Fonte: l'Espresso
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intervista a Ignazio Marino di Alessandro Gilioli 2 giugno 2016
«L’hanno scelto solo perché risponde direttamente al capo. È tra i responsabili del debito mostruoso di Roma e ha imbarcato tutti quelli che si sono coalizzati con la destra per mandarmi via. Lui stesso sa di non essere capace di fare il sindaco. La candidata grillina? Una donna con una forte personalità. Ma anche Fassina potrebbe avere molti voti dei miei sostenitori». Parla l’ex primo cittadino della capitale
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Ignazio Marino, 61 anni, sindaco di Roma dal 12 giugno 2013 al 31 ottobre 2015, chirurgo, professore universitario, ex senatore indipendente nelle liste dei Ds (2006-2008) e poi Pd (2008-2013), già candidato alla segreteria del Pd nelle primarie del 2009, partito a cui è ancora formalmente iscritto (ma – dice – «mi prenderò una pausa di riflessione fino a quando partirà il prossimo tesseramento»). Autore di diversi libri di cui l’ultimo è “Un marziano a Roma” uscito per Feltrinelli il 31 marzo scorso: un duro atto di accusa verso il Pd che lo ha messo alla porta e una orgogliosa rivendicazione di quello che ha fatto nei due anni e mezzo in cui è stato sindaco della capitale d’Italia.
Professor Marino, che cosa fa da quando non è più sindaco?
«Subito dopo l’appuntamento dal notaio dei consiglieri del Pd, del Pdl e della lista Marchini che hanno dato uno schiaffone in faccia a 700 mila romani decretando la fine del mio mandato, ho accettato un’offerta della Temple University di Philadelphia, dove ho insegnato per questo semestre. Ora il ciclo di lezioni si è concluso, riprenderò a settembre. Intanto sto valutando un’offerta del presidente della mia università, la Thomas Jefferson University. Insomma, mi sono immerso nuovamente nel mondo in cui ho lavorato per più di un terzo secolo. Ma non ho abbandonato la passione civile sia per i temi che riguardano la città di Roma sia per quelli che seguo da sempre, dalla sanità pubblica ai diritti civili, dalla scuola alla ricerca scientifica».
Quindi ha passato molto tempo negli Stati Uniti?
«Sì, ho fatto diversi viaggi. Sono stato invitato anche a fare una lezione molto prestigiosa che ogni anno viene affidata a un chirurgo diverso, la Longmire Visiting Professorship dell’Università della California, a Los Angeles (Ucla)».
È anche tornato in sala operatoria?
«Sì, ma non ho operato. Però penso spesso di tornare a farlo, confesso che anche quando facevo il sindaco spesso di notte sognavo di fare interventi e trapianti, mi capita ancora almeno due o tre volte a settimana. È qualcosa che ho fortemente dentro».
Intanto ha scritto anche il libro sulla sua esperienza da sindaco, che ha fatto molto discutere e che lei sta ancora presentando in giro per l’Italia. Reazioni più diffuse?
«La più frequente è la delusione, talvolta la rabbia, di chi si sente di sinistra e democratico e si chiede come il Pd sia potuto andare da un notaio per fare cadere un sindaco – il suo sindaco, il sindaco che per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale aveva vinto anche in tutti i 15 municipi. Tutti vedono questa violenta lesione del rapporto democratico diretto tra un sindaco e i cittadini avvenuta a causa di una coalizione che gli elettori non avevano votato e fatta da consiglieri del Pd, del Pdl e di Marchini. Non sono voluti andare in aula perché lì quella coalizione molto imbarazzante si sarebbe vista: ogni consigliere si sarebbe dovuto alzare con chiamata nominale per sfiduciarmi. Ecco perché sul mio sito ho messo questa foto: così si vede in modo chiaro com’era quella coalizione».
Queste persone, intendo dire quelle del Pd, ora sono quasi tutte candidate con Giachetti. Come Cecilia Fannunza, Marco Palumbo, Daniele Parrucci e la moglie del ministro Dario Franceschini, Michela Di Biase…
«Sì, tutti gli ex consiglieri del Pd che hanno voluto ricandidarsi e persino Svetlana Celli, eletta nella Lista Civica Marino, dopo essere andati dal notaio per far cadere la mia giunta sono stati accontentati. E oggi sono in lista con Giachetti. Per la precisione, 10 su 19».
Ma è vero che la signora Di Biase Franceschini era un po’ la capobanda di quelli che l’hanno fatta fuori?
«Di sicuro è tra quelli che hanno iniziato a spararmi addosso per primi. Già alla fine dell’estate 2014, in un’accesa riunione del Pd, sostenne che bisognava “liberarsi di questo Marino”. Diciamo che Dio li fa e poi li accoppia».
In che senso?
«Per suo marito, il ministro, c’è una definizione, non mia, molto calzante: “Per sapere dove sta la maggioranza del Pd bisogna vedere dove sta Franceschini, perché lui si siede in maggioranza sempre un minuto prima degli altri”. E sa chi lo disse? Matteo Renzi».
Nel suo libro, Marino, però non c’è nemmeno un po’ di autocritica. Sembra che sia tutta colpa degli altri.
«In realtà ci sono tre elementi di autocritica molto severi. Il primo riguarda il grave errore che ho commesso disinteressandomi completamente della costituzione della squadra dei consiglieri comunali. Io ero concentrato nel programma e nella consultazione degli specialisti che potevano aiutarmi a risolvere i problemi della città, quindi non ho messo attenzione a chi veniva candidato ed eletto nel Pd. Ho affidato la questione completamente al Partito democratico e ho sbagliato. Forse non sarei stato in grado di capire che qualcuno sarebbe stato arrestato, ma avrei intuito se avevano una vera passione per il cambiamento o solo per il potere».
Parla ad esempio di Mirko Coratti, Pd, allora presidente del consiglio comunale finito nell’inchiesta di Mafia Capitale.
«Sì, anche. Spero che Coratti, scelto dal Pd come presidente del Consiglio comunale e poi arrestato, riesca a dimostrare la sua innocenza, e così gli altri politici sotto processo: ma quegli arresti sono stati una ferita profonda».
Altri errori per cui fa autocritica?
«Il secondo è stato commesso durante il mio mandato. Quando mi sono sempre preso la responsabilità degli errori commessi da altri, come facevo da chirurgo se qualcosa andava male durante l’operazione. Invece in alcune occasioni avrei dovuto cambiare alcuni elementi del mio staff».
Il terzo errore?
«Non ho mai voluto creare uno scontro con Palazzo Chigi. Un po’ per senso di responsabilità mia, un po’ perché tutti mi consigliavano di fare così. Quando il capo del governo nemmeno mi rispondeva al telefono e si rifiutava di incontrami, anche durante la tempesta degli arresti per Mafia Capitale, io avrei dovuto alzare la voce. Invece non l’ho fatto, per non provocare scontri istituzionali. A posteriori posso dire di aver sbagliato. Avrei dovuto dire pubblicamente al Paese che dopo gli arresti per Mafia Capitale il presidente del consiglio si rifiutava di parlarmi».
Ma lei quando ha smesso di parlare con Renzi?
«L’ultima volta che ci siamo parlati veramente è stato nel settembre del 2013. Lui era ancora sindaco di Firenze e stava candidandosi alle primarie per la segreteria del Pd. Poi l’ho rivisto brevemente a un incontro del governo con l’Anci, a Palazzo Chigi, nell’aprile del 2015, ma in quel caso non ci fu occasione per confrontarsi».
Mi sta dicendo che durante tutto il suo mandato di sindaco non ha mai avuto un rapporto con Renzi premier?
«Esatto. Fino a un certo punto non ce n’era nemmeno bisogno. All’inizio del mio mandato ebbi una ottima collaborazione con il governo Letta e in particolare con il Ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni che accettò la mia richiesta di inviare gli ispettori della Finanza in Campidoglio per controllare i conti del passato. Successivamente mi vedevo spesso – alle sette del mattino, in Campidoglio – con Graziano Delrio, quando era sottosegretario alla presidenza del Consiglio e Giovanni Legnini, ora vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura ma che allora collaborò molto nell’aiutarmi a disegnare il piano di rientro dal debito miliardario della Capitale, quando era sottosegretario all’Economia. Sul tema della riorganizzazione della scuola ci sostenne il ministro Madia. Poi, nell’aprile del 2015, Delrio è diventato ministro delle infrastrutture e io non ho più avuto un vero interlocutore a Palazzo Chigi. Un mese dopo, giugno 2015, l’inchiesta Mafia Capitale ha portato a una quarantina di arresti tra cui quello del presidente Coratti, di alcuni eletti del centrodestra e di alcuni eletti del Pd. Allora ho cercato Renzi: ma come le dicevo lui si negava al telefono».
Ma perché lo faceva?
«Ah, non ne ho idea. Ma io ho continuato a non dire nulla su come si stava comportando il capo del governo. Perfino tre mesi dopo, quando è esplosa la vicenda dell’elicottero dei Casamonica».
Già, agosto 2015: per il funerale di un boss, un elicottero ha sorvolato abusivamente Roma gettando petali di rosa dal cielo…
«Tutti sanno che lo spazio aereo di Roma, dove c’è anche il Papa, non lo controlla il sindaco ma il governo, che possiede i radar e l’aviazione. Invece io fui attaccato come se avessi la colpa di quello che era successo. Avrei potuto indicare il vero responsabile, invece sono stato zitto. Oggi penso che quella signorilità nei rapporti istituzionali sia stata un errore».
Fin qui il passato, ma veniamo al presente. Sta seguendo le elezioni a Roma?
«Mi pare che sia una campagna davvero bizzarra. I temi su cui si è acceso di più il dibattito sono state le affermazioni stralunate del campione di polo Alfio Marchini sull’hashish che impedisce il risveglio dal coma o la questione se Mussolini sia stato o no un grande urbanista. Mi piacerebbe che si parlasse di trasporti, rifiuti, lotta alle clientele, aiuto agli indigenti, gare pubbliche, illuminazione: tutte cose su cui in due anni e mezzo noi abbiamo fatto il massimo che potevamo fare, ma su cui i partiti oggi dicono cose vaghe, a volte con amnesie incredibili».
Ad esempio?
«Mi ha fatto molto sorridere uno dei punti fondamentali del programma di Giachetti, quando dice che Roma deve “dotarsi di un grande piano strategico che le proietti verso il futuro”; e afferma che se verrà eletto “si doterà di un piano elaborato con istituzioni e università per dare una visione alla città”. Forse il candidato del Pd non lo sa, ma noi lo abbiamo pubblicato nell’autunno del 2015, dopo averci lavorato per due anni, dividendo Roma in 25 quadranti e affidandone ciascuno a 25 università diverse, tutte di primissimo piano nel mondo, e su ognuna abbiamo chiesto un progetto, una visione, per ogni singolo quadrante di qui al 2025. Hanno collaborato 600 persone, è un lavoro straordinario. Curioso che Giachetti lo ignori. Ma ha detto che non ha tempo di leggere».
A parte questo, che cosa pensa di Giachetti?
«Li ha visti i suoi manifesti con lo slogan “Roma torna Roma”? Si riferisce al periodo di Rutelli, metà degli anni Novanta, quando lui era capo di gabinetto. Bene, è stato proprio allora che si è ingigantito il debito enorme di Roma, poi arrivato con Veltroni a 22,5 miliardi e ulteriormente aggravato da Alemanno. Un buco che ancora oggi pagano non solo i cittadini romani, ma quelli di tutta Italia, in qualsiasi città abitino: tutti gli italiani pagheranno fino al 2040 mezzo miliardo di euro di tasse in più all’anno per via del debito creato da quella Roma a cui Giachetti vorrebbe tornare. Fa venire i brividi, l’idea che Roma torni a quella che creava quei conti così in rosso. Senza dire che è stata la giunta di Rutelli e Giachetti ad aprire gli stessi campi nomadi che oggi lui dice di voler “superare”, e a non chiudere la più grande discarica d’Europa, Malagrotta, che chiusi io nel 2013».
Pensa che l’opera di pulizia nel Pd romano di cui Orfini e Giachetti parlano sia vera e compiuta? O il Pd romano è ancora lo stesso che ha governato con lei, con tutte le ombre che lei racconta nel suo libro?
«A volte in un ospedale accade che un’infezione costringa a chiudere un reparto: e si può dire che l’infezione è sconfitta solo quando questo reparto viene riaperto. Se dopo due anni il Pd romano è ancora commissariato, quindi gli organismi democratici non sono potuti tornare, vuol dire che lo stesso “primario” Orfini pensa che l’infezione sia ancora in corso».
Giachetti al dibattito su Sky ha sostenuto che lui “a Renzi sa anche dire di no”. Giachetti è autonomo da Renzi?
«Assolutamente no».
Come Virginia Raggi rispetto a Grillo?
«No, peggio».
Peggio?
«Ho conosciuto Raggi in questi due anni e mezzo ed è una donna con una personalità molto forte e per alcuni aspetti anche severa. Non è una persona arrendevole».
Giachetti invece?
«Giachetti disse – lui stesso – di non avere “le doti e le capacità di fare il sindaco di Roma”. Quando Renzi e Orfini dicevano di voler fare un “dream team” per Roma io non avrei mai pensato che scegliessero Giachetti. Credevo che fossero più intelligenti e che avessero una strategia, dopo aver deciso di allontanare me dal Campidoglio. Quindi ho immaginato che candidassero una figura di prima grandezza come Graziano Delrio: uno che ha esperienza da sindaco, che è stato presidente dell’Anci, che mi ha aiutato a fare il piano di rientro del debito a Roma. Uno così lo avrei dovuto sostenere anch’io. Invece hanno tirato fuori il capo di gabinetto di Rutelli negli anni Novanta, quando la giunta faceva quasi un milione di euro di debito in più al giorno. Al giorno, ripeto».
Perché hanno scelto Giachetti, allora?
«Perché risponde direttamente agli ordini del capo».
Quindi lei chi vota, a queste elezioni romane? Nel suo sito ha fatto una dichiarazione in cui pone due condizioni sul debito storico e sul rispetto dell’autonomia del sindaco, ma non è stato molto chiaro…
«Non ho ancora deciso chi votare».
Non mi prenda in giro.
«Tengo molto a quei due impegni, su cui finora non si è esposto nessuno dei candidati. Aspetto che qualcuno risponda. E finora ho sempre evitato di fare un endorsement anche per evitare che il dibattito si attorcigliasse attorno alle dichiarazioni di Marino, anziché essere sulle cose concrete di cui ha bisogno la città».
Quindi?
«Alle urne ci vado. Potrei considerare anche il voto disgiunto, ci sono buoni candidati in diverse liste. Di certo non voterò i miei accoltellatori».
Escludendo che lei voti Meloni o Marchini, le restano solo Giachetti, Raggi e Fassina. Di Giachetti non mi ha parlato benissimo, in questa intervista Raggi ha definito la sua amministrazione “scarsissima”. Così, dalle parti di Fassina, dicono che alla fine lei voterà per lui.
«Se solo Stefano Fassina si impegnasse a proseguire sul risanamento del debito e sul rispetto della legge del 1993 guadagnerebbe certamente consenso tra i miei sostenitori».
E lei, alla fine, perché ha deciso di non ricandidarsi?
«Ho pensato che avrebbe fatto male a me e a Roma. Non volevo che il dibattito elettorale si concentrasse su di me – e sull’attacco alla mia persona – anziché sule cose che servono alla città. Poi in effetti non è che non essendoci io, il dibattito sia invece decollato sui contenuti. Ma non è colpa mia».
Molti guardano a lei come una delle personalità che possono contribuire a una sinistra diversa da quella renziana, fuori dal Pd.
«Lo so. Mi chiedo però se non sia più giusto riprendersi quel Pd che Renzi sta trasformando in un partito di centrodestra, e il cui segretario è a capo di un governo di centrodestra. In questo senso, penso che un appuntamento fondamentale sia quello del referendum sulla riforma della Costituzione».
A cui lei voterà come?
«Voterò no, convintamente. È una presa in giro, i risparmi sono irrisori (si passa da 650 milioni a 600 milioni l’anno di costi), i cento senatori sono tutti nominati dai partiti, non scelti dal popolo; e i primi della lista saranno quelli più a rischio di guai giudiziari, visto che saranno dotati di immunità parlamentare. Senza dire che tutti questi consiglieri regionali trasformati in senatori potranno legiferare in materia di enti locali e, essendo consiglieri regionali, saranno naturalmente portati a conservare più potere alle Regioni impedendo l’autonomia e il decollo delle città metropolitane. Un pasticcio, tutto. Impossibile non votare no».
Intanto, come cittadino Usa, ha votato alle primarie democratiche americane, giusto?
«Sì, per Bernie Sanders. Ma anche Hillary Clinton, che ho avuto la fortuna di conoscere, è una persona eccezionale. Spero che faccia sue alcune delle migliori proposte di Sanders».