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di Luca Billi, 8 settembre 2017
Malaria è la parola di origine latina con cui in tutte le principali lingue indoeuropee è conosciuta la seconda malattia infettiva al mondo per mortalità, dopo la tubercolosi, con oltre 200 milioni di nuovi casi e quasi 440mila decessi all’anno; il 40% della popolazione mondiale vive in zone in cui la malaria è endemica.
Nel mondo per combattere davvero contro la malaria basterebbe lottare contro la povertà, contro i cambiamenti climatici, contro l’analfabetismo: sono obiettivi raggiungibili, ma che non vogliamo raggiungere, perché non c’è alcun guadagno a rendere ampie zone del nostra pianeta luoghi dove si possa vivere senza il rischio di morire di malaria. Le grandi industrie, le multinazionali, le banche, preferiscono continuare a depredare quei territori, a lasciare in povertà estrema interi popoli, magari per vendere loro, a carissimo prezzo, le medicine per curare i malati e i prodotti chimici per uccidere le zanzare che trasmettono la malattia. E più questi animali diventano resistenti agli insetticidi, più letali – anche per gli uomini e per l’ambiente – diventano i prodotti per debellarli, in una spirale che porterà sempre più malati, sempre più morti. E più guadagni per chi vive nella parte della terra dove non si muore più di malaria.
Poi in questi giorni nel nostro paese si respira davvero una mala aria, che rischia di essere più pericolosa di qualsiasi altra malattia. Alla notizia che nell’ospedale di Trento dove Sofia può aver contratto la malaria erano ricoverate anche due bambine del Burkina Faso, affette dalla stessa malattia, perché tornate da un viaggio in quel paese con la loro famiglia, si è scatenata una canea razzista, al cui confronto impallidisce l’ignorante ingiustizia descritta da Alessandro Manzoni nella Storia della colonna infame contro gli uomini accusati di aver portato la peste a Milano.
L’ignoranza in fisica può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità.
Lo scriveva Manzoni nell’introduzione del suo breve saggio su questo triste episodio della storia milanese del Seicento. Noi non abbiamo neppure più la giustificazione dell’ignoranza: ci rimane solo l’iniquità.