Massimo Cacciari: Non ha vinto Trump, ha perso la sinistra

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Massimo Cacciari
Fonte: La stampa

Massimo Cacciari: Non ha vinto Trump, ha perso la sinistra

Nessuno si attendeva una vittoria di Trump tanto netta, a dispetto delle vicende giudiziarie e dello “stile” del personaggio. Sarebbe cosa buona e giusta che i sedicenti democratici-progressisti in giro per l’Occidente comprendessero che nell’orientare il voto dei loro concittadini pesano fattori più consistenti, più strutturali.

Lasciassero perdere gli elementi retorici e cercassero di capire che cosa “persuade” dei Trump, dai quali, di volta in volta, vengono sonoramente sconfitti. È sempre bene prendere sul serio i propri avversari, collocarli nell’onda lunga di una storia comune, interpretarli come segno profondo di un’epoca. Così si impara anche da loro e le sconfitte non si trasformano in inutili disastri.

 

Credo che il fattore decisivo negli ultimi mesi dell’affermazione di Trump sia risultata la discesa in campo netta, prepotente della maggioranza delle grandi corporations, dei Musk, dei gruppi come la Heritage Foundation, delle potenze economiche, finanziarie e industriali che hanno fatto triliardi negli ultimi anni grazie anche a epidemie e guerre. Retorica anti-comunista scatenata e insaziabile fame di profitto. Distruzione di ogni residuo spazio di intervento pubblico per scuola e sanità, taglio a pensioni, povertà assunta come stigma di mancanza di iniziativa, di pigrizia intellettuale, di parassitismo sociale. La vittoria di Trump è anzitutto l’inequivocabile simbolo dello strapotere delle corporations sulla vita sociale e politica. E il boom borsistico che ne è seguito mi pare abbastanza eloquente. Certo, la domanda decisiva è oggi questa: potrà mai esservi un Politico in grado di stabilire un qualche “patto” con gli agenti fondamentali dello sviluppo economico e tecnologico, o il suo destino consiste nell’entrare in perfetta simbiosi con i loro interessi, col diventarne un lord protettore?

Posta la domanda, costantemente rimossa dalle retoriche su democrazia e sovranità popolare, non si è però neppure sfiorata la questione. Perché votano i Trump proprio coloro che più dovrebbero detestarne strategia e intenzioni? Perché votano i Trump immigrati nei cui confronti costoro invocano la deportazione? È una lunga storia, che se i sedicenti democratici-progressisti non ripercorreranno con spietata autocritica suonerà definitiva molto più della loro condanna, assisteremo alla conclusione della giovane avventura delle democrazie occidentali, come le abbiamo sperimentate, nelle loro diverse forme, nel corso del secondo dopoguerra. Il vecchio modello di welfare non poteva reggere: il suo modello si fondava su irripetibili ragioni di scambio del tutto favorevoli ai Paesi industrializzati dell’Occidente e su un intervento pubblico finanziato da deficit crescenti e una pressione fiscale concentrata sul lavoro dipendente. Le vecchie culture popolari e socialdemocratiche non sono riuscite a elaborare alcuna strategia alternativa, alcuna riforma delle strutture istituzionali e amministrative capaci di garantire nuove risorse. Sono fallite sul terreno che era tradizionalmente il loro: una efficace politica ridistributiva. Settori sempre più ampio di popolazione a reddito fisso, piccole imprese, lavoro dipendente si sono trovati nel giro di una generazione senza alcuna rappresentanza né politica né sindacale, a doversi accontentare di questa promessa: bisogna allargare la torta perché il benessere continui, la torta la sanno allargare soltanto i grandi gruppi economico-finanziari, aspettiamo che lo facciano e poi vedremo…. La narrazione è stata sostanzialmente accolta dai “democratici”; alla leggenda che smantellamento dello Stato sociale e riduzione di imposte a prescindere da efficacia e giustizia del sistema fiscale fossero premessa di ogni sviluppo, al modello neo-liberista, anche nelle sue versioni più estreme, ci si è arresi prima, a volte, di combattere.

 

Qui è mancata una minima coscienza delle “regolarità” della storia. Quando ceto medio e classi lavoratrici sono obbiettivamente minacciati nel loro status economico e sociale, quando una crisi globale, come quella che stiamo vivendo, ne attacca gli interessi, quando perciò cresce, anche nelle forme più irrazionali, il bisogno di sicurezza e protezione, aumentano in proporzione le potenzialità di affermazione della destra. Contro questa fisiologica tendenza delle società democratiche occorreva far fronte non solo mostrando come una politica di sviluppo non coincidesse per legge di natura con le ricette neo-liberiste, ma moltiplicando gli sforzi per “sindacare”, e cioè condurre a unità, organizzativamente e culturalmente, i ceti più colpiti dalla crisi, per radicarsi nei territori, nei luoghi, nei distretti produttivi che più drammaticamente la vivevano. Altro che ricerca del leader maximo, e altro che lamenti sul “miserabilismo” etico dei Trump. La destra vince inesorabilmente, votata dai ceti più popolari, quando i sedicenti progressisti diventano puri conservatori, quando credono si tratti di “conquistare” il voto dei “moderati”. Peggio, una politica “moderata” invece che radicalmente riformista spinge per forza la destra a cavalcare sempre più pericolosamente argomenti contrari a ogni Stato di diritto, a esaltare le sue vocazioni autoritarie. Il caso Trump è emblematico.

Ultimo e più doloroso capitolo. È del tutto evidente che condizioni di guerra sull’orlo della catastrofe contrastano con gli interessi più elementari del “popolo sovrano”, non dei Musk. Assistiamo al paradosso di un Trump che aumenta i suoi consensi anche promettendo di indossare le vesti del pacificatore, mentre quelle forze che si richiamavano, una volta, magari ai più astratti pacifismi, oggi non muovono un dito né avanzano una concreta proposta di mediazione per le tragedie in atto. Eppure proprio questo sarebbe nell’interesse della propria nazione, degli Stati europei in primis. Rovesciamenti simili non possono essere l’effetto di cause contingenti. Sono segni di un salto d’epoca nel quale le democrazie dell’Occidente traballano nelle fondamenta. Capirlo è il primo passo per correre ai ripari.

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