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da www.cittafutura.al.it di Nicola Boidi 19 marzo 2014
Prendiamo in esame il tema giustizia e nella fattispecie la giustizia penale: in questo campo della vita dei cittadini italiani, comunitari ed extra comunitari, i decreti- legge resi operativi dai governi berlusconiani negli otto anni e mezzo del loro imperio (perchè di un imperio o vera e propria dittatura della maggioranza governativa e parlamentare si è trattato, e non di esercizio di governo nel riconoscimento reciproco di regole condivise di uno Stato liberale tra maggioranza e opposizione) hanno operato devastazioni dell’ordinamento dei diritti civili degne delle bibliche sette piaghe d’Egitto, non minori che nel campo dei diritti sociali ed economici. E a questo scempio di civiltà giuridica non hanno saputo o voluto porre rimedio né l’interregno di centrosinistra del secondo governo Prodi, né i governi «presidenziali» (cioè avallati e sottoposti all’egida del presidente Napolitano) del professore Monti e del «moroteo» Letta.
E’ mancata tanto una riforma o sostanziale abrogazione di leggi quanto un’innovazione di articoli nel codice penale che sono in attesa, in stand by, da anni se non addirittura da decenni. Ma il regime delle istituzioni politiche italiane ha un andamento irregolare, «carsico», fatto di repentini inabissamenti e di altrettanto improvvise riemersioni, in generale molto sensibile e «recettivo» dell’aria che tira.
Fatto sta che in concomitanza con la marginalizzazione (non si sa ancora se definitiva o solo provvisoria) del Cavaliere Berlusconi e del suo partito dal proscenio governativo e parlamentare, dopo anni di stato letargico, improvvisi movimenti sussultori sono stati registrati persino nel campo della giustizia penale. E’ di un mese fa l’abrogazione per incostituzionalità da parte della corte costituzionale della legge Giovanardi-Fini che, ricordiamo, equiparava le droghe leggeri a quelle pesanti, e in cui la distinzione tra legalità e illegalità assumeva la forma di distinzione tra detenzione lecita o dose massima consentita e detenzione illecita o spaccio, per cui si finiva per essere equiparati a pusher anche se si era semplici consumatori, senza essere stati colti in flagranza di reato. Inoltre quella legge inaspriva le condanne prevedendo una pena massima fino a vent’anni anche solo per il possesso di hasish e marijuana. L’abrogazione di quella legge dovrebbe liberare dalle carceri circa 10.000 delle 24.000 persone detenute per reati di droga, (complessivamente il 40 % dell’attuale, «disumanamente» sovraffollata popolazione carceraria di 68.000 anime). Vedremo cosa conseguirà al ritorno automatico alla precedente legge Jervolino-Vassalli, se il nuovo governo e in specie il suo ministro della giustizia Orlando vorrà spingere per l’approvazione di una nuova legge; in ogni caso si apre la possibilità di restituire dignità e libertà a molte persone ingiustamente privatene, e non solo questo.
Si potranno infatti evitare, o prevenire, o perlomeno ridurre nella loro frequenza vicende che è difficile decidere se definire più tragiche o allucinanti: il riferimento è infatti non solo al noto caso di Stefano Cucchi, arrestato e poi torturato e poi lasciato morire, per il possesso di 20 grammi di marijuana, nel carcere romano di Regina Coeli, ma anche al meno noto caso di Aldo Bianzino, falegname incensurato di Pietralunga, cittadina nei pressi di Città di Castello (Pg), arrestato insieme alla compagna per il possesso di alcune piantine di marijuana la mattina del 12 ottobre 2007, dichiarato in perfette condizioni di salute nel carcere di Capanne in cui era stato posto in isolamento il 13 ottobre 2007, trovato invece privo di vita nella stessa cella il mattino successivo, presentando all’esame del medico legale, oltre che un orecchio tumefatto, segni di lesioni interne alle costole, alla milza, al fegato e al cervello.
Come loro tanti altri, troppi casi andrebbero citati: Simone la Penna, Cristian de Cupis, Stefano Frapporti, o ancora Emanuel Eliantonio, Gregorio Durante, Federico Perna. Tutte persone morte in situazioni analoghe a Cucchi e Bianzino, e che senza la Giovanardi-Fini non avrebbero conosciuto il loro personale calvario. Nella lugubre, macabra contabilità degli oltre 2000 morti nelle carceri italiane dal 2000 ad oggi (con una media annua di circa 150 decessi), nel solo periodo 2002-2012 sono stati registrati 518 suicidi (56% delle morti), 183 decessi per malattia (20%), 26 casi di overdose e 11 omicidi. Accanto a questi numeri spiccano i 177 «casi di morte di cui è da accertare la causa» e che sono sottoposti a indagine giudiziaria. In quest’ultima categoria rientrano gli accadimenti sopra nominati, accadimenti che fanno pensare che in uno Stato che non prevede nel suo ordinamento giudiziario la pena di morte, questa sia stata comunque comminata a discrezione da parte di qualche suo «troppo zelante» funzionario.
Certo perché ciò potesse accadere non era sufficiente il vigere della legge Giovanardi-Fini, ma necessitava che essa agisse in «combinato-disposto» con il mancato inserimento nel codice penale del reato di tortura, un articolo di legge di cui la Comunità europea e Amnesty International chiedono l’attuazione allo Stato italiano dal lontano 1988. E anche qui, per quelle strane congiunture che le vicende politiche, istituzionali e più generalmente culturali del nostro paese a volte incontrano (si tratterrà forse di «congiunzioni astrali»?) c’è stato il 5 marzo scorso un primo incoraggiante segno: il senato italiano ha approvato un disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura, anche se l’ha equiparato a un reato comune commettibile da chiunque, anche da un privato cittadino, e non come indicavano le Nazioni Unite ascrivibile unicamente a un pubblico ufficiale che legittimamente tiene qualcuno in custodia. E’ comunque un passo in avanti sostanziale che ci si augura sia presto seguito dalla sua discussione e approvazione nell’altro ramo del parlamento, la camera dei deputati.
Solo la deterrenza di un tale articolo del codice e non ovviamente il richiamo al civismo o al servizio in nome dello Stato di diritto o della Costituzione della Repubblica italiana, può esercitare una certa efficacia preventiva e, nel caso, esemplare e repressiva, per il ristretto numero di coloro che, tra i pubblici ufficiali – non solo tra le guardie carcerarie , ma anche tra gli agenti delle forze dell’ordine (Polizia di Stato, Carabinieri) – interpretano, nelle loro operazioni di ordine pubblico, il loro delicatissimo compito e responsabilità di esercitare il monopolio legale della forza, con un «eccesso di discrezionalità e di arbitrio» rispetto a quelli che tale funzione inevitabilmente comporta Da qui la necessità inderogabile di una legge che tuteli e prevenga dal ripetersi, troppo frequente ormai, di evidenti casi di pestaggio e tortura omicide non solo nelle carceri, ma anche nelle operazioni di ordine pubblico sulla strada, o nelle caserme o nelle questure.
Se Stefano Cucchi esemplifica la categoria dei «martirizzati» nelle patrie galere, Federico Aldovrandi, il ragazzo diciottenne massacrato nelle strade di Ferrara durante un fermo della Polizia – per cui sono stati condannati per omicidio colposo quattro agenti di polizia – è diventato il simbolo delle vittime di «mala-operazioni» di ordine pubblico sulle strade o nelle caserme, nelle questure o nei commissariati. Tra costoro dobbiamo purtroppo annoverare non solo Aldrovandi ma anche Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Riccardo Rasman, Massimo Casalnuovo, Giuseppe Turrisi, Kaies Bohli, Ariton Canaj, Luigi Federico Marinelli, Stefano Brunetti.
Valga come caso esemplare quello di Giuseppe Uva: arrestato la notte del 14 giugno 2008 insieme all’amico Alberto Bigioggero per ubriachezza molesta (avevano sbarrato una strada con delle transenne), portato nella locale caserma dei Carabinieri di Varese, dove, a testimonianza di Bigioggero, si sarebbero sentite urla e richieste di aiuto dalla stanza in cui Uva era stato portato e trattenuto da due carabinieri e sei agenti di polizia. Due ore dopo sarebbe stata chiamata un ambulanza del pronto soccorso per effettuare un trattamento sanitario obbligatorio a causa dello «stato di forte agitazione » in cui si sarebbe trovato Uva. Sedato, Uva muore alle 11 di quel mattino in ospedale. All’esame il corpo presentava traumi, lesioni, ecchimosi e in particolare nelle parole della sorella Lucia Uva: « Su tutto il fianco era blu, quei segni erano lividi. Poi vedo il pannolone. E mi chiedo: perché aveva il pannolone? Mia sorella prende il sacchetto in cui c’erano i pantaloni e li guardiamo. Erano pieni di sangue sul cavallo. Gli slip non c’erano. Gli ho tolto il pannolone e ho visto il sangue. Gli sposto il pene e vedo che aveva tutti i testicoli viola e una striscia di sangue che gli usciva dall’ano. Da quel momento ho giurato che avrei fatto tutto il possibile per arrivare alla verità sulla sua morte, un simile scempio non può restare impunito».
Le vicende processuali legate alla morte di Giuseppe Uva sono altrettanto esemplari: è notizia dei giorni scorsi che il giudice per le indagini preliminari di Varese Giuseppe Battarino respinge la richiesta di archiviazione che il pubblico ministero Agostino Abate aveva presentato in relazione al caso Uva, e ordina l’imputazione coatta per omicidio preterintenzionale e arresto illegale per i due carabinieri e sei agenti di polizia coinvolti nella vicenda; quella richiesta di archiviazione e le modalità generali con cui era stato condotto precedentemente il procedimento penale, avevano suscitato la sospensione dall’incarico e l’avvio di un procedimento disciplinare nei confronti del pm Abate già da parte dell’ex ministro della giustizia Cancellieri e poi della Procura generale presso la Cassazione.
I familiari di queste «vittime di Stato» hanno portato coraggiosamente avanti le loro battaglie legali e di giustizia nei tribunali per anni tra mille ostacoli, condizionamenti e ostracismi, e solo la loro costituzione in associazione (la mamma di Aldovrandi, la sorella di Uva , la sorella di Cucchi, la figlia di Ferrulli, etc.) ha dato loro la forza di sopportare tutto questo. Una sorta di coraggiosa lega di «Mamme di Plaza de Mayo» in versione italiana, in cui delle donne, se ancora ce ne fosse stato bisogno, una volta presa coscienza di avere subito un ‘ingiustizia e una violenza intollerabili, mostrano un coraggio, una risolutezza nel non farsi intimidire da niente e nessuno, che farebbero invidia a molti uomini.
Ci si deve affidare alla speranza che la camera dei deputati giunga rapidamente ad approvazione del reato di tortura, che l’abrogazione dell’incostituzionale legge Giovanardi-Fini faccia posto a una legge più civile in materia, più adeguata a uno Stato di diritto: solo questo ci si può auspicare siano i primi ma fondamentali passi di «cambiamento del funzionamento della giustizia in Italia» proclamato da Renzi.
Quando nel novembre scorso alcuni parlamentari del Pd e di Sel depositarono presso la Camera dei deputati tre proposte di legge di iniziativa popolare – l’abrogazione della Giovanardi-Fini, l’abrogazione della legge Ex-Cirielli (i cui articoli principali recitano l’accorciamento dei termini di prescrizione e l’esclusione dai benefici di legge in seguito alla recidività dei reati), e appunto l’introduzione del reato di tortura nel codice penale – guardando alla storia recente del nostro parlamento, parevano ancora un messaggio nella bottiglia lanciato nel mare a futura memoria delle generazioni che verranno. Invece, repentinamente, nel muro di gomma del funzionamento delle istituzioni politiche italiane di questi anni, qualcosa si è messo in movimento.
Nello sguardo pessimistico di chi scrive, che ritiene che questo nostro Stato e società necessitino di una rifondazione di civiltà dalle sue fondamenta, un lampo di luce è finalmente intervenuto a interrompere la buia notte della Repubblica popolata da incubi, da figure inquietanti e da vicende dai contorni angoscianti.