Fonte: La stampa
La tendenza del potere politico a esercitare un’influenza diretta sui media dell’informazione esprime una legge di natura più che un esplicito atto della volontà. Occorre un po’ di disincanto nell’affrontare il problema: chi esercita il potere, proprio perché lo esercita erga omnes, è inevitabilmente propenso a rappresentarsi come espressione della “volontà generale”. E la “volontà generale”, come è noto, tollera a fatica l’esercizio della critica. Questa, come dice il suo nome, è tale soltanto se giudica, analizza e divide. E deve farlo anche nei confronti di quelle posizioni con le quali magari si trova a concordare, poiché la sua funzione consiste appunto nello smascherare ogni pretesa o presunzione di totalità. Presunzione o illusione che il potere alimenta per forza.
Chi vuole svolgere una funzione di critica dell’ordine di cose esistente e di coloro che lo governano pensi a farlo per bene e lasci perdere gli alti lai sulle pulsioni censorie di questi ultimi. Farlo bene significa formare e non semplicemente informare. Formare significa far conoscere, mostrare le cause di un fenomeno, indagarne le ragioni, interrogarne tutti i fattori. Formare è educare alla complessità del reale. Il potere si schiera – e sempre a favore di sé stesso. Chi informando forma, invece, giudica e prende parte, certo, ma non si schiera mai come fosse dogmaticamente certo della propria verità e mai prima di avere compiuto ogni sforzo per conoscere le ragioni anche delle posizioni che critica. C’è stata grande stampa, da noi e altrove, che ha così cercato di operare, attraverso indagini, inchieste, libera da pregiudizi, una stampa che con onestà intellettuale dichiara la propria parzialità senza mai cadere in caricaturali demonizzazioni dell’avversario.
E ora? Cambia il contesto politico e cambia quello dell’informazione. Più un ceto politico è autorevole, più esso è stato formato, più sarà in grado di correggere quella sua naturale propensione a tollerare malamente l’esercizio della critica. E magari, alla fine, riuscirà anche a comprendere che democrazia è conflitto, arcipelago di culture e visioni del mondo, irriducibile a qualsiasi organicistica unità. Avviene l’opposto quando esso si affida a ritmo quotidiano a impressioni e sondaggi, quando il consenso di cui gode è l’immagine stessa dell’effimero. Esso sarà allora fisiologicamente costretto a cercare l’appoggio dei media e perciò a controllarne il lavoro per quanto possibile. Ma non sta qui il fattore che rende sempre più ardua la funzione di un’informazione davvero libera. Alle pretese del potere si può sempre rispondere “preferirei di no”. Ma come opporsi al sistema generale che oggi regola il mercato delle forme di comunicazione? È questo che travolge l’informazione tradizionale e dunque quelle isole di libertà critica che essa al proprio interno permetteva. Il sistema attuale o fornisce semplici raccolte di dati o accumula e diffonde nelle sue reti affetti, impulsi, pulsioni, una piena confusa di frustrazioni, rivendicazioni e desideri. Il sistema è organicamente strutturato per rendere impossibile la costruzione di un discorso critico e di un dialogo sulla sua base. Ed è esso che forma oggi l’opinione pubblica e la società civile.
I grandi teorici della democrazia contemporanea avevano profetizzato un tale sviluppo già nel corso del XIX° secolo. Allora i giornali, che qualcuno chiamava “la preghiera laica del mattino”, espressione di tendenze politiche chiaramente definite, dovevano cercare di motivare razionalmente la propria posizione. Questa esigenza si è fatta via via più debole già col mercato televisivo, dove il discorso ha assunto sempre più le caratteristiche del lancio pubblicitario, fino a sparire programmaticamente nel multiverso di social e influencer. E in tale tempestoso oceano affonda anche la comunicazione e la propaganda politica. Il politico cerca il proprio consenso nella polverizzazione di opinioni che la rete presenta e riproduce, non si rivolge a soggetti sociali in qualche modo già formati, a sfere di interessi definite, ma a miriadi di puri individui attraverso miriadi di spot.
Se questa situazione rende sempre più debole l’azione politica e di governo, sempre più fragile il consenso di cui può godere, essa, d’altra parte, contraddice per sua natura quell’istanza critico-razionale che dovrebbe contraddistinguere un’informazione libera. Quest’ultima, infatti, non può non fare i conti con la concorrenza poderosa della rete attraverso cui in grandissima misura si formano gli orientamenti della società civile. Da qui nascono le infelici quanto inefficaci imitazioni giornalistico-televisive delle forme di comunicazione social. Se politica e mondo dell’informazione riconoscessero che le loro difficoltà vengono essenzialmente dalla situazione storica e non da carenze soggettive (che ci sono, ma puro contorno), forse la prima capirebbe che un giornalismo critico potrebbe aiutarla a liberarsi dall’estenuante inseguimento dell’opinione, e il secondo si sforzerebbe con più decisione a definire la propria natura rispetto alle forme di comunicazione dominanti, senza fingere che la propria crisi derivi da prepotenti tensioni autoritarie di qualche Esecutivo.
Utopistica questa intesa? Allora realistico è solo che politica e informazione subiscano il dominio dei nuovi Sovrani: i padroni delle reti. È stato detto, con assoluta ragione, che nessun regime del passato disponeva delle possibilità attuali per realizzare un controllo così totalitario dei comportamenti del pubblico. Un controllo che si trasforma in produzione di tendenze e prospettive. Ogni individuo è oggi un addetto di questo sistema, tutti siamo suoi lavoratori dipendenti. Non dovrebbe essere questo l’epocale problema su cui politica e giornalismo discutono, e discutono insieme, invece di smarrirsi in impotenti duelli? Non dovrebbe essere la loro reciproca libertà, e se e come essa possa non risolversi in nostalgie e lamenti, la questione all’ordine del giorno per entrambi? O è destino che la “nuova politica” finisca con l’identificarsi con la Sovranità della rete e l’informazione critica nel museo della democrazia?