche comunista (e lo è ancor oggi).
Sono cresciuto insieme a suo figlio Paolo e, fin da bambino, Rino è stato per me un esempio e mi è sempre tornata alla mente la sua vita esemplare, il suo modo di essere un comunista non settario. Tornato a casa dopo la prigionia, malatissimo, ha incontrato alcuni suoi compagni che avevano aderito alla RSI e che poi erano passati alla Resistenza. Gli ho chiesto tante volte “cosa hai pensato” e lui mi ha sempre risposto “la vita è fatta così”.
Questo spiega perché il 25 aprile non è mai stata la festa di tutti, perché non è mai diventato un momento di memoria condivisa. Scriveva anni fa Gian Enrico Rusconi: “La Resistenza rimane un episodio geneticamente positivo ma psicologicamente, culturalmente, politicamente remoto. E’ entrato nel rituale e nel lessico ufficiale della Repubblica, ma non è diventato solida memoria collettiva dei suoi cittadini”. Il 25 aprile non è mai diventato memoria collettiva degli italiani. Su questo ci sono ragioni profonde, per molti anni chi ha fatto la Resistenza ha vissuto il 25 aprile come momento della resistenza fallita o tradita; non abbiamo saputo unire la Resistenza alle vittime civili della guerra e ai tanti mandati da Mussolini a morire nella campagna di Russia e sui campi di battaglia.
In questi 70 anni, peraltro, in Italia ne abbiamo viste di tutti i colori. Ricordo il disorientamento negli occhi dei vecchi partigiani a una commemorazione di giovani ribelli uccisi, al tempo della vittoria di Berlusconi e dello sdoganamento del partito postfascista di Fini. Ancora oggi la memoria è divisa se non dimenticata. Bisogna prenderne atto, a poco servono – pare – gli appelli di stampo retorico. Ricordo le parole di Pavese, che nel 1947 ha scritto le pagine più umane, commoventi e di lucidità accecante sulla guerra civile nel libro “La casa in collina”. Riporto un brano che è anche l’esame di coscienza di Pavese e la testimonianza della solitudine e fragilità della condizione umana.
… ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, vuoi dire che anche vinto il nemico è qualcuno. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.
Come diceva Norberto Bobbio, non si può confondere chi lottava dalla parte giusta e chi dalla parte sbagliata. Solo così si arriva a una memoria condivisa. Ora non ci sono sentimenti così contrastanti ma c’è quasi l’oblio. Il 25 aprile sembra culturalmente remoto.
Anche mio padre ha fatto dieci anni di guerra, anche lui era di antica famiglia socialista antifascita ed è tornato a casa a guerra finita. Erano due antifascisti ed erano una minoranza nel paese, ma c’erano anche quelli fascisti che, andando in guerra, si sono resi conto della scelleratezza di Mussolini e alla fine della guerra volevano un’Italia diversa. È importante che i cittadini di uno stato riconoscano un’appartenenza comune, una identità.
Il 25 aprile così com’è non ha più senso. Ormai i giovani conoscono poco la storia contemporanea, mentre il 25 aprile dovrebbe diventare una grande festa nazionale.
In Francia al 14 luglio si celebra veramente una festa nazionale, è come se i francesi fossero nati in una bella famiglia amorevole e noi italiani in un orfanotrofio.
Quando si dice che lo stato italiano non ha efficienza istituzionale e amministrativa si dice una cosa vera e c’è il bisogno ineludibile di riformare lo stato; se cerchiamo le ragioni io penso che questo dipenda in buona parte dal fatto che i francesi hanno una identificazione con lo stato mentre noi ci sentiamo sempre orfani.
Eppure la generazione che ha vissuto la guerra è quella che ha fatto diventare l’Italia una nazione ricca e prospera.
Rino, il papà di Paolo, con un ettaro di orto ha fatto studiare due figli, da ragazzo caricavo i camion di verdura e i suoi sedani “i selìr Duren” erano i più ricercati. Quella generazione ha lasciato un’impronta, un’Italia progredita. In modo mesto, mi chiedo cosa lasciamo noi ai nostri figli: zavorra.
E’ indubitabile che ci sia una responsabilità collettiva della nostra generazione, ma le responsabilità maggiori vengono dalla classe politica, che da almeno 50 anni è su una china discendente, dal CAF (Craxi, Andreotti, Forlani) alla fine ingloriosa della partitocrazia della prima repubblica, dalla “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto al ventennio berlusconiano, dal PD veltroniano al renzismo. Una deriva senza fine.
A volte mi pare che del 25 aprile resti solo lo scempio di piazzale Loreto, con la folla inferocita che sputava sui cadaveri di Mussolinii e della Petacci, la stessa folla fagocitata da Alemanno che tirava le monetine a Craxi, lo stesso Alemanno che ha sgovernato Roma con i suoi sodali fascisti. E come abbiamo potuto dimenticare il cappio esposto dai leghisti in parlamento, gli stessi leghisti, dal cerchio magico di Bossi a Cota che arrivati al potere, si sono macchiati di qualsiasi nefandezza.
Renzi e il renzismo sono solo l’epilogo di questa triste storia. Dietro l’ideologia della rottamazione c’è solo la bramosia di prendere il potere e fare le stesse cose, senza neppure vergognarsi. I cittadini che hanno a che fare con lo stato italiano sono i più sfortunati d’Europa. Stato, participio passato del verbo essere.
3 commenti
Tutte le guerre, ma soprattutto le rivoluzioni lasciano divisioni
che sembra non si riescano a sanare mai. Per noi così è stato per l‘Unità d’Italia, è stato per la Resistenza ed è stato anche per il 2 Giugno sul referendum Monarchia e Repubblica, oggi però quest’ultima forse più assopita.
Le divisioni, gli scontri certamente non aiutano a renderci
migliori, ma purtroppo sono necessarie quando in casi estremi altre via meno dirompenti non vi sono e i veri UOMINI e DONNE devono scegliere da che parte stare. Personalmente
ODIO GLI INDIFFERENTI.
Oggi siamo di fronte a delle scelte: o stare con la COSTITUZIONE in difesa della Democrazia, o con chi per affari e per delinquere la vuole modificare, anzi DEFORMARE.
Questa divisione anche futura, oggi accadrà con Renzi (infatti, cerca di farlo diventare un plebiscito) ed è anche per questo che occorre scindere dalla battaglia referendaria l’ODIO (per essere chiari io lo disprezzo) verso Renzi che cerca velatamente di instaurare una dittatura di oligarchi faccendieri, dalla lotta per la difesa della nostra Democrazia nata dal sangue della Resistenza.
E’ anche evidente che Renzi e le sue cosche, non potranno essere non nominate in questa lotta, per il danno che stanno recando al BENE COMUNE.
Condivido il tuo scritto Gian, si avverte che le parole sono scaturite da un cuore e una mente tristi perché non vedono all’orizzonte, nessun cambiamento in meglio rispetto a un passato prossimo ma addirittura un peggioramento. La responsabilità di questo sfacelo è certamente da addebitare ai nostri politi-canti che hanno fatto dello stato, ancora più che nel passato, un loro feudo personale, dove arricchirsi sulle spalle della gleba, dove noi cittadini siamo stati confinati e dove, a quanto pare, stiamo bene perché non vi è accenno alcuno di sollevazione morale e di orgoglio. Continuiamo ad essere una nazione senza radici e un popolo diviso che non ha saputo e ancora non sa trarre lezione dalla storia recente. Un popolo che non sente di essere tale e rincorre, ciecamente, i propri interessi particolari a scapito di una identità comune ancora tutta da costruire. L.L.
Ha detto bene Bobbio, come riporti tu, Gian Franco: c’è una parte giusta e una sbagliata, bisogna riconoscerle, fare in modo che vi sia un confine netto. Due parti,dunque, con la necessità di schierarsi, essere ‘partigiani’ ancor oggi, combattere l’idea e la pratica che tutto debba divenire un blob informe, oppure un unico e grande partito della nazione, del ‘fare’, del Nazareno, e chi più ne ha più ne metta. La lezione della Resistenza è la lezione della lotta, della distinzione, della parte giusta che combatte la parte sbagliata. Certo, in democrazia, tutte le parti hanno eguale legittimità (durante la Resistenza c’erano i nazifascisti dall’altra parte). Ma è proprio la divisione in parti, in una pluralità di parti, che garantisce l’esistenza, la forza, la stabilità e il dinamismo della democrazia. Oggi, purtroppo, questa lezione è stata dimenticata.La convinzione diffusa è che la politica sia rissa, e dunque una zavorra per lo sviluppo. La verità è l’opposta: non c’è sviluppo, non c’è crescita se non c’è una dialettica, una dinamica democratica, un dibattito pubblico, posizioni che si confrontano e si battono. La Resistenza è la lezione della democrazia. La fine della politica, oggi, la fine del confronto, della ‘battaglia ideale e culturale’ (come si diceva) è solo l’anticamera di un mondo grigio e diseguale. Grazie Gian Franco della tua riflessione e grazie a Rino per la sua lotta e per la sua testimonianza. Comunista allora e comunista oggi è il segno che ci sono storie che non passano, e non vengono cancellate da un tweet. Nemmeno se fosse quello di un presidente del consiglio.