Fonte: Il Manifesto
#Intervista. «Costruito nel pieno dell’illusione della grande città dell’acciaio, così slanciato e così sovietico, era l’orgoglio di tutti. Anche mio, che non faccio l’operaio metallurgico». Parla il pluripremiato scrittore, genovese d’adozione, che del capoluogo ligure ha raccontato e fotografato l’anima vera.
intervista a Maurizio Maggiani di Eleonora Martini – 15 agosto 2018
È triste e addolorato, Maurizio Maggiani, e anche molto arrabbiato. Ma soprattutto sembra già struggere di nostalgia per quel ponte con cui aveva fatto «amicizia», di cui aveva «imparato a fidarsi», come tutti i genovesi. E sì che lui, giornalista, fotografo e scrittore, insignito di prestigiosi premi per le sue opere narrative (Campiello, Viareggio, Strega e numerosi altri) è un genovese d’adozione, proveniente dalla Val di Magra, l’ultima propaggine ligure prima della Toscana che Dante Alighieri cita nel Purgatorio. Ma lui come tutti quelli cantati in Genova per noi, «la superba» l’ha sognata e desiderata. E raccontata, con uno sguardo onirico, in una sorta di guida anche fotografica.
In «Mi sono perso a Genova», edito da Feltrinelli, c’è tutta la sua prospettiva «sghemba» sulla città. E tra le immagini che ha selezionato ci sono quelle del ponte Morandi. Perché?
Perché senza quel ponte come si fa? Ogni volta che lo guardiamo, che precipitiamo dentro uno di quegli svincoli «micidiali», come diceva il cantante (De Gregori, ndr), quel ponte ci terrorizza. Perché è insieme tragico e bello. È qualcosa di spropositato che attraversa la valle.
Lo conosce bene?
L’ho frequentato, anche a piedi, per quel che ho potuto. C’è una creuza, una scalinata, che dagli scali giù, dal Polcevera, sale su fino ai Forti, sul crinale della collina, e lo attraversa. Perché vede, quel ponte è stato progettato proprio in modo tale da salvare quella creuza lì, per salvaguardare il passaggio di poche persone, forse una decina appena, sulla creuza… E allora io mi ci sono infilato dentro, a quel ponte che attraversa le case all’altezza dei tetti, in via Fillak, e che è di un’invasività spaventosa. Dentro i piloni, i cassoni, le travature… A guardarlo da quelle case (Walter Fillak era un partigiano morto impiccato), che sono case di operai dell’Italsider, delle fabbriche lì intorno, tra Cornigliano e Sampierdarena, ci si fa familiarità, ci si abitua. E ci si arrende al fatto che di quel ponte ci si deve fidare. Perché Genova è un casino, dappertutto, è una città costruita tra gole e mare…
È una città sospesa.
Sì, esattamente.
Una città cresciuta negli ultimi sessant’anni sopra un territorio “finito”, che non offriva più spazio per nuove costruzioni…
E sono state fatte cose abominevoli. Ma quel ponte no, non era abominevole. Era ben fatto, era bello da vedersi. Gli operai che vi abitavano sotto avevano una vita, allevavano figli, facevano il pranzo la domenica tutti insieme in famiglia, sotto quel ponte lì. Guardavano avanti. Erano, sì, andati a vivere sotto i ponti, ma al contrario del senso comune che di solito assume questa frase, non erano martoriati o annientati. Perché Genova pensa di dover vivere sempre in un equilibrio delicato, dove ci si può fidare solo di una cosa ben fatta. Ma quel ponte era ben fatto.
C’è anche un senso di precarietà, in questo equilibrio?
Non mi sembra, i genovesi non sono precari di spirito, non c’è un senso di precarietà. C’è un senso di attenzione, costante, di cautela. Di prudenza, questo sì. Non erano vite precarie, quelle intorno al cavalcavia, erano vite attente. Come le vite di chi è costretto ad abitare a Begato 3 o tra le speculazioni della periferia collinare, anche se preferirebbe vivere a Villa Scassi o su una spiaggia, come tutti. Ma non sono vite precarie, le loro. Sono le porcate che rendono le vite precarie.
Pensando al suo «Romanzo della Nazione», viene in mente la stratificazione che caratterizza Genova, dal punto di vista urbanistico e per l’identità corale costruita dalle memorie e dalle vite di tutti coloro che sono stati accolti sotto quei ponti…
Vede, a Genova, che ha una vocazione industriale, c’era anche orgoglio per quel ponte venuto su negli anni ’60, nel pieno dell’illusione della grande città dell’acciaio. Quel ponte così slanciato e così sovietico, era il sol dell’avvenire. Anche io, che non faccio l’operaio metallurgico, provavo orgoglio. Insomma, se ci si doveva convivere, tanto valeva farci amicizia. Era fidato, era un’amicizia fidata. So che dico una stupidaggine, così sembra, ma io mi ci sono seduto sotto quel ponte, ci facevo merenda…
Il ponte è crollato in parte sui capannoni industriali, sull’Ansaldo Energia. Sembra un po’ una metafora. Sembra il segno della fine di un’era. Lei crede che d’ora in poi qualcosa cambierà a Genova?
Sì, certo. È il segno che Genova è morta. Certo che cambierà. Se si vuole un’immagine di Genova che crepa, è quel ponte che crolla. L’hanno ammazzata. Perché sono più di dieci anni che sappiamo che un ponte di calcestruzzo, come oggi non se ne fanno più, è infido e va curato. Va tenuto sotto controllo, perché è come un cancro ai polmoni: ci si accorge che è marcio solo quando è troppo tardi.
La società autostrade assicura che era monitorato e manutenuto costantemente.
Sì, sostiene che era sottoposto ad un monitoraggio avvenieristico. Ma abbiamo visto venir giù due campate intere di un ponte alto centro metri, uno degli orgogli dell’ingegneria stradale. Vede, io non sono una persona particolarmente aggressiva però voglio sperare che questa sera una decina di dirigenti della società autostrade finiscano in manette. E su tutti i siti d’informazione d’Europa, quelli dove oggi c’è l’immagine di una città che muore.