Fonte: Italianieuropei
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Scriviamo mentre ancora sono accesi gli ultimi fuochi della guerriglia che Donald Trump ha scatenato contro il risultato elettorale e contro i principi della democrazia americana. Ma ormai il mondo ha preso atto dello scenario nuovo determinato dalla vittoria di Joe Biden e Kamala Harris e si interroga su quali cambiamenti potranno determinarsi nella politica americana. È difficile pensare, e su questo concorda la maggioranza degli osservatori, che possa esservi un mutamento radicale delle politiche americane verso la Cina e la Russia. Gli Stati Uniti percepiscono questi paesi come una minaccia al loro primato economico – la Cina – e al loro primato in termini strategici e militari – la Russia. Ma è certamente probabile, invece, che vi sia un cambiamento nel rapporto tra USA ed Europa. La leadership democratica europea troverà finalmente, di nuovo, un interlocutore americano capace di parlare lo stesso linguaggio. Al di là delle differenze di interessi e di punti di vista, questa comune cultura democratica è la condizione perché l’Occidente torni ad affrontare in modo unitario le sfide che ha di fronte a sé, tra cui, prioritaria, quella della costruzione di un nuovo ordine internazionale. L’illusione che dopo la fine della guerra fredda il mondo si unisse intorno all’egemonia dell’Occidente e dei suoi valori è tramontata. Siamo invece in un mondo irriducibilmente plurale e lacerato da aspri conflitti. Non appare ragionevole tornare alle fratture della guerra fredda, ma occorre trovare la via della convivenza e della collaborazione. Aiutare gli Stati Uniti a muovere in questa direzione sarà il compito dell’Europa.
Le elezioni americane rappresentano per i progressisti europei una grande opportunità e un motivo serio di riflessione. I democratici americani hanno davvero trovato la ricetta per sconfiggere il populismo sovranista? E in cosa consiste questa ricetta? E infine, che cosa vi è di importabile in Europa e di istruttivo per noi nell’esperienza degli Stati Uniti? Alcuni si sono già lanciati in una lettura facile e tradizionale: si vince al centro. La mia opinione è che questo giudizio sia semplicistico e non renda conto delle condizioni particolarissime che hanno consentito la sconfitta di Trump. Il dramma della pandemia ha condizionato in modo determinante il confronto elettorale americano. Gli Stati Uniti sono stati il paese più drammaticamente colpito, nel mondo, dal Covid-19. Questa prova ha messo in luce la pericolosità e la rozzezza dell’impianto antiscientifico e anticulturale della politica populista. Ha messo in discussione un modello di società basato in modo esclusivo sulla competizione e sull’individualismo, ha radicalizzato il confronto sul terreno ideale e culturale. Questo ha consentito ai democratici di unire uno schieramento vastissimo, che ha compreso e valorizzato – non escluso – anche le posizioni più radicali della sinistra americana. Non credo che l’immagine rassicurante di Biden e l’idea di un ritorno al politically correct avrebbero mobilitato 75 milioni di americani portando a un risultato mai raggiunto nella storia di quella democrazia. Al contempo, le elezioni hanno messo in evidenza come, al di là di ogni ragionevolezza, il radicamento sociale del sovranismo e della destra abbia retto al di là dell’evidente fallimento della gestione Trump del dramma della pandemia. Pure sconfitto, Trump è rimasto il candidato più votato della destra americana.
Nessun errore sarebbe più grave adesso di quello di pensare che l’esperienza di questi anni sia stata una parentesi che può essere chiusa con un puro e semplice ritorno allo status quo ante. È evidente che il populismo sovranista è l’espressione di drammatiche contraddizioni irrisolte e che si sono aggravate negli anni dell’euforia neoliberale. La crescita delle diseguaglianze sociali, l’impoverimento e l’insicurezza delle classi medie, lo smarrimento di quella grande parte dei cittadini dei nostri paesi privi degli strumenti economici e culturali per dominare le novità del mondo globalizzato e coglierne le opportunità sono all’origine di un rancore sociale che frammenta la società e contesta radicalmente l’egemonia delle élite politiche e intellettuali. Occorre un’agenda coraggiosa di cambiamento. Si potrebbe, in estrema sintesi, dire che la grande sfida è quella di una riforma del capitalismo globale tale da renderlo compatibile con la democrazia, con un grado ragionevole di eguaglianza sostanziale e con la protezione dell’ambiente naturale. È una sfida che non può essere affrontata sulla base delle idee di cui si è nutrita la sinistra liberale degli ultimi venticinque anni. Nessuno pensa che si possa semplicemente ritornare all’esperienza socialdemocratica che consentì all’Europa gli straordinari successi del dopoguerra, né che si possa riproporre, per gli Stati Uniti, il New Deal roosveltiano. Ma bisognerà inventare le forme nuove in cui la politica potrà tornare a regolare lo sviluppo, in un tempo in cui appare sempre più insostenibile la contraddizione fra globalità dell’economia e carattere nazionale della politica. È evidente che questo non può essere il programma dei progressisti nel governo di un solo paese. Ma è tale il peso degli Stati Uniti d’America che, se la nuova Amministrazione si orienterà in questa direzione, ciò non potrà non avere effetti su scala globale.
La vittoria di Joe Biden accentua lo spiazzamento della destra italiana. La destra a trazione sovranista del nostro paese, pur avendo una forza consistente nella società e prevalendo nel governo delle Regioni, appare tuttavia priva di una credibile proposta per il governo del paese. Il nazionalismo antieuropeo che ha favorito l’espansione della Lega si è afflosciato per effetto della reazione dell’Unione alla crisi della pandemia. È più che mai evidente infatti che non c’è alcuna prospettiva per il nostro paese se non nel quadro delle scelte europee del Recovery Fund e della Next Generation EU. Così come è chiaro che senza l’attivo sostegno della Banca centrale europea il crescente debito pubblico italiano diventerebbe rapidamente insostenibile. Insomma, la svolta europea che, accantonando le politiche di austerità, ha imboccato la strada di un gigantesco impegno solidale per la crescita e il rilancio della nostra economia ha radicalmente mutato lo scenario e tolto alla destra una parte fondamentale del suo armamentario politico e propagandistico. Appare inoltre evidente alle classi dirigenti del nostro paese, in particolare quelle economiche, che l’avvento di una leadership ostile all’Europa comporterebbe costi non sostenibili per il nostro paese e per la nostra economia.
Dopo le elezioni americane risulta ancora più evidente che il governo attuale, basato sulla collaborazione tra il Movimento 5 Stelle e il centrosinistra, non ha ragionevoli alternative, almeno fino a quando la destra italiana non si sarà data una leadership e una strategia credibili. Credo che questa situazione renda ancora più stringenti le responsabilità di chi oggi governa il paese. Non parlo soltanto del problema della forza e dell’efficacia dell’azione di governo, alla prova difficile della seconda ondata della pandemia. Ciò su cui qui voglio attrarre l’attenzione è piuttosto la complessità della sfida politica con la quale devono misurarsi le due forze fondamentali che compongono la maggioranza su cui poggia il governo del paese.
Si sono appena conclusi gli Stati Generali del Movimento 5 Stelle. Il risultato è la fotografia delle difficoltà della forza che ha vinto le ultime elezioni politiche e che ha la maggiore responsabilità nel governo. Al di là delle disquisizioni su numero dei mandati, direttori e complesse relazioni tra gli eletti e la piattaforma Rousseau, c’è, con ogni evidenza, un nodo politico e culturale che il congresso non ha sciolto. Il Movimento 5 Stelle si è proposto come una forza che punta a rinnovare radicalmente la politica e il rapporto tra quest’ultima e i cittadini. Questa istanza di rinnovamento è stata fondata su una visione del conflitto che ha considerato superato il tema del confronto tra destra e sinistra e teorizzato la possibilità per un movimento di cittadini di spazzare via un’intera élite politica considerata sostanzialmente come un insieme indifferenziato, arroccato nella difesa di insostenibili privilegi. In realtà, nell’esperienza concreta che il Movimento ha vissuto dal momento in cui si è trasformato da movimento di opinione in forza politica e di governo vi è stata la verifica che questo schema culturale non regge alla prova dei fatti. Anzitutto perché il Movimento 5 Stelle ha sperimentato l’esistenza della destra e ha maturato la consapevolezza dell’impossibilità di portare avanti le sue istanze di rinnovamento in una collaborazione con il sovranismo nazionalista. Nella concretezza dell’esperienza politica ha dovuto prendere atto della complessità del conflitto, dell’esistenza di tensioni sociali che non possono essere ridotte alla rivolta dei cittadini contro il ceto politico. In questo quadro sono maturate le condizioni per una collaborazione tra 5 Stelle e centrosinistra che non può essere considerata come una circostanza casuale ma deve essere reinterpretata come una scelta strategica. Ciò che occorre non è soltanto un gruppo dirigente che ne abbia consapevolezza, ma una nuova narrazione capace di rendere conto di ciò che è vivo nella impostazione originaria e di ciò che invece deve essere considerato caduto perché privo di fondamento. Sarebbe sbagliato non riconoscere che nel congresso sono emerse voci e posizioni più consapevoli; ma ancora i nodi non sono sciolti e ciò rende l’equilibrio politico incerto e problematico.
Da parte sua la sinistra non può sottrarsi a una coraggiosa opera di rinnovamento. I gruppi dirigenti del centrosinistra e, in particolare, del Partito Democratico hanno compiuto una scelta giusta avviando la collaborazione di governo con i 5 Stelle. Di questo esecutivo hanno sostenuto il peso maggiore e hanno affrontato la difficile battaglia delle elezioni regionali riuscendo a reggere sia pure senza la solidarietà del principale alleato. Non è un risultato di poco conto e credo che questo dia alla nuova generazione dei dirigenti della sinistra la possibilità oggi di imprimere una svolta coraggiosa. L’ambizione da cui nacque il Partito Democratico era di dare vita a una grande forza in grado di confederare in sé le diverse culture democratiche e riformiste. La visione del sistema politico era di una tendenza verso un sostanziale bipartitismo all’americana. In questo quadro la concezione del partito è stata quella di una forza programmatica che si lasciava alle spalle le ideologie del Novecento riconoscendosi in un elenco abbastanza generico di valori democratici. Un partito leggero e aperto alla società civile che, sostanzialmente rinunciando al compito di selezione e formazione delle classi dirigenti, si affidava al meccanismo delle primarie per raccogliere personalità espressione della società. In uno schema maggioritario e bipartitico è evidente che questo partito non era concepito per costruire alleanze, bensì come una forza con una aspirazione maggioritaria. Bisognerà pur riconoscere che questo progetto è fallito. Non perché ne sono state tradite o disattese le ambiziose premesse; ma, al contrario, proprio perché i fondamenti culturali di questo progetto e l’analisi della società italiana cui esso alludeva si sono rivelati fragili e inadeguati. È anche vero che ogni tentativo di costruire fuori dal Partito Democratico una prospettiva politica alternativa e convincente ha prodotto esiti scarsamente consistenti e sostanzialmente minoritari. Il campo progressista in Italia si presenta oggi come un insieme frantumato intorno a una forza maggiore, la quale non solo non potrebbe ragionevolmente proporsi con una ambizione maggioritaria, ma non appare neppure in grado di organizzare e di dare espressione a quel 30% della società italiana che si è sempre riconosciuto nella sinistra. Nello stesso tempo la crisi ha spinto l’Italia e tutta l’Europa in una direzione molto diversa rispetto a quella americanizzazione della politica che era stata immaginata dieci anni fa. I sistemi politici sono più che mai frantumati, i conflitti si sono radicalizzati, tornano in campo prepotentemente le ideologie, soprattutto a destra. In un momento di così drammatica crisi e di smarrimento una forza politica che non abbia una visione del futuro, che non sappia rappresentare un modello di società, che non recuperi cioè una propria ideologia finisce per avere un rapporto superficiale e fragile con il paese e con i cittadini.
Il Partito Democratico si batte in Parlamento per una legge elettorale proporzionale con lo sbarramento al 5% sul modello tedesco. È una scelta significativa e impegnativa, che va nella direzione completamente opposta rispetto al modello politico e culturale da cui il PD prese origine. È evidente, infatti, che una legge elettorale di questo tipo spinge verso un sistema politico in cui torna essenziale il ruolo dei partiti, in cui i governi sono necessariamente di coalizione, magari rafforzati come in Germania dalla introduzione del principio costituzionale della sfiducia costruttiva. Una scelta di questo tipo comporta coraggio, determinazione e chiarezza di idee sul piano dell’azione politica. Ciò significa mettere in campo un progetto di ricostruzione della sinistra democratica, facendo i conti con serietà con ciò che deve essere cambiato nell’impianto organizzativo e culturale del PD e spingendo gli altri a mettere da parte velleità minoritarie e a gettarsi con impegno e disponibilità in un progetto unitario.
Sarebbe sbagliato considerare questa prospettiva come un ritorno all’antico. Ci sono novità che si sono affermate negli ultimi anni e dalle quali non si potrà e non si dovrà tornare indietro. A partire dal fatto che non è pensabile oggi una forza progressista e democratica che non sia fondata al tempo stesso sulla tradizione socialista e su quella cattolica. Allo stesso modo appare evidente che il tema dell’eguaglianza sociale non può che combinarsi strettamente con quello del rapporto dell’uomo con la natura, della conciliazione tra esigenze di sviluppo e di tutela dell’ambiente. Sono, questi, aspetti di un dibattito costituente che dovrà essere portato avanti con coraggio e con la mobilitazione delle forze sociali e intellettuali del campo progressista.
In questo numero di “Italianieuropei” vi sono contributi importanti in tale direzione, che presentiamo senza alcuna pretesa di esaustività ma con l’intento di indicare una strada e gettare un seme. Lo facciamo con fiducia verso una nuova generazione cui spetta il compito di ricostruire e di intraprendere il cammino verso il futuro.