Fonte: Minima Cardiniana
di Franco Cardini – Domenica 24 marzo 2019
UN TEMA INTERESSANTE FRA PREGIUDIZIO ANTISLAMICO E PRESENZA DELLA NATO IN MEDITERRANEO: LA TUITIO MARIS. IL MODELLO DUCALE/GRANDUCALE MEDICEO
Nell’estate del lontano 1959 avevo preso la patente da pochi mesi e il babbo si era arrischiato a prestarmi la sua preziosa, fiammante Seicento. Alla sua guida mi davo un’aria da latin lover, come si usava allora (blue jeans alla James Dean e pullover sulle spalle) e durante l’estate scarrozzavo la mia ragazzina su e giù per il litorale toscano. Una sera capitammo, verso Livorno, alla torre di Calafuria: e io, già maniaco per la storia, nella trattoria che vi era allogata mi detti a spiegare all’attonito cameriere e all’imbarazzata e annoiata fanciulla che quella era una di quelle “torri saracene” che gli Appiani di Piombino, i governatori spagnoli dello Stato dei Presìdi e infine i duchi/granduchi medicei facevano costruire per difendersi dal “pericolo saraceno”, cioè soprattutto dai corsari barbareschi. L’improvvisata, dotta conferenza interessò anche alcuni avventori, peraltro gente del posto. Nessuno ne sapeva nulla, ma qualcuno prese a raccontare delle leggende che gli narrava la nonna maremmana: il pirata Barbarossa, la “bella Marsilia” che fu catturata dai saraceni e andò sposa al sultano e così via.
Sono passato per caso da Calafuria qualche mese fa e, tanto per giocare, ho ripetuto l’esperimento. Nessuno sapeva più nulla né del Barbarossa né della bella Marsilia, ma in cambio parecchi mi hanno esposto con convinzione e con asprezza la “loro” verità: i musulmani ci minacciano “da sempre”, al punto che “nel medioevo” fummo costretti a fortificare la costa perché “fino da allora” venivano dall’Africa “per invaderci”; e, da allora in poi, “noi non lo abbiamo più dimenticato”. Se non fossi stato ben memore di quella serata di sessant’anni fa, quei testimoni del nulla mi avrebbero convinto che, almeno dal XVI secolo (magari però anche da prima, almeno dal X-XI…), la memoria delle incursioni arabo-maghrebine prima e turco-barbaresche poi si fosse trasmessa sostanzialmente intatta forse da sei, magari addirittura da undici-dodici secoli. Quel piccolo esperimento mi ha, invece, confermato una volta di più l’esattezza della massima di Lucien Febvre: “L’uomo non ricorda nulla: ricostruisce sempre”. Al di là della folta documentazione tanto scritta quanto archeologica, ben conosciuta dagli specialisti e non ignota a qualche erudito, nella “memoria collettiva” niente di quei lontani eventi è rimasto: semmai, nel folklore maremmano, una qualche confusione tra incursori saraceni cinque-seicenteschi e briganti ottocenteschi. Maremma amara…Invece sono bastati gli eventi degli ultimi anni, la propaganda leghista, i gruppazzi antimusulmani, i comitati contro la costruzione delle nuove moschee, e le torri del litorale sono tornate d’incanto a esser “saracene”.
Peccato che questa equivoca e surrettizia “rinascita della storia” comporti una consapevolezza distorta e, nella sostanza, truffaldina. Perché, se è vero che i corsari barbareschi si abbattevano crudelmente sulle nostre coste come su tutto il litorale tirrenico (e avrebbero continuato a farlo fino ai primi dell’Ottocento), è non meno vero che il tutto si risolveva in un’interessante e sotto certi aspetti perfino divertente “partita di giro”: perché anche noialtri toscani avevamo i nostri corsari, incaricati della tuitio Tyrrenici litoris nel più generale programma di tuitio maris e di defensio Europae che l’impero di Carlo V d’Asburgo e quindi la “monarchia di Spagna” di suo figlio Filippo II si erano assunti e ch’era parte della crociata, la quale nel Cinquecento si cominciava a non chiamare più così ma ch’era in realtà per certi aspetti più viva ancora che non nel medioevo. I nobili signori toscani fregiati della croce rossa “a coda di rondine” al comando della bella flotta dell’Ordine marinaro di Santo Stefano, Gran Maestro del quale era il granduca di Toscana, colpivano insieme con gli altri nobili signori d’ogni parte d’Europa fregiati della croce d’argento “a coda di rondine” anch’essa, militanti nell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme (detto dal Trecento “di Rodi” e quindi “di Malta”), le coste tanto maghrebine del nordovest africano quanto ottomane dell’Anatolia e del Vicino Oriente facendo esattamente quel che turchi e barbareschi facevano a noi: saccheggiando, rubando, violentando, uccidendo e soprattutto prelevando schiavi da incatenare ai remi delle galee con le quali cristiani e musulmani si facevano le loro guerre navali gli uni contro gli altri (e qualche volta anche tra loro). Nei sotterranei delle fortezze di Tunisi e di Algeri languiva tanta povera carne battezzata in attesa della morte o dei lavori forzati nella durissima vita di bordo (brodaglia, sporcizia e frustate); esattamente come tanta povera carne circoncisa languiva nei sotterranei delle fortezze di Livorno, di Genova e di Napoli in perfettamente analoghe condizioni. Tanto da parte cristiana (gli Ordini “mercedario” e “trinitario”), quanto da parte musulmana (numerosi pii sodalizi) si organizzava, mediante queste continue, la raccolta di fondi per riscattare i prigionieri. Frattanto, beninteso, rapporti commerciali, culturali, diplomatici continuavano in quanto lo spazio mediterraneo restava “aperto” e, sino alla fine del XVIII secolo, nessuna guerra è mai totale né tanto grave ed estesa da arrestare le altre attività, nemmeno fra paesi in reciproco conflitto.
In realtà, la Toscana era stata investita dagli scorridori saraceni, come da quelli vikinghi, tra IX e XI secolo: ma, nel corso di quest’ultimo secolo, l’Islam era entrata in una fase di ripiegamento su se stesso se non di vera e propria crisi e il ruolo dell’attaccante era passato dagli emirati arabo-berberi tunisini, algerini e iberici (Mursia e la Baleari) alle città tirreniche come Amalfi, Genova e Pisa. In margine alla loro offensiva contro i berberi, genovesi e pisani avevano avviato la loro contesa a proposito dell’egemonia su Corsica e Sardegna. Limitandoci ai toscani, giova ricordare che i marinai pisani – dopo l’ultima incursione saracena sulla città, a opera del corsaro Mujahid (detto Musettus) – nel 1005, avevano sconfitto il loro avversario, signore delle Baleari, nel 1016 e si erano dati a incursioni sempre più frequenti, in alleanza o in concorrenza con i genovesi. Gli episodi salienti di quest’attività erano stati il saccheggio del porto di Palermo nel 1063 (mentre un corpo di spedizione di guerrieri franchi attaccava Barbastro in Andalusia) e la presa di al-Mahdyyah nel 1087: tutti eventi preludio della prima crociata, al punto che qualche storico determinista li ha denominati “pre-crociate”.
Fra XII e XIV secolo, mentre le marinerie bizantina e musulmana erano ridotte in una posizione difensiva e marginale, il Mediterraneo era stato dominato dalle flotte genovese, pisana, veneziana e più tardi catalana; solo con il XIV secolo comparve un nuovo fenomeno di “guerra di corsa” musulmana, che aveva il suo centro sulle coste del meridione della penisola anatolica. Ma di lì a poco, con l’arrivo degli Ottomani e la loro fagocitazione dell’impero bizantino e di quello egiziano-mamelucco in poco più di sessant’anni (Costantinopoli viene conquistata nel 1453 da Mehmet II; il Cairo nel 1518 da Selim I), l’Islam egemonizzato dai padishah d’Istanbul stabilì il suo dominio sia pure imperfetto – restava pur sempre la potenza della Serenissima Repubblica di Venezia che in parte l’osteggiava, in parte collaborava con prudenza con esso – sulla parte orientale del Mediterraneo, mentre quel che il mondo islamico aveva guadagnato da quella parte veniva perduto nel bacino occidentale del medesimo mare, che dopo la conquista di Granada assisteva all’imporsi tra penisola italica e stretto di Gibilterra dell’egemonia spagnola, estesa immensamente sull’Oceano atlantico e nel Nuovo Mondo ma tuttavia minacciata costantemente dagli emiri corsari del Maghreb, formalmente vassalli del sultano d’Istanbul.
La Toscana fece la sua parte all’interno di questo complesso quadro garantendo tuitio maris per quanto atteneva la sue coste e impegno militare per quel che riguardava il contrasto ai barbareschi. Tutta la prima metà del Cinquecento fu occupata dal duello tra i turco-barbareschi guidati da Khair ed-Din “Barbarossa, beylerbey di Algeri, contro le coste della Spagna, del ducato di Savoia e del Sacro Romano Impero: mentre la Francia di Francesco I lo appoggiava e spesso i legni francesi si univano a quelli ottomani in assalti furiosi che raggiungevano i litorali dello stato della Chiesa e del regno di Napoli inglobato nella corona spagnola. Carlo V rispose a sua volta conquistando Tunisi nel 1535 e cercando invano di prendere Algeri nel 1541; gli scontri continuarono, quindi, con alterne vicende.
Un nuovo assaggio offensivo cristiano contro le coste nordafricane si ebbe alla fine dell’inverno del 1560, quando una flotta di una cinquantina di galee fornita da Spagna, Napoli, Sicilia, Genova, Firenze, papa e Ospitalieri scaricò sull’isola di Jerba, all’imbocco meridionale del golfo di Gabès, circa 12.000 armati. Il 13 marzo, l’isola era presa: era chiaro che, ormai, ci si stava avviando a un’azione ad ampio raggio, diretta a minacciar magari la stessa Tripoli. Ma a metà maggio, i turchi riuscirono a distruggere quella formidabile armata: la guarnigione rimasta a presidio di Jerba resistette circa due mesi e mezzo, per cedere comunque a fine luglio: e fu un massacro dal quale si salvarono soltanto circa 7000 uomini, inviati tristemente prigionieri a Istanbul.
Fu soprattutto in seguito a queste vicende che il duca di Firenze e di Siena Cosimo I, dopo qualche a onor del vero modesto exploit marinaro fondò solennemente il 15 marzo del 1562, nel duomo di Pisa, il Sacro Militare Ordine Marittimo dei Cavalieri di Santo Stefano, di lì a poco destinato con begli edifici e gloriose insegne ad abbellire Pisa e anche Livorno e del quale i granduchi sarebbero stati ereditariamente Gran Maestri. Esso avrebbe dovuto tutelare le coste toscane contro turchi e barbareschi. La sua arme, la croce patente biforcata vermiglia in campo d’argento, richiamava quella dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, poi – fino al 1522 – di Rodi e infine di Malta: ma i colori erano invertiti rispetto a quell’insegna. L’inversione cromatica è in araldica un messaggio ambiguo: può indicare fratellanza e complementarità, può significare rivalità e opposizione. D’altro canto, i colori di Santo Stefano erano i medesimi di Firenze. L’Ordine debuttò militarmente nel 1565, al fianco della marina spagnola, in soccorso a Malta assediata; da allora avrebbe fatto le sue molte brave prove sul mare, nella guerra di corsa, contrastando ed emulando i barbareschi, rifornendo il granducato – e non solo – di schiavi ‘turchi’ e il porto di Livorno dei necessari «schiavi da remo», indispensabili per la propulsione delle galee, e magari disturbando non poco le potenze cristiane quando si attraversavano le fasi di tregua. Nel caso di quelli di San Giovanni e di Santo Stefano si può parlare di ‘Ordini corsari’, senza irriverenza alcuna, bensì nel senso tecnico della parola: Ordini cioè che esercitavano la ‘guerra di corsa’ nel nome e per conto della Cristianità..
Intanto, forte del successo di Jerba, Solimano tentava nel 1565 la conquista di Malta, formidabile ostacolo nei rapporti marittimi tra l’impero sultaniale e il Maghreb, da dove le galee dell’Ordine colpivano con frequenza e durezza le coste tanto europee e asiatiche quanto africane dell’impero. Una flotta di 140 galee, una ventina di galeotte e numerosi vascelli da trasporto, con un contingente di circa 30.000 armati, partì dalla rada di Navarino il 12 maggio per giungere sei giorni dopo sotto le coste maltesi. Ma le risorse e la combattività dei cavalieri erano state sottovalutate: l’assedio si trascinò stancamente, con alte perdite da parte degli assalitori, finché la notizia dell’incombente arrivo d’una flotta spagnola di soccorso fece decidere le forze ottomane a reimbarcarsi esattamente quattro mesi dopo l’inizio della campagna, il 12 settembre. Il fatto che l’isola fosse il raccordo fondamentale tra Europa orientale e Africa settentrionale rendeva ancor più cocente l’insuccesso; tuttavia, il nuovo gran vizir, Mehmet Sokollu, era in generale contrario alle imprese marinare. Da parte cristiana, nella stessa Inghilterra protestante si giunse a ringraziar Dio per questa vittoria dei ‘papisti’.
Giunse cinque anni dopo la gloria di Lepanto, alla quale i toscani parteciparono con galee inglobate nel contingente pontificio, in quanto re Filippo II di Spagna non aveva gradito che il duca di Firenze e di Siena avesse accettato l’investitura granducale da parte del papato, che rendeva vassalli del papa i due ducati toscani feudalmente dipendenti dall’impero e la Toscana nel suo complesso. Comunque, Lepanto fu si può dire il “canto del cigno” di Cosimo I come “signore del mare”. Dopo la sua scomparsa, la sua eredità sarebbe stata rilevata dal figlio Ferdinando anche per quel che concerne la gloria sul mare: e a Livorno il monumento dei “Quattro Mori” gliene rende atto.