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M UNA METRONOVELA – di STEFANO BARTEZZAGHI – ed. EINAUDI
Un viaggio sentimentale, insolito e cuneiforme, dentro, e soprattutto sotto, Milano.
intervista a Stefano Bartezzaghi di Barbara Gallucci
“La metro è un mezzo di trasporto, veloce e pratico. Un’idea ingegnosa e arguta della modernità (anagramma «Modernità» = «Metro and I»)… La metro è però, innanzitutto, una teoria sulla città: una sintesi, un riassunto, una rappresentazione, un’ombra riportata”. Stefano Bartezzaghi, noto enigmista (chi non si è “scontrato” almeno una volta con un suo cruciverba?) e scrittore, nonché collaboratore di Touring, racconta così la metropolitana nel suo nuovo libro appena uscito M. Una Metronovela edito da Einaudi. Un viaggio appassionante e molto divertente per carpire qualche segreto e prendere spunto per osservare con più attenzione quello che passa sotto le città.
Com’è nata l’idea di scrivere un libro sulla metropolitana, in particolare milanese?
È stata una circostanza casuale. Stavo lavorando sulla storia della nascita del cruciverba a New York, inventato dieci anni dopo l’inaugurazione della metropolitana proprio per far passare il tempo ai pendolari. Parlandone poi con gli amici della casa editrice ho capito che non volevo farne solo un saggio storico, ma qualcosa di diverso e ne è venuto fuori un libro particolare, molto spontaneo.
“La Milano di sopra si lascia semplificare da quella di sotto”. In che senso?
Sia chi prende la metropolitana sempre sia chi è in città di passaggio non si pone domande mentre viaggia. La metro è un utensile per la vita della città. È un manufatto non naturale, sottoposta a quello che c’è sopra. Eppure anche questo è un modo per scoprire Milano.
Anche se a volte le fermate hanno un nome fuorviante…
La prima fermata del mio viaggio sottoterra è dedicata a Sant’Ambrogio perché la fermata Sant’Ambrogio non è in piazza Sant’Ambrogio e non è nemmeno in un luogo di Milano che abbia un nome preciso. Poi c’è Lanza, che pur essendo vicino a strade molto più note, come il Foro Bonaparte è intitolata a un pressoché ignoto funzionario. Misteri della metro e della toponomastica milanese.
Un tempo nei tanti corridoi della metro c’erano molte attività commerciali sparite…
È vero, le attività non legate al trasporto erano un tempo molto più vivaci. Ora non ci sono più perché la metro ha un ruolo solo funzionale, è un mezzo di trasporto e basta.
In molte città la metro è protagonista di film e libri. A New York, Parigi o Mosca fa parte dell’immaginario della città. Perché a Milano no?
Ogni metropolitana è molto legata al momento storico nella quale è stata realizzata. Le stazioni liberty di Parigi, per esempio, raccontano lo spirito del tempo di quella città. Quella milanese non tradisce questa tradizione ed essendo stata progettata tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta corrisponde alla voglia di efficienza del momento, senza troppe pretese ornamentali.
Di ritardi, problemi e cantieri invece parla poco nel libro. Perché?
Non volevo scrivere qualcosa di cronachistico. Il libro è un mix di ricordi e di fantasia sullo strano rapporto tra Milano di sopra e quella che sta di sotto. Certo, sto ancora aspettando che si realizzi la linea circolare…
Una Metronovela può essere una guida sui generis di Milano?
È uno strumento molto personale e spero che risulti un occhio su Milano un po’ diverso. Un invito a vivere la metro e la città col piacere di perdersi nella folla, senza scopi particolari, ma con la voglia di scoprirne le famose bellezze e peculiarità nascoste. D’altronde Milano non è esattamente bella come Roma, ma la metro per me non c’entra nulla con Roma.
leggi un estratto dal libro: M una metronovela
Capitolo primo
SANT’AMBROGIO
Linea verde M2 fra cadorna e sant’agostino
boccaporto
Ingresso.
Non bisogna essere troppo pignoli, con la metropolitana.La fermata Sant’Ambrogio non è in piazza Sant’Ambrogio e non è nemmeno in un luogo di Milano che abbia un nome preciso. È su una curva della Cerchia dei Navigli, sulla quale convergono via Carducci, via De Amicis e via Olona. Dall’altro lato, la Pusterla; piazza Sant’Ambrogio è solo dietro a quella.
Per qualche tempo, un anno o due, sono venuto alla fermata Sant’Ambrogio in tutti i giorni lavorativi, senza prendere la metro quasi mai. Accompagnavo qualcuno ed erano anche i primi tempi che a Milano vivevo relativamente vicino a una fermata della metro. Rimasto solo, mi voltavo e tornavo a lavorare a casa, senza neppure troppa curiosità per la bella zona in cui ero appena venuto ad abitare e che sarebbe stata la mia per altri venticinque anni. Sapevo che avrei avuto tempo di conoscerla bene.
Era un mondo ancora senza telematica e con pochissima elettronica. I biglietti si acquistavano in edicola e per convalidarli li si infilava nella fessura di un’obliteratrice di modello ormai obsoleto, che vi tatuava sopra la sequenza di ora, data, eccetera. Non c’erano i telefonini, quasi tutti i passeggeri solitari leggevano un giornale o un libro. Si fumava ancora
fino alle banchine che dànno sui binari.
Quando invece andavo alla fermata per prendere io la metropolitana non mi accompagnava nessuno. Usavo una borsa di cuoio per portare documenti e libri, una borsa che forse sarebbe stata piú adatta all’età che ho ora (quando giro a mani libere). Arrivavo da via De Amicis, scendevo per il boccaporto con la scritta verde sant’ambrogio, dopo la rampa di scale cavavo il biglietto di tasca, lo convalidavo. Ed eccoci qua.
Video e audio.
Non viaggio molto, quando viaggio non vado sempre in città dotate di metropolitana, quando vado in città dotate di metropolitana non sempre me ne servo. Quindi potrebbe pure non essere cosí significativo che io non abbia mai trovato, fuori da Milano, metropolitane con monitor che trasmettano video pubblicitari di pari invadenza acustica. A Città del Messico, anni fa, non c’erano. Magari oggi li hanno messi. A Barcellona ci sono i monitor ma sono muti. A Milano ci sono da anni e trasmettono a volume alto, a volte altissimo. Pochi minuti di informazioni in video, audio e didascalie scorrevoli che propongono una deprimente insalata di meteo, borsa, news, sport, al grado zero della sapienza produttiva. Disturba se stai parlando con qualcuno, di persona o al telefono, figurarsi se sei da solo e hai l’ambizione di leggere anche soltanto un giornale.
La lotta per impedire a quei sonori ossessivi di entrarmi nella testa io so vincerla. Il mio segreto è non ingaggiarla, non provare neppure a pensare a qualcos’altro. È l’assenza, il segreto: l’assenza a sé. Basta tenere a mente quale treno bisogna prendere e dove occorrerà scendere, in quali tasche sono portafoglio e telefonino, pochi dati di base, come il proprio nome. A quel punto ci si può lasciar calare sotto la linea di galleggiamento della coscienza; si deve annullare il pensiero logico, il calcolo delle consecuzioni di cause ed effetti che può offrire la propria debole consistenza all’azione brutale del disturbo acustico capace di spezzarlo. Lasciare che la mente evochi sensazioni, figure, ricordi di conversazione senza minimamente provare a governarla. Lo Zen e l’arte di preservare la mente viaggiando in metropolitana.
Ma non appena la minaccia acustica si allontana – è arrivato il treno e ci sono salito – allora prevale il senso di deprivazione. Per alcuni minuti non sono stato me stesso. L’Altro mi ha invaso, con il suo miserabile palinsesto di annunci e pigre futilità che dovrebbero intrattenermi. I miei organi di senso e la mia identità di cittadino e consumatore sono stati smerciati a investitori pubblicitari e io ho implicitamenteaccons entito, per il solo fatto di avvalermi di servizi urbani, pubblici e di proprietà pubblica, di cui oltretutto sono utente legittimo e prepagante (abbonato annuale, se muoio il 2 gennaio ho già saldato l’importo dell’intero anno solare e dubito che la mia tessera possa entrare nell’asse ereditario. L’abbonamento è «personale e non cedibile»).
Si potrà mai tornare indietro? Intendo dire: una volta che si è inventato un nuovo modo per far soldi (somministrare pubblicità nella metro) neppure Voltaire in persona, divenuto sindaco, potrebbe far molto per smontarlo, disinventarlo, porlo nel nulla dell’oblio.
Camminando.
È un giorno in cui la curva incrementale del mio ottimismo lo sospinge sino alla cieca velleità. Me ne capitano spesso, di giorni cosí: almeno due a decennio. Sono sfuggito alla metropolitana, al lavoro, alle relazioni, agli obblighi e alle scadenze. Mi sono messo a camminare. Il tempo sui trasporti pubblici, dice Valerio Magrelli, è una vice-vita. Lui parla soprattutto del treno. Per me camminare è vita vera. È mattino presto, Milano non è Milano – aria tersa, freddo secco, poche macchine, contorni nitidi, da certi viali o edifici alti si vedrebbe il Monte Rosa e parrebbe posato accanto alla città.
A Milano se cammini per mezz’ora sei già un salutista. Peccato, perché non è affatto una città negata alle passeggiate. Non dico il passeggio, che è il girovagare molle di coloro che Gianni Celati ha ben battezzato «i pascolanti», o di chi è in giro a far compere e va a zig-zag fra le vetrine da una parte all’altra della strada. Il passeggio viene bene anche in certe vie di Milano, ma è piuttosto un’attività a cui sono vocate le città italiane di provincia, specie se corredate di portici. Invece la passeggiata, per come la intendo io, può essere corta o lunga, funzionale al raggiungimento di una meta o invece fine a sé stessa e circolare, ma è comunque caratterizzata da un passo regolare e non strascicato. Una passeggiata non esclude, e anzi contempla, la deviazione dalla rotta eventualmente prevista, un acquisto volante, il disbrigo al bar di una necessità in entrata e/o in uscita, la sosta per notare un dettaglio, la sosta prolungata per leggere giornali sulla panchina o per una chiacchiera con una conoscenza incontrata per caso o con un compagno di passeggiata. Ma una passeggiata non è gironzolare. Dubito persino che i celebrati andirivieni dei flâneurs fossero passeggiate, mi pare che al passeggiare in città pertenga un superiore, benché non vincolante, livello di definizione temporale. Il flâneur esce di casa senza sapere quando vi rientrerà e forse sperando di non rientrarvi affatto. Chi passeggia, invece, si propone un limite orario e lo rispetterà nell’intorno di un’ora, due al massimo – anche perché le forze non gli consentirebbero molto di piú. È sempre possibile che la sua passeggiata si tramuti in una flânerie, in un’odissea urbana o in un viaggio senza ritorno: ma, appunto, avrà cambiato la sua natura di passeggiata.
Da quando è entrata in circolazione la nozione di urban trekking, la tradizionale passeggiata potrebbe risultare un po’ piú attraente per quel ceto milanese che, da quando non si chiama piú «educazione fisica», ama il o la fitness. Stai passeggiando? No, faccio trekking urbano. E si intitola «trekking urbano» il reparto del grande magazzino in cui ho finalmente trovato scarpe adatte alle mie passeggiate, e dignitose. Sono proprio quelle che mia madre non ha mai smesso di chiamare «pedúle» e che il dizionario invece mi suggerisce di pronunciare «pèdule» (mia madre è una grande traslocatrice di accenti). Non escludo di pronunciare d’ora in poi la parola come se fosse inglese: my pedules [’mai pi’du:ls]. Nulla distingue my pedules dalle pedúle materne, o l’umile passeggiata dal trekking urbano: tranne i nomi.
I nomi rendono distinte (ovvero, oggi, smart) le cose: nota utile per chi credesse ancora che la realtà preceda di molto le parole e per chi non avesse ancora inteso che quella fra banale e distinto è una guerra di posizione che prosegue almeno dal 1950.
Semantica degli uomini della strada.
Chi passeggia è un passante? Senza dubbio sí. Per la semantica strutturale è un passante chiunque sia in piedi sulla strada e non stia fermo. In piedi sulla strada sta anche il pedone, ma almeno per quel che riguarda l’etimo il pedone potrebbe anche stare fermo. Il valore della «pedonalità» si definisce in relazione con (cioè per differenza da) il valore della «veicolarità»: piedi vs veicolo (carrozzella, scooter, moto, bicicletta, auto, autobus, tram, camion, skateboard). Il passante è il pedone quando è in movimento, cioè il pedone ambulante. Un mendicante in piedi è un pedone e non un passante. Un mendicante che si muove è ancora un pedone se, come fanno certi mendicanti o certi venditori cosiddetti ambulanti, insegue brevemente i passanti che accelerano il passo o si scostano dalla traiettoria per evitarlo, ma non si allontana mai piú di cinque metri dal punto privilegiato in cui svolge la sua attività. Lo stesso si può dire per chi vorrebbe far firmare una petizione, consegnare un volantino, cercare di far entrare il passante in un gazebo per qualche iniziativa politica, commerciale, sociale o che altro. Chi fuma e/o beve una birretta in piedi fuori da un bar è un pedone, ma non è un passante. Una persona in attesa a un angolo di strada perché ha appuntamento con un’altra persona (e o la prima è in anticipo o la seconda è in ritardo) è un pedone ma non è un
passante: lo è appena stato, magari anche in affanno perché voleva essere puntuale ma la metro ha tardato, e comunque alla fine gli tocca sempre aspettare a lui o lei e allora si vede che è destino. Tornerà a essere un passante appena si sarà stancato o stancata di aspettare, o appena arriverà la persona attesa, che comunicherà la ragione del ritardo (Ma non avevamo detto alle undici e un quarto? Era le undici? Scusa, ho capito male) e quindi se ne andranno assieme a bere un caffè, a vedere un film, a mangiare, a copulare o le quattro cose, in una delle successioni possibili.
Il concetto mi pare chiaro. Fra tutti gli uomini della strada, il passante è un pedone (sta sui suoi piedi) che passa (non sta fermo). Se qualcuno camminasse sulle mani? A quattro zampe? Sulle ginocchia, come certi penitenti o pellegrini estremi? E chi corre facendo non del trekking ma del jogging (detto una volta anche «footing», con stupore degli anglofoni)? L’ultimo può essere definito un pedone molto speciale, gli altri no (non stanno sui piedi). Nessuno di questi è un passante, perché il suo movimento ha ragioni specifiche (l’allenamento, o meglio il training; il benessere del corpo, ovvero il fitness), e allora alla definizione di passante bisogna aggiungere il tratto della genericità: il passante cammina e non corre, cammina sui suoi piedi e non sulle mani, non vuole esibire nulla tranne gli abiti, se quel giorno è particolarmente fiero del loro assortimento.
Mandando al diavolo lo strutturalismo, il passante è insomma una persona normale che cammina per la strada.
Pragmatica degli uomini della strada.
La persona che passeggia (potrei dire il passeggiatore o la passeggiatrice, ma ci sarebbe un inconveniente plateale) è di certo un o una passante, ma la sua figura non appartiene alla media sociologica dei passanti, almeno a Milano. Per passante a Milano si intende soprattutto qualcuno che attraversa il marciapiede in senso ortogonale o diagonale, per compiere il tratto fra il portone di casa o anche la porta del bar e l’auto posteggiata in divieto di sosta o seconda fila. Spesso sono uomini (nel senso maschile), di quelli che una volta si dicevano di mezza età e ora si dicono giovanili: dai trentacinque in su. Nella mano sinistra hanno una corda, un nastro di cuoio o simili da cui pendono chiavi; nel palmo, il telefono. La mano destra ha la sigaretta. I maschi non fumatori usano l’antistress piú salutare che fa parte della loro dotazione dalla nascita: si sistemano cioè il pacco, mostrandosi soddisfatti di esso e delle imprese sessuali compiute per suo tramite. La camminata è a gambe larghe, da cowboy: larghissime se il protagonista si sta recando non verso un’automobile ma verso una motocicletta. Ho lavorato per anni in un ufficio di fronte a una palestra, so di che parlo.
La persona che passeggia deve scansare continuamente i movimenti ortogonali e diagonali di chi è a passeggio e non in passeggiata, di chi pascola sé stesso, dei pascolatori di cani (gli ispanofoni paseadores de perros ), dei pedoni non passanti, di chi si blocca all’improvviso o le viene addosso perché è arrivato un sms: di tutta la complessa e multiforme etnologia della vita di strada – senza contare gli scaracchi, le pozze, i tombini, le merde, le macchine posteggiate, i bidoni della spazzatura nei giorni di raccolta, le macchine che escono o entrano da un parcheggio sul marciapiede (illegale ma non punito) o da un passo carraio, i portinai che spazzano e lavano il marciapiede, i fornitori dei negozi con la merce. È un flipper, una corsa a ostacoli, un videogame, uno slalom: il passante vorrebbe percorrere indisturbato la lunghezza del marciapiede secondo la traiettoria rettilinea che pare naturale, oltre che sommamente propizia alla regolarità ritmica del passo; ma un nugolo di entità piú o meno pedonali si sposta lungo o attraverso il lato stretto e la sua andatura è sottoposta a una quantità di cambi di direzione. Come bordeggiare di bolina.
Una passeggiata.
Cammino e faccio il gioco di non fermarmi mai. È il gioco che fanno tutti: le biciclette che vanno sui marciapiedi, i motorini che bruciano i rossi, le automobili che scelgono il percorso con il minore numero di semafori. Io però lo gioco camminando e, formiche a parte, metto a rischio solo me stesso.
È anche per questo che mi alzo molto presto la mattina: cosí la strada fra la casa e l’ufficio è sgombra quanto lo può essere. Il lunedí e il giovedí, gli autocompattatori e gli altri autocabinati forniti di apparati voltabidoni svegliano i miei vicini rionali meno mattinieri di me con lo scroscio fragoroso dei vetri. Io sono giú (già giú) per la strada, cammino e, oltre al rombo dei motori e dei vetri, non sopporto nemmeno l’odore dei rifiuti cosiddetti umidi (mi dà pure fastidio la leziosa decorazione degli automezzi, tutta sui toni del verde, con foto di alberi e frasetta tipica da catechismo civile, del genere: «Assieme. Verso un ambiente migliore»). Abito in questa zona da diversi anni e oramai so su quale marciapiede passare per stare alla larga.
Visto dall’alto, il mio tragitto parrebbe irrazionale. Devo andare verso ovest, ma passo sul marciapiede est: perché? Che domanda! Perché io non sto andando in ufficio: sto giocando ad andare in ufficio senza fermarmi mai, e so benissimo che il marciapiede est mi porterà al passaggio pedonale dell’incrocio e avrò maggiori probabilità di non dovermi fermare per lasciare la precedenza al transito di una macchina.
Per attraversare il parco non faccio sempre la strada piú diretta, primo perché non ho fretta (voglio mantenere il ritmo, non voglio arrivare prima), secondo perché i cani mi dànno noia, specie se sono al guinzaglio, soprattutto se il guinzaglio è estensibile e cane e padrone (padrona, il piú delle volte) divergono, cosí il guinzaglio allungato finisce per sbarrare tutto il vialetto. Cambio vialetto, se ne vedo uno. A quell’ora desidero non ricordarmi già quanto il mio sistema nervoso sia irritabile e quanto poco ci metta a sbuffare: quando me lo ricordo incomincia la giornata ordinaria che invece, mentre cammino, è ancora sospesa in una nube di potenzialità.
Camminare è la mia agenda (latino), il mio contenitore di «cose da fare» (italiano) e che non posso fare: o perché è troppo presto per telefonare sia pure a un amico che so mattiniero, o perché sto appunto camminando e non posso scrivere, né voglio fermarmi a prendere un appunto. Pezzi di conferenza, attacchi di articoli, idee per un libro o per un pranzo, progetti di trasloco o di vacanza, anagrammi.
Dopo il parco c’è un complesso groviglio di incroci, ci avrò messo alcuni mesi di tentativi per elaborare l’attraversamento piú favorevole e ottimizzarlo. Poi altri duecento metri, e l’edicola; altri cento metri, e lo studio. Della libreria davanti a cui passo e dei titoli dei libri in vetrina, del perché la mia edicola è eccentrica rispetto alla passeggiata (e perché non la cambio), dell’abitudine di cercare la chiave in tasca già cinquanta metri prima del portone dell’ufficio, della singolare pertinacia con cui, pur avendoci pensato, finisco sempre per trovarmi in mano la chiave sbagliata, parlerò un’altra volta.
Arrivo, e le cose che nel tragitto ho pensato di dire, scrivere, fare non le ho piú in mente. Qualcuna di loro affiorerà, anche a distanza di giorni, e quasi sempre mi parrà un’ottima idea, venuta a qualcun altro.
Invenzione di un format.
In una passeggiata mattutina ho capito come risolvere il problema della pubblicità nella metropolitana. A chi sarà venuta l’idea che mi ritrovo in testa?
I monitor ci sono, inutile pensare che vengano mai smontati. L’unica cosa che potrebbe occuparli al posto della pubblicità è un dittatore o un dio piú potente. E uno c’è: lo storytelling. La narrazione, il narrativo, la narrativa, la narratività, il narrare, le storie, il racconto, un libro che si legge come un romanzo, la narrativa non-fiction – quasi quasi invento la fiction non narrativa. Questa è la divinità che ottiene quotidiani tributi da tutti noi. Anche a me, anche alla mia infanzia sprecata a sentirsi raccomandare: «Non raccontar storie!» Bell’insegnamento, complimenti di cuore ai miei pedagoghi.
La pubblicità è essa stessa schiava dello storytelling, e allora bisogna convincere il sindaco di Milano, o il prefetto, o l’arcivescovo, i direttori dei giornali, i sindacati, l’Assolombarda, la Confcommercio, la nettezza urbana: per il decoro urbano è necessario che cessi lo scempio pubblicitario.
Sui monitor delle stazioni della metro devono passare delle storie. Anzi, una storia. Io cammino per le vie di Milano, è probabile che abbia un sorriso beato disegnato sulle labbra.
Ho appena inventato un genere: la met-com.
Come nome sarà meglio metronovela?
Puntate brevissime, tarate sull’attesa media della corsa sul marciapiede. Facciamo tre minuti? Quattro? Quando arriva il treno la puntata si interrompe di colpo, ma chi lo desideri
(e non abbia troppa fretta), potrà rivederla per intero fermandosi sulla banchina della stazione di arrivo: ogni giorno va la stessa puntata in tutte le stazioni. Il pendolare vedrà la puntata al mattino e la rivedrà la sera, cosí se la fissa in testa e l’indomani avrà presente il gancio narrativo che lega ogni elemento della serie al successivo. Nelle ore in cui le corse si diradano e nei giorni festivi passeranno due o tre puntate, magari antologiche.