Fonte: Sinistra per Canosa
Url fonte: https://sinistrapercanosa.wordpress.com/2017/09/29/il-mantra-della-ripresa-e-il-paese-reale/
di Franco Lafaenza e Pier Paolo Caserta, 29 settembre 2017
Si potrebbe iniziare da un punto a piacere per raccogliere le incessanti dichiarazioni di ripresa che il primo ministro Paolo Gentiloni dissemina giornalmente e ovunque con la pazienza, la costanza e la pacatezza che certamente lo contraddistinguono, in continuità con il suo più baldanzoso predecessore. In compenso, se dovessimo raccoglierle tutte, il compito finirebbe per risultare oltremodo gravoso, circostanza che ci obbliga ad una breve rassegna meramente rappresentativa.
D’altra parte non abbiamo bisogno, dicevamo, di andare troppo indietro nel tempo. Non più tardi della settimana scorsa, parlando alla New York University, il presidente del Consiglio italiano Gentiloni dichiarava di confidare in quei “segni di ripresa” che in Italia “si sono trasformati in una indiscutibile crescita economica” costante dalla seconda metà del 2014, anche se avvisava che “dobbiamo essere prudenti e non perdere il momento nei nostri sforzi di riforma”. Il premier proseguiva rassicurando che “la nostra politica funziona”, per passare ad elencare le riforme fatte dal governo, pur riconoscendo che “ogni centesimo del credito per la ripresa economica va al duro lavoro delle nostre famiglie e dei lavoratori, al settore privato, ai nostri datori di lavoro e manager creativi nei nostri tradizionali settori di specializzazione e in quelli nuovi, ad esempio l’industria della scienza della vita”.
Ci siamo abituati e si può tracciare un filo ininterrotto di dichiarazioni dello stesso tenore; per esempio, passando ad un altro fronte sensibile, quello delle politiche del lavoro: “gli italiani occupati superano i 23 milioni, un record. Ancora molto da fare contro disoccupazione ma effetti positivi da jobsact e ripresa”. Questo dichiarava Gentiloni su twitter lo scorso 31 agosto, con Renzi, del resto molto a suo agio con il mezzo cinguettante, a fargli prontamente eco. Insomma, senza soluzione di continuità, da Renzi a Gentiloni il renzismo di governo continua a reiterare la narrazione della ripresa, dell’Italia che riparte eccetera eccetera, con un’informazione ben poco critica che per lo più si limita a fare da megafono invece di passare al setaccio dati e notizie, come dovrebbe fare.
Perché in tal caso emergerebbe, tanto per cominciare, che il succitato aumento dell’occupazione è l’effetto dei contratti a tempo determinato e soprattutto a part time (simulato), quindi del Jobs act. Un distinguo che andrebbe fatto chiaro, visto che non è esattamente la stessa cosa creare lavoro stabile e “stabilizzare” la precarietà, cioè creare posti di lavoro che non ci saranno più tra qualche mese come, ad esempio, nel settore del turismo. Un altro distinguo necessario riguarda il seguente interrogativo: i tanto decantati 900.000 posti di lavoro recuperati quante ore lavorative in meno e quanto salario di molto inferiore hanno prodotto rispetto a quelli precedenti? Sarebbe opportuno che le statistiche ufficiali (filogovernative) analizzassero i dati in termini di ore di lavoro e di reddito da lavoro effettivo!
Naturalmente conosciamo già la risposta a questi nostri rilievi: non si può più ragionare in termini di posto di fisso e via di seguito con la narrazione tossica del lavoro flessibile, aiutandoci a ribadire ancora una volta che il renzismo non ha altro da proporre se non le note ricette neoliberiste.
Tutto questo serve per non dire in modo semplice una verità che è semplice, cioè che la tiritera della ripresa merita il nome di propaganda: si tratta di una falsa rappresentazione della realtà, costruita intorno al consueto espediente di far passare dati congiunturali per strutturali.
I segni della ripresa, il momento della ripresa, il treno della ripresa, l’occasione della ripresa… Rispetto alla rassicurante narrazione del renzismo di governo, un dato si impone, ci sembra, con chiarezza ed evidenza di molte volte maggiori: l’Italia è il Paese europeo con la percentuale più alta di Neet, cioè giovani non impegnati nella formazione né nel lavoro. È questo il dato che, più di tutti, racconta la verità su un Paese nel quale le sperequazioni sociali sono cresciute, la mobilità sociale è inferiore rispetto ai Paesi europei più virtuosi e gli investimenti nella formazione e nella ricerca sono anch’essi tra i più bassi in Europa. Anche su questo piano esiste una lunga storia di ottusità da parte di un ceto politico che preferisce fingere o far credere che la causa prima delle difficoltà dei giovani siano i giovani, appellati quando bamboccioni quando choosy dalla politica. Eppure, è davvero difficile credere che non esista una relazione forte tra il dato che attribuisce all’Italia il non lusinghiero primato dei Neet e l’altro che la vede agli ultimi posti anche per investimenti in formazione e ricerca.
È verosimile che sia a causa di questo disinvestimento sistematico nel futuro, e non perché sono più capricciosi degli altri, che i giovani italiani trovano troppo spesso porte chiuse, mura inespugnabili o, per ben che vada, lavori sottopagati e un viatico di precariato che si vorrebbe temporaneo ma che si rende sempre più strutturale.
E, in questo quadro, dire che i giovani non lavorano perché preferiscono stare a casa fino a trent’anni, mentre la verità è esattamente il contrario, cioè che sono spesso costretti a restare a casa fino a trent’anni perché quel po’ di lavoro che trovano è insufficiente per pagarsi un affitto e vivere decorosamente, ricorda il cinismo di Pangloss, il precettore di Candido, quando afferma, per giustificare l’ordine e i privilegi della società di ancien regime, che le gambe esistono per portare le calze.
I dati, allora, vanno interpretati. Altro è estrarre da un pacchetto più ampio solo quelli che suonano bene. Ma se altra è la realtà del nostro Paese, come mai i mezzi di informazione preferiscono fungere da solerti grancasse del mantra della ripresa? Forse per rispondere a questa domanda bisogna ricordare che l’informazione in Italia è “parzialmente libera” secondo lo studio di Freedom House sulla libertà di espressione nel mondo.