Fonte: Volere la luna
L’undicesima piaga d’Italia si chiama Matteo. Magari al plurale, perché in verità essa ha un volto bifronte.
Quando Matteo Salvini sale al Colle nel tentativo di rimettersi sul cavallo da cui si era disarcionato al Papeete, sfruttando il morbo che infuria; quando Matteo Renzi gioca al poker coperto in un Paese sull’orlo di una crisi di nervi nel tentativo penoso di restare al centro del ring e trattenere qualche frammento di elettorato che gli scivola via, non mettono solo in scena uno dei punti più bassi che la bassa politica di oggi può rappresentare. Compiono – a danno di tutti noi – un gesto d’irresponsabilità morale e sociale di gravità estrema, perché tale è il tentativo di aprire una crisi di governo nel pieno di un’emergenza sanitaria (quale che sia la valutazione che ognuno può dare sul grado di minaccia del contagio, che si ritenga che esso sia sottovalutato o al contrario sovrastimato). Un gesto paragonabile a quello degli sciacalli che speculano sulle mascherine sanitarie e sul gel igienizzante, o che truffano i pensionati fingendosi funzionari della protezione civile. Qui siamo al di là dei confini della politica, per degradata che essa sia, e ridotta a “sangue e merda” come voleva il vecchio Rino Formica. Siamo all’incrocio sordido tra arte di arrangiarsi e cinismo puro (senza altro fine del proprio esserci): alla minaccia del “muoia Sansone con tutti i filistei”, lanciata da due filistei di lungo corso che della guerra corsara hanno fatto la propria professione.
Certo, se c’è qualcuno che dovrebbe curarsi più di ogni altro di mostrare il meno possibile in pubblico la propria faccia, questo è proprio il primo Matteo, il “padano”, se non altro perché è dal cuore delle sue roccaforti che è partito il contagio, non da qualche porto rimasto aperto, da un qualche barcone di quelli su cui poco tempo fa lanciava l’allarme scabbia, ma dal laborioso lodigiano, ed è arrivato fino ai piani alti del Pirellone, a costringere il “Governatore” a coprirsi la faccia, che ci sarebbe da ridere se le cose non fossero tragiche. Il virus non ha viaggiato sulle carrette del mare ma in business class, non si è annidato nei recessi fangosi di un qualche campo profughi ma nelle palestre tirate a lucido e nei campi da calcetto dove manager frenetici scaricano la tensione di mercati fibrillanti. E se non si infierisce sui poveri medici di Codogno, è solo per carità di patria e perché quando piove è bene non infierire sugli alluvionati, ma non c’è dubbio che se il focolaio maggiore è localizzato lì, e quello veneto ne sembra una figliazione, qualcosa di “sbagliato” deve pur essere successo. Comunque, non si starebbe a rinvangare tutto questo se il “Capitano” tenesse un profilo appena un po’ più basso, e non andasse in giro a gridare che bisogna riaprire tutto dopo aver gridato allo stesso volume che bisogna chiudere tutto, a cominciare dai porti. E se non sbraitasse che “il Governo deve chiedere scusa agli italiani perché l’Italia è il terzo paese al mondo per contagi, davanti persino al Giappone che confina con la Cina” (sic), dimentico del fatto che più del 90% di quei contagi sono “a casa sua” e che il Giappone non confina con un bel niente se non col mare essendo un’isola …
Allo stesso modo per l’altro Matteo. Aveva cominciato sparando alto, chiedendo un incontro con Conte per presentargli l’ultimatum – “se riterrà di respingere le nostre richieste, faremo senza polemiche un passo indietro” – proprio il giorno prima che lo tzunami partito da Codogno bagnasse le polveri anche ai suoi cannoni, ma non ha smesso – anche dopo che devono avergli spiegato che non porta bene minare le mura mentre il pericolo è alle porte – di brigare sotto traccia per preparare la rovina di un governo che aveva fatto nascere ma che subito avrebbe voluto veder morire: nelle more parla per lui il fido Scalfarotto, che per il fatto di portare come cognome il diminutivo di un ex Presidente della repubblica s’illude di averne in piccolo le prerogative sui destini di legislature e governi… E il fuorionda di Fontana, poco dopo lo scontro con il premier: “Renzi mi ha mandato un messaggino di sostegno… E’ più forte l’odio per Conte che per la Lega” la dice più lunga di qualsiasi dichiarazione ufficiale. Infatti, pur fingendo di guardare in direzioni opposte, come le due “fronti” di Giano, tra i due Matteo l’incrocio di amorosi sensi è fisicamente percepibile, nell’illusione congiunta del “Governissimo” che metterebbe miracolosamente in stand by la disperazione di entrambi: quella del primo per aver perso la grande occasione del “comando” e quella del secondo per aver perso anche l’ultimo treno per contare qualcosa. Ipotesi bizzarra per entrambi, allucinatoria, ossimorica: per il primo perché, dopo aver rivendicato i pieni poteri, si ritrova a caldeggiare una dispersione del potere addirittura tra “tutti”, e può in qualche modo conciliarsi con se stesso solo raccontandosi che servirebbe solo per i pochi mesi necessari a preparare un voto considerato impellente (ma che sarebbe devastante nelle condizioni di crisi in cui si versa). Per il secondo perché gli toglierebbe l’unica arma che ancora gli resta, e cioè quella di giocare sui numeri risicati della maggioranza al Senato per far valere il proprio potere di ricatto. Ma, appunto, non sono tempi di Ragione. Né di razionalità. Piuttosto di confusione. E di furori. Quali solo lo stato di pericolo porta con sé.
E appunto a questo proposito, vorrei essere chiaro. Siamo di fronte a un fenomeno che non comprendiamo. E che non riusciamo neppur tanto a misurare. Persino gli epidemiologi e i virologi non sono d’accordo tra loro, e talvolta si dividono su posizioni opposte e litigano. Figuriamoci gli altri, noi. Eppure è come se fossimo diventati tutti virologi. Allo stesso modo in cui l’altro ieri si era tutti economisti davanti al MES. E ieri giuristi sulla prescrizione. Ma qui non c’è in ballo solo la Polis (che pure è cosa complessa e importante). C’è in gioco il Bios (ovvero la “pelle” e quello che ci sta sotto e scorre dentro). E quando questo accade, quando qualcosa ci sfida alla radice della vita nuda, ci trova sempre inadeguati. Spaccati tra “l’inquietudine e la speranza”, come scriveva Camus settant’ anni fa (sebbene siano cosa comune “si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa”. E nonostante ci siano sempre state, “pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati”). O tra l’indifferenza e il delirio. In ogni caso “sragionanti” e tuttavia loquacissimi, una coppia perversa che rischia di diffondere su scala allargata la stupidità (“La stupidaggine insiste sempre, ce se n’accorgerebbe se non si pensasse sempre a se stessi” – è ancora Camus).
Per questo – per non rischiare di dire stupidaggini, di cui poi vergognarmi – ho deciso di parlare il meno possibile del coronavirus e di ascoltare quanto più riesco chi “sa” o quantomeno dovrebbe “sapere” (sapendo a mia volta che anche loro “sanno poco” o comunque “non sanno tutto”). Non sono un virologo, non conosco le nozioni più elementari di medicina, non sono nemmeno uno scienziato (nel senso delle naturwissenschaften, delle scienze naturali). Non ho nessun titolo per misurare il grado di rischio, la velocità di diffusione, l’aggressività e la mortalità del virus… Per questo mi sono imposto di non giudicare a priori le misure decise dal Governo sotto la guida degli “esperti”, se siano eccessive o al contrario troppo blande, se si debba chiudere tutto o viceversa riaprire subito, se il prezzo pagato sia eccessivo o ancora ragionevole… Sinceramente, non lo so. E, altrettanto sinceramente, mi danno un po’ fastidio (anzi, molto) quanti irridono le paure ripetendosi e ripetendoci che non sta succedendo niente e che l’influenza c’è sempre stata, allo stesso modo in cui mi avevano disgustato quanti, all’inizio di tutto, predicavano la sigillatura dei confini e la quarantena per tutti gli asiatici sbarcati qui bambini compresi altrimenti la peste ci avrebbe sterminati. Naturalmente mi fanno orrore i Fusaro che nella furia di celebrare se stessi e di pretendere la chiusura dentro i “confini nazionali” farneticano sui social contro l’”universalismo mercatista” di quanti “per sostenere la totale e incondizionata apertura agli altri condannano a morte i propri concittadini” (testuale); come d’altra parte mi terrorizza la schiera di imprenditori che in nome del business must go rivendicano a gran voce l’abbandono di tutte le misure restrittive e il “ritorno alla normalità” come se si potesse essere normali in condizioni eccezionali.
E a proposito di “condizioni eccezionali”: mi aveva colpito, e intellettualmente sedotto, l’articolo sul Manifesto in cui Giorgio Agamben stigmatizzava le misure (e le retoriche) governative collocandole nel quadro dell’attuale “tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo”. Agamben è uno che di “stato d’eccezione” se ne intende. Ci ha scritto un bellissimo libro, nel 2003. Quando denuncia il ”perverso circolo vizioso” in forza del quale “la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo”, propone uno schema di pensiero che è stato anche il mio, a lungo (il compito del disvelamento del gioco del potere al di sotto della superficie fallace delle retoriche pubbliche, affidato al “pensiero critico”). E ripropone l’idea – centrale in tutta la cultura dell’”impegno” – del dovere dell’intellettuale di smascherare tali giochi, rivelando il vero volto delle cose: la Cassandra di cui parla Tomaso Montanari, deprecandone oggi il silenzio. Mi aveva “intellettualmente sedotto”, come ho detto. Ma non intimamente convinto. Forse perché in un qualche angolo del mio inconscio la paura atavica della morte per natura è restata annidata con una sorta di “timor superstizioso”. Forse perché sono “vecchio”, e un governo che “si prende cura” in nome dell’eccezionalità mi spaventa di meno di uno che se ne infischiasse per ossessione di normalità. O perché non vedo hostes interni o esterni, nemici politici o sociali contro i quali invocare la mobilitazione totale che ogni schmittiano “stato d’eccezione” implica. O semplicemente perché l’uso del “pensiero critico” richiede comunque, per essere esercitato, conoscenza specifica dei fatti a partire dai quali la critica possa essere elaborata, che personalmente credo di non possedere (ma che dubito che anche Agamben abbia).
Per questo al sartriano dovere di critica, in questo momento preferisco il “principio di precauzione” teorizzato da Hans Jonas, il quale in condizioni di dubbio sul carattere potenzialmente pericoloso di una determinata situazione impone di agire (si definisce infatti «the principle of precautionary action») anziché di astenersi. E agire commisurando i propri interventi allo scenario peggiore, non al più rassicurante. Il concetto era stato formulato da Jonas a proposito delle emergenze ecologiche, ma non mi sembra estraneo al nostro caso attuale. Si attaglia infatti a tutti quei fenomeni potenzialmente catastrofici in cui la natura è implicata con l’azione umana: non dunque i terremoti, per esempio, ma sicuramente i cambiamenti climatici. E, perché no?, le epidemie a diffusione generale. O, come si dice, le “pandemie” rispetto alle quali i nostri comportamenti “sociali” possono determinare in un senso (meno distruttivo) o in un altro (più pericoloso) l’evoluzione del fenomeno.
Dunque sui vizi o le virtù di Conte e Speranza, e su cosa si dovrebbe o non si dovrebbe fare per minimizzare i danni e circoscrivere il contagio, non so dire nulla. Così come sul duello tra Burioni e Gismondi (se non che il primo è più antipatico della seconda). Su questo, Volere la luna, giustamente, ha dato la parola a Gianni Tognoni, quello di noi che più ne sa (Il Corona virus è un problema sanitario, non una guerra). Io, da studioso dei fatti sociali e politici – che è la mia professione – posso aggiungere solo alcune banali osservazioni relative agli effetti culturali dell’epidemia più che sulle sue cause e sui suoi (possibili) rimedi.
Intanto, come sempre accade quando una “pestilenza” (per dirla con Camus) si abbatte su una società, essa funziona da catalizzatore di tutti i processi negativi, le viziosità, le linee di crisi che vi preesistevano sotto traccia, facendole precipitare in un punto solo. Orano, il luogo in cui è ambientato il romanzo, era una città “senza pittoresco, senza vegetazione e senz’anima”, un po’ come la nostra Padania…
E’ – fatte le debite proporzioni: non viviamo con la peste bubbonica – un po’ quanto si disvela oggi, quando nell’isteria che accompagna il fenomeno quella che domina è, a ben vedere, la sfiducia, da cui deriva a sua volta gran parte dell’agire irrazionale. Sfiducia nei decisori pubblici, nelle autorità politiche, ma sfiducia anche negli scienziati e nella scienza, sfiducia nelle fonti di informazione, sfiducia nei propri stessi simili, nei vicini che ti possono appestare, nel passante che ti tossisce accanto, nel commerciante che ti vuole fregare: insomma, quella crescente delegittimazione di tutte le élites – politiche, appunto, culturali, economiche – che ha determinato e accompagnato l’irresistibile ascesa dei populismi virati in sovranismi; e insieme l’individualismo competitivo e predatorio che l’ha preparata.
Aggiungiamo che la “maledizione” si abbatte su un corpo sociale già malato, un’economia infragilita dal predominio di una finanza predatoria, un sistema di servizi estenuato da tagli ripetuti al welfare e in generale a tutto ciò che di pubblico residuava dal secolo scorso, conti pubblici a rischio di infrazione, bilanci famigliari al lumicino, reti di piccole e piccolissime imprese sempre sul pelo dell’acqua che basta un’increspatura per mandarle sotto… Come per una sorta di vendetta divina, il Corona virus è nato nel momento peggiore, quando l’ansia di confinamento e la tentazione del nazionalismo sovranista si facevano ideologia politica e gli hanno dato la terribile energia che l’irruzione del numinoso nella quotidianità possiede.
Contemporaneamente l’”emergenza” ha fatto giustizia di alcuni luoghi comuni che avevano tenuto il campo nella “normalità” precedente: la questione delle “autonomie differenziate” regionali, rivelatesi un pericolo mortale nel momento in cui situazioni generali e complesse impongono provvedimenti omogenei e segnali autorevoli e non contraddittori; la questione della “sanità privata”, rivelatasi inutile e impotente, a fronte della importanza e centralità di quella pubblica, che a sua volta rivela le inescusabili colpe per i tagli dissennati da questa subita nel decennio scorso quando si sono sacrificati 70.000 posti letto ospedalieri che oggi renderebbero meno grave l’emergenza… E’ il default di un intero “paradigma” politico-culturale dominante in modo quasi incontrastato – l’iperliberismo come anima nera del finaz-capitalismo – rivelatosi ora ostile ai fondamenti stessi della vita sociale e che si tratterà di sostituire quanto prima, quando si potrà tornare a ragionare.
Per tutto questo – per la complessità convulsa e radicale della crisi in corso e per il compito spaventoso di ricostruzione futura dei nostri fondamenti – figure come quelle dei “due Mattei” ma soprattutto lo spirito dissolvente del loro cliché politico e culturale costituiscono un’”emergenza nell’emergenza”. Rappresentano l’hostis in un ipotetico “stato d’eccezione”. Finché quel modo di concepire la politica avrà spazio e ruolo nel nostro quadro istituzionale, finché saranno accolti come ospiti d’ onore in tutti i talk show, finché otterranno il podio della prima pagina per ogni esternazione estemporanea, finché per ossessione della notizia avranno cittadinanza negli editoriali dei giornali di sistema e finché i loro house organs (da “Libero” alla “Verità” al “Riformista”) saranno trattati come organi di stampa privilegiati nelle rassegne televisive, resteremo un “Paese a rischio”.