Maurizio Serra, Malaparte-Vite e leggende, Marsilio Venezia 2012
recensione di Francesco M. Bonicelli Verrina
“Un grosso manierista, ed un fiero bugiardo. Malato di narcisismo, visse senza affetti, senza passioni, sempre davanti allo specchio. Finto toscano (…) era invece un lanzichenecco (…). Amava la mamma e i grands hotels” (p. 152) queste sono le crudeli parole che Longanesi riservò a Malaparte, in una lettera a Giovanni Ansaldo, “quando il cadavere di Malaparte era ancora caldo”, come scrive Maurizio Serra. Ricordo invece che Montanelli, l’altro toscanaccio, di Fucecchio, Malaparte era di Prato, eterno rivale al quale Curzio aveva augurato di tirare le cuoia prima di lui, scriveva qualche anno dopo la morte dello stesso: “Ma io ho di lui un’altra idea; di un personaggio molto diverso, e migliore, di quello che egli stesso si costruì, cominciando dal nome. Rinunzio a dirla perché so che non gli farei punto piacere”. Montanelli ricorda il Malaparte “cattivo” per posa, che si costruisce un personaggio addosso, dalle finte morti fino alla morte reale protrattasi per un anno in un viaggio eroico in Cina e conclusa in un letto d’ospedale, spirando nelle braccia di un parroco provinciale, circondato da Togliatti e altri eminenti comunisti, dopo essere stato tesserato qualunquista e repubblicano, lui tombeur de femmes, sensuale e vitale, conquistava amanti in ogni dove, leggeva Omero in greco, giovane garibaldino, cresciuto in un humus di mazzinianesimo quasi bakuniniano, garibaldino nella Grande Guerra, lui che era del 1898, figlio di un sassone, un certo Suckert. Agli albori del ventennio fascista, in camicia nera, ma questo proprio un po’ per caso, aveva cambiato il nome in Malaparte, per entrare a pieno titolo nelle patrie lettere: “Perderò ad Austerlitz e vincerò a Waterloo!”. Stracittadino e poi strapaesano. Quando Agnelli lo vuole direttore de La Stampa nel ‘29, Mussolini si esprime con Signor Fiat dicendogli: arrangiati. Infatti dura poco, Malaparte, che aveva abbracciato, tutt’al più, la causa del sindacalismo fascista, non perde occasione per lamentarsi e polemizzare su tutto e tutti. In Russia vive l’ultimo squarcio di belle epoque tardiva, narrato nelle intriganti pagine di Ballo al Cremlino, fra i nuovi aristocratici del regime, balli, trame e palazzi, i vari Lunaciarskij e Karakan, la virtù intellettuale e la virtù fisica. A Mosca passeggia con una certa Marica, che va a sapere come mai lo chiama “Pig, dirty italian pig!”, comparirà più tardi nelle sue pagine di Viaggio in Russia e in Cina.
Appare come un narciso senz’altro, forse un po’ gradasso, un sornione che gioca a fare il Talleyrand, un Wallenstein fuori tempo massimo, come già era stato il suo più affine personaggio ottocentesco: Chateaubriand; ma temo che più che altro abbia contribuito l’invidia a far espungere dalle nostre antologie questa figura tanto alta stilisticamente e culturalmente, studiato invece all’estero, un cultore dell’avventura reale o sognata, dell’aneddoto, del mot d’esprit, dell’invettiva arguta, del bello quanto del marcio, senza contare la sua sottile analisi politica, cinica, disillusa, machiavellica. Alla fine della Prima Guerra Mondiale si era destreggiato fra i Cesari, i Silla e i Catilina del tempo, Addetto diplomatico a Varsavia, aveva raccolto le sue osservazioni sui colpi di stato più importanti, quello fallito di von Luttwitz in Germania e quello riuscito di Pilsudski in Polonia, aveva intuito poi la superiorità strategica di Stalin, il giovane taciturno georgiano dal passo pesante, così simile ai suoi contadini, che non ne potevano più di bizantine discussioni dogmatico-ideologiche, così fine e astuto nel suo pensare, rispetto al “borghese” Trotskij, da riuscire ad attrarre buona parte dei vecchi burocrati, ufficiali, nobili polacchi decaduti, antisemiti e nazionalisti. Scrisse tutto ciò in Tecnica del colpo di stato, pubblicato in Francia, ma ciò non lo salvò dal confino, avventura che descrisse in Fughe in prigione. Riaccolto nelle fila del giornalismo militante scrisse vividi ritratti di vita coloniale italiana in Etiopia, inviato sul fronte orientale scrisse il suo maggior capolavoro: Kaputt, un libro tutto impregnato dell’odore di una cavalla in putrefazione (l’Europa), dove è testimone del grande pogrom di Iasi del giugno 1941, dell’amministrazione tedesca in Polonia e Ucraina.
Ormai antifascista dichiarato (come forse non smise mai di esserlo), risale l’Italia con gli Alleati e scrive su ciò (anni dopo) la prosecuzione del vivido e inarrivabile ritratto della putredine europea e occidentale in La Pelle (già intuibile nelle pagine di Ballo al Cremlino), prontamente messo all’Indice, un vivido ritratto anche dell’Italietta, della massa in cui si identifica e che disprezza allo stesso tempo. Quella massa che ha osannato il Duce fino a ieri e oggi lo calpesta in modo ignobile, come dice sua madre “Povero Muss!”, Muss il grande imbecille. La sua imprendibilità (contro)rivoluzionaria e (contro)riformista mi trattiene dall’abbracciare in pieno la tesi di Serra per la quale egli sarebbe da iscrivere nel contenitore del “fascismo rosso”, così come non mi convince la tesi per cui Malaparte ami il marcio solo negli ultimi anni, come affetto da una sorta di demenza demagogica. A mio avviso di lettore e cultore dell’uomo Malaparte, e qui forse pecco, egli amò il marcio da quando cambiò cognome, prendendo il lato penoso e sconfitto di Bonaparte, per tanto molto più amabile.
È il primo ad individuare nella lucida follia nazista la “paura del debole”, la paura del diseredato, del derelitto, dell’ebreo disgraziato dei villaggi ucraini, del deforme. Non potrà che identificarsi nella pelle di un poveretto travolto da un carroarmato americano a Roma, bandiera dell’Italietta sconfitta, non potrà che vedere il Duce nei feti biancastri nei barattoli di un collezionista ne La Pelle, con una prosa di guerra che tutto il mondo ha studiato e ci ha invidiato (come scrive Henry Miller nell’inedita lettera che Serra ha il merito di pubblicare, unitamente a una sentita intervista di Giorgio Napolitano, che si ricorda ragazzino sfollato a Capri, incoraggiato dal grande scrittore, che sull’isola si era costruito una casetta a picco sul mare, con le sue stesse mani) ha descritto le peggiori brutture dell’uomo in guerra, l’imbarbarimento a cui porta la ragione e la tecnica, egli in fondo è un “selvaggio”, ma anche un “miscuglio di razze” (come il popolo italiano, capace perciò di grandezze e vigliaccherie) non per niente innamorato, da Arcitialiano, del Grande Spirito russo e di Bartali, non del borghese Coppi.
Egli è un “selvaggio” che ama e odia i suoi simili, se ne fa beffa consapevole, credo, di prendere in giro anche se stesso con le sue pose e in tutto ciò prova gusto, perché egli vede il marcio ed è attratto da chi vi è invischiato, l’unica causa che abbraccia è quella persa, quella degli ultimi e soprattutto dei grandi umiliati, ma certo per vantarsene, non per crogiolarsi in un dolore foscoliano o in un disfacimento decadente.
Da non dimenticare, a proposito degli italiani e della Toscana, lo scherzoso e spassosissimo Maledetti Toscani, egli adora e odia la sua Toscana, la sua gente pratese, ma in fondo è vero che fra essi è un lanzichenecco, ama la Toscana come ama sua madre (in realtà di origine lombarda) che vede “marcire”, e odia suo padre.
Muore chiedendo di essere sepolto in cima al Colle Spazzavento, da dove sputare su Prato di tanto in tanto. Non realizzerà mai il sogno di attraversare coast to coast gli USA in bicicletta, sponsorizzato dalla Coca Cola, con lo scopo di raggiungere l’ancora nubile, e fulgida, Grace Kelly. Ma contempla l’avvenire nella laboriosa Cina maoista “in bicicletta”. Muore spento da una sigaretta dietro l’altra giocando fino all’ultimo a costruire la sua leggenda di imprendibile, incatalogabile, impenetrabile. Affabulatore che in un modo unico ha saputo mischiare autobiografia e stravaganza mitopoietica, perdendo tracce e confini.
“Vi sono molte ragioni, tutte legittime per non amare Malaparte”, non può piacere alle “anime belle”, afferma in apertura con ironia Serra, uno che passò “dai campi da golf a quelli di sterminio” prosegue, rimanendo “ideologicamente inservibile” (pp 9-10). Qui Maurizio Serra centra il bersaglio, quest’affermazione merita la lettura di tutte le pagine successive. Serra saggista, diplomatico di spessore, attualmente ambasciatore d’Italia all’UNESCO, già vincitore del Premio Acqui Storia nel 2008, con un capolavoro come Drieu-Arangon-Malraux. Fratelli separati, ci presenta questa corposa biografia di oltre cinquecento pagine (che segue un’altra grande opera recente su Malaparte: L’Arcitaliano, di Giordano Bruno Guerri) con l’indiscusso merito di riuscire a parlare di questo anguillesco personaggio in una biografia scientifica, genere che proprio non gli si addice, per le ragioni che spero di avere chiaramente espresso sopra, le stesse ragioni, d’altro canto, per le quali ne meritava una e Serra riesce magistralmente nell’opera e non è facile riuscire ad essere asettici e scientifici con Malaparte se lo si ama, è una prova ardua che penso meriti almeno un premio al coraggio.
Francesco M. Bonicelli Verrina