L’UTOPIA DEL “MONOLITO” E L’ ALLEGORIA DI UNA “SCOPATA” VUOTA

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Jacopo d'Alessio
Fonte: Come don Chisciotte

Introduzione

Eyes Wide shut va guardato in modo speculare a 2001 Odissea nello spazio perché sono i due poli della medesima parabola nel percorso di un regista. Ma rappresentano anche i due estremi di una fase storica per noi interessante che coglie, nel suo inconscio politico, l’anima dei così detti ’30 anni gloriosi’, dal 1960 al 1990 (oppure del ‘capitalismo dal volto umano’), con il loro epilogo.

2001 Odissea nello spazio

Mio dio.. è pieno di stelle” (Cit. David Bowman)

— La violenza della Storia

Nel film del ’69 vi è una coesistenza ambigua di luci e ombre. Ad esempio, incontriamo HAL-9000, l’inquietante computer cui vengono delegate le decisioni di vita e di morte sull’equipaggio del Discovery, un’astronave entrata nell’orbita del pianeta Giove per fare chiarezza sull’origine del monolito: la pietra nera che, a causa della superficie perfettamente levigata e una forma geometrica razionale (il parallelepipedo), viene considerato un manufatto alieno. Solitudine e incomunicabilità di un cosmo reificato costituiscono lo sfondo che accompagna la difficile impresa e che sembrano condannare il genere umano all’alienazione.

Allo stesso modo, la scena del primate, che trasforma l’osso di una carcassa in un’arma-utensile, divenendo un ominide consapevole dei propri scopi, ci rivela come la violenza stia alla base dell’evoluzione. La scimmia acquista potere quando comincia ad uccidere i suoi simili. L’intelligenza si traduce in un’imposizione di governo sul clan cui appartiene e perciò l’omicidio preistorico si inscrive nella base aurea della civiltà. L’osso, lanciato in aria, tramutatosi improvvisamente nello shuttle in viaggio verso la Luna, con a bordo il dottor Heywood Floyd (William Silvester), brucia in un istante l’immenso lasso di tempo che separa quel momento fondativo dall’epoca tecnologicamente avanzata dell’esplorazione spaziale. Non a caso, il primo allunaggio della storia avviene nello stesso anno dell’uscita del film. Come a dire che, nella sostanza, non vi è alcuna differenza significativa tra due ere così lontane fra loro.

L’enigma del monolito

Ebbene, come accade nella dialettica dell’Illuminismo, la ragione strumentale contiene puntualmente anche la sua antitesi. Ovvero, dischiude contemporaneamente entro di sé un nuovo inizio, quando assistiamo alla morte e, subito dopo, alla rinascita dell’unico astronauta superstite del Discovery, David Bowman (Keir Dullea), moderno Odisseo che si proietta verso l’infinito: una destinazione metafisica che sembra non trovare alcuna spiegazione plausibile. Eppure, il segreto del monolito consiste solamente nell’offerta di un portale allegorico che permette di accedere al regno delle possibilità, senza rilasciare alcuna soluzione, come invece freme di venire a sapere lo spettatore. Del resto, rimane inerte ed impermeabile quando gli scienziati tentano invano di analizzare l’esemplare trovato sulla Luna per scoprire cosa possa celarsi al suo interno. Si tratta insomma di un mistero insormontabile capace tuttavia, proprio per questo motivo, di persuadere gli scienziati sulla necessità di inviare la missione su Giove.

Ma Bowman non riuscirà a scoprire nulla di più sul piano delle scienze esatte. Anzi, è proprio l’intelligenza artificiale, che dovrebbe spiegarci come stanno le cose, a sabotare invece la sua ricerca. Mentre la roccia rappresenta semmai un invito rivolto alla società (incarnata simbolicamente nella figura dell’astronauta) a cambiare sé stessa per sottrarsi a quella matrice violenta primordiale. L’immagine finale del feto infatti, con una chiara eco alla resurrezione cristiana, mostra una creatura spoglia ormai di qualsiasi forma (o peccato) che consegna adesso, all’uomo rinato, l’onere di scegliere quale significato attribuirsi nel futuro. La conclusione di 2001 rimane pertanto volutamente enigmatica, visto che la meta è ancora tutta da scrivere di contro ad una natura che, viceversa, è stata fissata nei secoli.

Eyes wide shut

“Scopiamo!” (Cit. Alice Harford)

Tramonto delle possibilità

Eyes Wide shut esce nelle sale alcuni decenni più tardi, nel 1999. Molto diverso appare ora il viaggio che compie il dottor Bill Harford (Tom Cruise). Anche la sua è un’odissea ma che stavolta ci getta progressivamente dentro l’abisso. 2001 si staglia verso l’alto, al di sopra del mondo costruito dagli uomini, nell’ambiente freddo e astratto dello spazio, in virtù della sua ambizione di trascendere la contingenza e raggiungere le stelle. L’elegante walzer di Strauss; la fotografia raffinata; una sceneggiatura ridotta al minimo che viene rimpiazzata dai lunghi e profondi silenzi; sono tutti ingredienti che vogliono richiamare nel pubblico l’idea tradizionale di epica: una dimensione eroica che, alla stregua dei versi omerici e cavallereschi, pretende di scacciare da sé l’effimero.

Al contrario, Eyes Wide Shut si schiaccia verso il basso e si mischia perciò con la prosa, tanto da insinuarsi negli oscuri meandri di New York, tra i condomini dei borghesi abbienti, tediati dai loro banali drammi quotidiani, che provano ad esorcizzare con festini conditi di lussuria sfrenata e di stupefacenti; e i luridi bassifondi, abitati da un’antropologia soverchiata dal darwinismo sociale, che chiude il sipario su qualsiasi possibilità di redenzione. Come quella perduta di una giovane prostituta che tiene un testo di sociologia nella libreria dell’appartamento dove vive e si vende ai suoi clienti. La ragazza sogna di laurearsi, mentre sarà solo destinata a morire di AIDS.

Il complotto post-moderno

In questo senso, l’orgia degli Dei, ovvero degli esseri potenti, allestita nella maestosa villa decontestualizzata, fuori la metropoli, diventa emblematica. La realtà viene manipolata da forze occulte, apparentemente indecifrabili per le persone comuni. Così che l’indagine ostinata del protagonista (un Edipo dei nostri tempi), invece di chiarire la causa prima di quelle bizzarre circostanze, si limita ad esibire il potere nelle sue forme di auto-celebrazione. L’élite non è guidata da una ratio che la vede impegnata nell’accumulazione indefessa delle proprie ricchezze, qui date per scontato e comunque secondarie, quanto piuttosto da un desiderio di godimento acefalo e illimitato.

Anche la moglie di Bill, Alice Harford (Nicole Kidman), nell’ultima sequenza non può fare altro che risolvere l’intera impasse con la cruda sentenza: “scopiamo!”. Una soluzione senz’altro vitalistica che dovrebbe permettere al marito, invischiato nel suo razionalismo ossessivo, di accettare gli eventi così come sono e di andare avanti. Una scelta, d’altra parte, dettata anche dalla prosecuzione della mera biologia e incapace quindi di rimandare ad un ‘altrove’ metafisico, che lascia la coppia prigioniera di uno stato di natura ineluttabile e ripetitivo, rappreso nel suo hic et nunc.

Conclusioni

Il lascito di un’allegoria vuota

Dunque, 2001 annunciava il disvelamento di nuove opportunità che Kubrick riscontrò in una società smaniosa di trasformarsi. Gli anni 68-69 erano in pieno fermento e la pellicola raccoglie, nei suoi diversi gradi di lettura, anche quella presunzione giovanile di cambiamento dei costumi, tanto che osa sfidare il paradigma ontologico della storia umana. C’era la convinzione che, una volta si fosse riusciti a bucare la diapositiva come spazio codificato chiuso, il contenuto della violenza potesse evadere anch’esso lo schermo ed essere sostituito da una ricerca potenzialmente infinita:

“Mio Dio.. è pieno di stelle”.

Il monolito, infatti, a causa della sua peculiare forma rettangolare, allude anche all’obiettivo della macchina da presa con il quale l’autore intendeva citare l’avanguardia, dalla Novelle Vague fino a Michelangelo Antonioni. La tradizione che non si limitava a mettere in scena dei personaggi alle prese con un’intrigante vicenda, ma gli stessi codici cinematografici che servivano a rappresentarla e a gettare luce sulla sua finzione artistica. Tuttavia, lo straniamento breaktiano provocato nello spettatore, che sospendeva all’improvviso la propria identificazione nei confronti del racconto, doveva suggerire uno spazio autonomo di riflessione. Il regista, in questo modo, poteva ritagliarsi la libertà di realizzare operazioni diverse da quelle che caratterizzavano il genere commerciale cui appartenevano i suoi protagonisti. Per concludere, l’ambizione di Kubrick consisteva nel sottrarre Bowman alle regole imposte dalla scienze fiction, che probabilmente lo avrebbero inserito al centro di un incontro con una civiltà aliena, per esortare il pubblico ad immaginare, invece per lui, un destino alternativo, ancora da sciogliere. Non a caso, il sequel del 1984, 2010 l’anno del contatto, che viceversa puntava ad una produzione di consumo, abbandonò la critica aperta del primo film, molto più complessa, per concentrarsi solo sull’aspetto esteriore e folcloristico dell’avventura spaziale.

Trent’anni dopo, l’indagine di Cruise dimostra esattamente l’opposto: che l’epoca dell’utopia è terminata, nel momento in cui viene meno un sogno capace di negare la realtà. In quest’ultimo lavoro si fa ancora un’esperienza significativa ma che descrive un mistero dal quale stavolta è divenuto impossibile uscirne. Il thriller post-moderno, con il tipico giallo irrisolto e le atmosfere cupe di origine noir, non cambia i propri connotati che, anzi, vengono esacerbati fino a farsi maniera. Se 2001 poneva in dubbio alcune verità, apparentemente ineluttabili nel definire l’esistenza, di cui il regista però va a sollecitarne una rinnovata scoperta, in Eyes wide shut non se ne può individuare nessun’altra. Ne resta soltanto il vuoto che, d’altronde, non si potrebbe nemmeno testimoniare se non fosse fatto oggetto, a sua volta, di una narrazione.

Epifanie

Da una sì fatta prospettiva nichilista, sembra prendere le distanze la relazione disinteressata che lega Bill a Mandy (Julienne Davis). I due sono dei perfetti sconosciuti ma che si salvano l’uno con l’altra in assenza di calcolo. All’inizio del film, Bill ha aiutato a rinvenire dal coma l’ex modella, che si era lasciata drogare per soddisfare le perversioni sessuali di Victor Ziegler (Sydney Pollack), l’amico di Bill, durante la festa organizzata presso la sua sfarzosa dimora newyorkese. Successivamente la ragazza, in segno di gratitudine, cede la propria vita per avere salva quella di Bill, condannato a morte dai massoni, dopo che si era introdotto furtivamente nella villa ancestrale in mezzo al bosco. Il dottore, per l’appunto, nonostante si fosse mimetizzato tra gli invitati grazie alla maschera e al cappuccio nero, viene scoperto ugualmente a causa del suo comportamento bislacco e difforme rispetto agli altri ospiti. Insomma, due feste apparentemente diverse, una pubblica in città, l’altra segreta in campagna, che risultano speculari. Dove i due alter-ego si sono trovati ad occupare una posizione reciproca che li ha spinti a donare sé stessi. Solo Mandy, però, in virtù del proprio sacrificio può raggiungere le vette di Bowman.

In un mondo dominato dalla sopraffazione, per nulla dissimile dalla lotta dei primati che avevamo osservato in 2001, entrambi gli episodi sono in grado di invertire di nuovo le leggi della biologia oppure, se preferiamo, la necessità della storia. Ciò accade perché la gratuità dei gesti di questi anti-eroi minaccia le decisioni altrimenti fatali del Potere, amministrato da un’anonima setta che, dietro le quinte, guiderebbe i nostri destini. Nondimeno, adesso svanisce l’epica. In altre parole, si tratta di momenti che vorrebbero elevarsi di certo verso quella promessa di trascendenza, come era comparsa in 2001, grazie all’espediente allegorico del monolito. Ma diversamente dal film della giovinezza, Bill e Mandy hanno perso la valenza collettiva che invece aveva investito Bowman, quale simbolo della rinascita umana universale, di modo che le loro azioni rimangono solo dei propositi individuali. La morte della donna rientra nella cornice deterministica dell’intreccio senza fare riferimento ad alcuna rigenerazione. Più che altro sono dei frammenti, delle epifanie, che lasciano intravedere soltanto una fioca speranza.

Di Jacopo D’Alessio

21.01.2024

Jacopo D’Alessio. Laureato in lettere moderne, insegna Italiano nelle scuole medie di Roma. Autore di saggi brevi e articoli su politica, economia e cultura cinematografica.

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