L’ultimo Putin è solo. Il suo potere in apparenza totale è totalmente dipendente dall’opinione pubblica. Peggio, ne è prigioniero

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Redazione Limes
Fonte: Limes

Platov non ha paura

Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022

1. «Se non io ora, chi, quando?». Vladimir Vladimirovič Putin lo ripeteva da tempo ai rari intimi, con quel mezzo sorriso tirato che per l’età pare smorfia. Sapendolo allenato a governare un carattere emotivo e violento, i pochissimi che si scontravano con quell’anacoluto preferivano leggervi acida battuta anziché minaccia in cifra. Fino all’alba del 24 febbraio. Quando Putin ha annunciato alla Russia e al mondo che i suoi carri armati stavano invadendo l’Ucraina. Per riportare i «fratelli» a casa. Prima che il loro appartamento diventi americano. E che al Cremlino sieda un successore, di certo meno capace.


Il presidente russo è l’invidia di ogni decisore. Nessuno fra i capi delle potenze avvicina il suo potere. Filosofi e politologi di cultura liberale lo bollano «totalitario». Definizione generica, di scarsa pregnanza per l’analisi geopolitica. Acquista senso solo se decrittata nel suo contesto. Per noi occidentali è sinonimo di oppressione. Nel sistema russo – zarista, sovietico e putiniano, ciascuno con le sue variazioni e i suoi bemolle – vale l’opposto. «Per noi “governo totalitario” significa governo i cui interessi dominano gli interessi dei cittadini. Il termine non ha nulla di crudele. Esprime la superiorità degli interessi dello Stato sugli interessi dei cittadini». Così nel 1995 Vladimir Solodin, detto «l’occhio dello Stato», censore capo da Brežnev a Gorbačëv e brevemente sotto El’cin. Per soggiungere: «Una società totalitaria non è troppo interessata a che i suoi membri siano informati. Questo non è compito del governo totalitario. Una persona dev’essere informata nei limiti in cui il governo decide che sia soddisfacente e possibile» 1.


Va da sé che Solodin, comunista inconcusso, si pensasse perfettamente nel giusto. E che Putin, formato alla scienza della disinformazione nei suoi sedici anni da agente del Kgb (1975-1991), autodefinito «prodotto riuscito dell’educazione patriottica dell’uomo sovietico» 2, firmerebbe l’apologia solodiniana del totalitarismo alla russa. Tradotto dall’ex ideologo del presidente Vladislav Surkov in «democrazia sovrana». Totalitarismo imperfetto. Commedia dell’arte in cui il capo distribuisce le maschere alle comparse che recitano da governanti o «oppositori sistemici».


Dove l’essenziale è appunto servire il sistema. Dominato e rappresentato dal presidente imperatore. Potere del carisma e carisma del potere si fondono nel capo. Modello Augusto, che vestì da repubblica il suo impero – classicheggia Surkov – «sposando le aspirazioni dei cesaricidi con quelle della gente comune che voleva una dittatura diretta». Sul suo esempio, Putin «non ha abolito la democrazia, l’ha maritata all’archetipo monarchico» 3. E come spesso accade in fin di regno, quando il capo invecchia e il suo tempo – che lui sente tempo dello Stato – stringe, si stringono anche i bulloni del sistema.


In tempo di guerra il totalitarismo diventa quasi totale. Brutale. Surkov, già fool scespiriano non sempre al servizio del monarca, finisce agli arresti domiciliari causa «malversazioni». Gerarchi di grado alto sono sbattuti diritti in galera. Fra questi Sergej Beseda, capo del Quinto dipartimento dell’intelligence federale (Fsb), colpevole di aver disinformato il capo invece del popolo, rinchiuso nelle tristi segrete di Lefortovo.


L’ultimo Putin è solo. Sa che il suo potere in apparenza totale è totalmente dipendente dall’opinione pubblica. Peggio, ne è prigioniero. Perché non può perdere. E perché oggi la maggioranza dei russi, persino della borghesia relativamente agiata, vuole andare fino in fondo. Quale sia questo fondo nessuno sa. Salvo che deve apparire trionfo. Nella tavolozza del totalitarismo alla russa scarseggiano le tonalità di grigio.


2. La verticale del potere è concetto caro a Putin. Significa che tutto afferisce al capo e dal capo si dirama alle membra del gigante eurasiatico ritagliate in 85 soggetti federali assai poco soggettivi e sempre più eterodiretti. Non per questo affidabili. Quando l’autocrazia entra in guerra, suona l’allarme. Ora come mai il rischio è che il flusso dei comandi lungo la verticale s’inverta. Dal corpo alla testa. Si chiama rivoluzione.


Negli incubi di Putin la verticale deraglia, il segmento si frammenta, ordini e contrordini procedono a zig zag. Ai russi ricorda l’età dei torbidi. Quindicennio (1598-1613) di falsi Dmitrij, d’invadenze e invasioni straniere. Preludio al cambio di dinastia. Sanguinosa staffetta fra Rjurikidi e Romanov. L’ossessione di Putin è che la rivoluzione si colori per mano americana, britannica e polacca, fino all’eruzione finale: regime change. Colpo di Stato? No. Cambio di Stato. Ottobre insegna. Quando in Russia il sistema è rovesciato, la crisi politica vira in geopolitica. Con il crollo delle istituzioni muta la carta dello Stato. Dal ceppo della grande Russia gemmano coriandoli di ex Russie di varia taglia, ansiose d’indipendenza. I feudatari si emancipano dall’imperatore. Capitò alla Russia zarista nel 1917, a quella sovietica nel 1991. Potrebbe toccare alla versione putiniana, domani. Punita per aver azzardato l’invasione dell’Ucraina senza averne i mezzi (carte 1 e 2).


Carta di Laura Canali - 2022

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Putin lo sa. Perciò ha deciso di giocare il tutto per tutto. Nella sorpresa di quasi tutti, consiglieri stretti compresi. Disinformato dai suoi e dalla paranoia che attanaglia chi troppo a lungo siede al Cremlino, ha mancato l’obiettivo principale. L’ingresso trionfale a Kiev, con epinicio canonico a Santa Sofia e sfilata militare per i viali della città madre di tutte le Russie. Ne era talmente certo da ordinare ai soldati in marcia verso la gloria di portare nello zaino le uniformi da parata. Le insegne dei «banderisti», i neonazisti ucraini, sarebbero state gettate ai piedi di Putin durante la Parata della Vittoria che celebra ogni 9 maggio il trionfo nella Grande guerra patriottica antinazista. Fallito o almeno rinviato l’obiettivo principale, Mosca discute di che cosa potrà essere spacciato per vittoria. E bevuto per tale dal popolo.


Il popolo deciderà, prima o poi. Paradossi dell’autocrazia.


3. Guerra di Putin o guerra della Russia? La domanda dilania la comunicazione occidentale. I fatti rispondono: guerra di Putin e guerra della Russia. Per ora.


È raro che un popolo identifichi la sua guerra con il suo provvisorio capo. La Russia è diversa. Non perché tutti i russi siano putiniani. Niente affatto. Ma quando romba il cannone e univoca tuona la propaganda, scattano durissime sanzioni nemiche e il presidente americano bolla «macellaio» l’omologo (si fa per dire) russo, il riflesso immediato è di stringersi al tricolore bianco-blu-rosso. Pensando forse all’imperiale nero-giallo-bianco. Un russo che Putin non lo voterebbe mai oggi potrebbe morire per lui. Per la patria.


Anche per questo abbiamo centrato questo volume sul caso Putin. Usiamo l’imperatore come prisma ottico per studiare le caratteristiche del suo sistema. Illuminiamo la struttura del potere attraverso chi ne è spia, nel doppio senso della parola – rivelatore analitico e «specialista in relazioni umane» (così il presidente descrive il suo mestiere d’origine). Per scoprire la complessione effettiva della Russia. Esercizio necessario nel buio pesto prodotto dall’abbagliante incrocio di propagande e contropropagande che i tecnici nominano infowar.


Scernere il poco grano dal molto loglio della comunicazione bellica sarebbe altrettanto vano dello studiare le guerre d’antan passando alla lente del filologo i bollettini di Stato maggiore. Eppoi Putin aiuta. Sembra prestarsi al nostro gioco. Tende a fare quel che dice, anche se raramente dice quel che fa. E il modo in cui dice rivela il suo retroterra. Putin s’è formato nella zona grigia dove s’incrociano mafie e istituzioni, che lui ha piantonato da spia d’uno Stato in cui la frontiera fra legalità e malavita è sempre incerta. Resa nell’espressione «vor v zakone», «ladro nella legge», come l’argot locale qualifica i frequentatori di quegli spazi ambigui.


Lui stesso ammette che gli capita di scadere nel «mat», gergo violento tipico del teppismo di strada. Spesso ne fa uso mirato, a scopo intimidatorio. Così il 7 febbraio scorso si rivolge a Zelens’kyj, refrattario all’accordo-quadro di Minsk sul Donbas: «Che ti piaccia o no, lo dovrai sopportare, bellezza!». Citazione tratta da una cobbola oscena stile mat, che vira in sessismo il bacio del principe alla bella addormentata. Registro infettivo, cui il 18 febbraio cede perfino il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, idealtipo del diplomatico, che per spiegare quanto sia importante per la Russia stipulare con l’America un trattato sui nuovi equilibri europei pesca nella lingua dei criminali: «Il boss l’ha detto, il boss l’ha fatto. Faremo in modo che tutto accada onestamente. Però bisogna che anche al livello internazionale siano rispettate le regole del boss («ponjatija»)» 4. Vivere «po ponjatijam» significa per i gangster russi riconoscere i codici e le gerarchie informali 5. Può valere anche ai piani altissimi del potere.


4. Il lungo ventennio putiniano, teoricamente prolungabile al 2036, non è certo lineare. Fra curve e scalini, le cesure decisive: 2007 – addio alla speranza di accedere all’Occidente come polo autonomo via discorso alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco; 2012 – ritorno sul trono del Cremlino, per niente soddisfatto della prestazione del subordinato emulo Medvedev; 2020 – riforma iper-accentratrice della costituzione; infine questo fatale 24 febbraio. Tappe della progressiva disillusione di chi aveva sperato d’essere ammesso alla parità formale nella relazione con l’America, tanto da ventilare l’adesione alla Nato (2000). Alla ricerca di rispetto. Termine da lui stesso abusato. Nome della frustrazione di chi non vede riconosciuto per sé, quindi per il suo paese, il rango che ritiene dovuto (grafico).


Carta di Laura Canali - 2022

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Che cos’è la sua se non geopolitica del risentimento? Psicologismo, obietterà qualcuno. Ma abbastanza compatibile con le mosse di Putin tra Sirie, Afriche, Kazakistan, infine Ucraina. Pillole ricostituenti, dopo lo smacco subìto a Kiev nel 2014, quando si fece sfilare la «Piccola Russia» dal colpo di mano americano, gestito sul campo da una donna di piglio, Victoria Nuland. Mentre dalla Casa Bianca un presidente nero lasciava cadere la piccola frase sulla Russia «potenza regionale». Offesa intollerabile almeno quanto gli epiteti di Biden debbono lasciarlo indifferente, forse divertito. Per chi femminista non è e indulge al politicamente scorretto tinto di razzismo da cortile, beffe insopportabili. E con ciò notiamo di passaggio quanto l’inclinazione a razionalizzare le scelte geopolitiche – vizio del mestiere da cui non siamo immuni – possa deviarci dalla comprensione dei fatti.


Riprendiamo in mano il Dialogo sul potere di Carl Schmitt. Dove il già sulfureo Kronjurist hitleriano dipana la tesi del rapporto obbligato fra sala e anticamera del trono. Tra sovrano e consiglieri, potere diretto e poteri indiretti accalcati nel vestibolo in attesa di essere convocati dal capo per sussurrargli le loro interessate verità. Dialettica inaggirabile, che avvolge il presunto monarca nella bruma degli influssi indiretti: «Quanto più il potere si concentra in un determinato punto, in un determinato uomo o gruppo di uomini come in un vertice, tanto più si acuiscono il problema del corridoio e la questione dell’accesso al vertice. (…) Il potente diventa sempre più isolato quanto più il potere diretto si concentra nella sua persona individuale.


Il corridoio lo sradica dal terreno comune e lo innalza in una sorta di stratosfera in cui egli mantiene contatti soltanto con coloro che indirettamente lo dominano, mentre perde i contatti con tutti gli altri uomini su cui esercita il potere, che a loro volta perdono contatto con lui» 6. Chiunque abbia avvicinato Putin nell’ultimo paio d’anni lo vede ritratto in queste parole. E descrive il corridoio che immette all’orecchio del capo come percorso a ostacoli, fitto di controlli, vincoli, distanziamenti. Nelle sedute del gabinetto privato Putin si barrica dietro a un tavolo che lo fa sembrare più piccolo e rigido di quanto sia. Con gli eletti appollaiati a distanza su scomode sediole, scolari prima dell’appello. Presi gli ordini, ciascuno li interpreta e disperde giù per burocrazie sgangherate degne del miglior Gogol’.


Il disastro evidente nei primi giorni dell’«operazione militare speciale» ha spinto il sovrano furioso a tentare l’impossibile. Scavalcare l’anticamera, abolire il corridoio, impartire ordini direttamente alle unità sul terreno. Risultato: ogni comandante sul campo, ricevuto in busta chiusa l’ukaz del Cremlino l’interpretava per conto suo. Caos totale. Ogni reparto combatteva la sua guerra, intralciando o non curando di proteggere gli altri. Disastro accentuato dall’inevitabile vaghezza delle direttive cui il presidente doveva ricorrere per non intestarsi la responsabilità dell’eventuale rovescio. Solo a inizio aprile Putin ha ricostituito la catena di comando.


Al vertice ha posto il generale Aleksandr Dvornikov, forte della fama conquistata in Siria. Ordini chiari: conquistare tutto il Donbas, disenclavare la Crimea e così preparare la spinta decisiva verso Odessa e Transnistria, avvicinando il progetto di Nuova Russia e riducendo l’avanzo d’Ucraina indipendente a Stato fallito, senza affaccio sul mare (carte a colori 1 e 2).


Carta di Laura Canali - 2022

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Obiettivo avvicinato attraverso il controllo del Mar d’Azov, ormai lago russo, ottenuto sottraendo il porto di Mariupol’ alla sovranità di Kiev. Successo di rilievo perché consolida il controllo della Crimea, assicura a Mosca una posizione centrale nel Mar Nero, scorciatoia fra heartland russo e Mediterraneo. Il Mar d’Azov, collegato al Caspio dal canale Don-Volga, è chiave nel sistema dei Cinque Mari (Nero-Azov-Caspio-Baltico-Bianco) che erige la Russia a «potenza navale continentale», secondo l’inventiva onomastica del capitano di vascello Pierre Rialland, della Marina francese 7. Senza accedere ai mari caldi, i missili della Flotta del Mar Nero possono colpire in un teatro lungo 6 mila chilometri, dalla Lituania all’Egitto, dall’Italia all’Afghanistan. Premio di consolazione dopo l’umiliante affondamento dell’ammiraglia Moskva (carte a colori 3, 4 e 5).


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5. Il danno reputazionale inflitto alla Russia dal solipsismo del capo, accentuato dalla sua modestissima opinione di collaboratori, consiglieri ed esecutori, non s’elimina con un colpo di smacchiatore. Di qui l’utilità di studiare come il carattere di Putin e quello del sistema di cui è prodotto s’incrocino e rivelino reciprocamente. La parola a Surkov, quand’era libero: «La società non ha davvero fiducia che nel capo. Sarà forse la fierezza di un popolo mai vinto, il desiderio più agevole di rendere il cammino verso la verità, o altro? Difficile dire, ma è un fatto e non è nuovo. La novità è che lo Stato non l’ignora, lo prende in considerazione e vi si riferisce nell’esercizio di tutte le sue funzioni. (…) Il modello contemporaneo dello Stato russo comincia dalla fiducia e tiene grazie alla fiducia. È ciò che lo distingue dal modello occidentale, che coltiva la sfiducia e la critica. È di qui che trae la sua forza. Il nostro nuovo Stato, in questo nuovo secolo, avrà una storia lunga e gloriosa. Non sarà distrutto. Agirà alla sua maniera, otterrà e conserverà i posti migliori nella Champions League della competizione geopolitica. Presto o tardi, tutti coloro che chiedono alla Russia di “cambiare comportamento” dovranno rassegnarsi ad accettarla come è. Dopo tutto, che possano scegliere è un’illusione» 8.


Esploriamo questa pista alla ricerca degli intrecci fra capo e popolo che introducono al dna dello Stato russo. Tratti dall’autobiografia che il semisconosciuto «Vovka» Putin dettò nel 2000 da presidente ad interim (foto 1). Quindi intonsi, non condizionati da fatti e misfatti del suo primo ventennio imperiale. Di seguito citati fra virgolette. Confrontati con gli eventi successivi, precipitati nell’avventura bellica in corso. Raggruppati in tre insiemi, che non pretendiamo oggettivi. Ciascuno con il suo prosaico epigramma, fusione del tratto putiniano con quello sistemico.


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A) La solitudine del capo è l’irresponsabilità del sistema. Ognuno venera – o dovrebbe farlo – il film che ha marcato la sua adolescenza. Per Putin è la serie in quattro puntate La spada e lo scudo di Vladimir Basov (1967). Epica fiction imperniata sullo spione Aleksandr Belov che nel 1940 s’infiltra nei servizi nazisti e da Berlino trasmette a Mosca informazioni essenziali per la vittoria. «Ciò che soprattutto mi ha impressionato è come con così scarsi mezzi, grazie alla forza di un solo uomo, si potessero ottenere risultati che intere armate non riuscivano a raggiungere. Una sola spia aveva in mano il destino di migliaia di persone» 9.


Nasce allora la passione che lo porterà a bussare alla porta del Kgb. Dove l’identificazione con Belov si realizza quasi completamente. Nel 1986 viene assegnato alla rezidentura di Dresda, polo sassone della Repubblica Democratica Tedesca (DDR), satellite sovietico poco affidabile, allora in sorda rivolta contro gli illusionismi gorbacioviani. Lavoro doppio: tenere sott’occhio i compagni tedeschi, che in genere non l’amavano, e dedicarsi alle «misure attive» (aktivne meroprijatija), cardine permanente della dottrina russa, misto di disinformazione, spionaggio e sovversione. In quella fase Putin è fra l’altro referente della Rote Armee Fraktion (RAF), per conto del Kgb e in connessione con il controspionaggio tedesco-orientale, retto dal leggendario Mischa Wolf, che avrà parole irriverenti nei suoi confronti. La RAF si distingue per clamorosi rapimenti e attentati terroristici nella Germania Federale e a Berlino Ovest.


A Dresda Putin vive il trauma che lo convincerà dell’irresponsabilità del sistema. E della solitudine delle spie. Nel tramonto sovietico, il loro eroismo è testimonianza di valore personale, spesso intraducibile in vantaggio sistemico. L’episodio marcante risale all’autunno del fatidico Ottantanove. Il Muro è appena caduto, grandi manifestazioni di protesta contro il regime agitano la DDR. Una sera a Dresda i dimostranti accerchiano il palazzo dove sono acquartierati gli uomini del Kgb. «La gente era molto aggressiva, pronta a scattare.


Ho telefonato al nostro raggruppamento militare per ottenere protezione. Dall’altra parte del filo mi hanno risposto: “Non possiamo far nulla senza ordini da Mosca. E Mosca tace”. Poi, qualche ora dopo, i nostri soldati sono infine arrivati. La folla s’è dispersa. Ma quella frasetta – “Mosca tace”… Ho avvertito allora il sentimento che il mio paese non esisteva più. Era chiaro che l’Urss era malata. E che si trattava di una malattia mortale, incurabile: la paralisi del potere» 10. «Mosca tace» («Moskva molčit») non è espressione incidentale. Al contrario, carica di simbolismi. Ricorda il celeberrimo «Parla Mosca» («Govorit Moskva»), marchio di Radio Mosca, la prima emittente internazionale al mondo (1929-93), imitata tre anni dopo dall’Empire Service della Bbc. Quelle due parole per decenni pronunciate con voce profonda dall’annunciatore Jurij Levitan, stella radiofonica dell’impero sovietico, risuonano nella memoria di Putin come di qualsiasi anziano russo.


«Mosca tace» è paradigma negativo di stringente attualità. Mentre nei primi giorni d’assalto a Kiev le comunicazioni fra capitale e fronte militare latitavano o si confondevano in micidiale cacofonia, Putin si scontrava con l’inefficienza del sistema. A cominciare dalle spie e dai generali. Memore del trauma sassone, pur di non tacere ha finito per straparlare, infliggendo ai referenti sul terreno torrenti di ordini e contrordini. Se e quando la nebbia della disinformazione sarà dispersa, sapremo se il ristabilimento di un minimo sistemico al fronte, protocollato con la nomina di Dvornikov, fu spontanea resipiscenza putiniana o frutto della pressione dal basso. 


B) Il complesso d’inferiorità verso l’Occidente, stigma di Putin e del sistema. Come vuole lo stereotipo, da buon russo il signore del Cremlino è orgogliosissimo patriota. Al limite dello sciovinismo, spesso oltre. L’altra faccia della fierezza panrussa è il latente senso di inferiorità nei confronti dell’America e dei grandi paesi europei, tra cui prima della Francia spicca la Germania, matrice della famiglia imperiale e di mezza classe dirigente zarista. Come storia ricorda, Berlino è legata a San Pietroburgo e a Mosca da più di un filo, nelle intese e nell’orrore. Amore-odio. Figlio anche della difficoltà per un macho ammaccato ma prorompente – che rappresenta un paese con entrambi i piedi nella storia – di comunicare con omologhi gaiamente postmoderni. Sentimento placato prima del 24 febbraio dalle ripetute disavventure belliche americane, dalla tempesta che scuote il Numero Uno, dal pallore geopolitico e dall’inettitudine militare degli europei.


Tanto più lancinante, a fronte del declino dell’Occidente, apparirebbe la sconfitta della Russia, di cui Putin sarebbe chiamato a rispondere davanti agli spettri di Caterina II, Pietro il Grande e Stalin. Leader tedeschi che non hanno mai smesso di trattare con Putin ne raccontano il sentimento d’invidia che traspare dal suo linguaggio, anche corporeo. Per così giustificare l’imponente rete di relazioni non solo energetiche che tuttora connette le due potenze. E la disponibilità al dialogo, sopra e sotto il tavolo, con il Cremlino: «Putin va tenuto impegnato. Lui cerca interlocutori stranieri, visto che i suoi non li stima. Eppoi i russi sono molto più dipendenti da noi di quanto lo siamo noi da loro. In senso economico, psicologico e geopolitico».


L’idealtipo dell’occidentale in grado di confortare l’autostima di Putin è Henry Kissinger: americano di origine tedesca, ebreo, statista e soprattutto spia. Conosciuto al tempo della commissione Kissinger-Sobčak, destinata a sollecitare investimenti esteri per San Pietroburgo, ad Urss appena crollata. «Una volta sono andato a prenderlo all’aeroporto. Per strada mi ha domandato da dove venissi e che cosa facessi prima. Un vecchietto molto curioso. Parrebbe dormire in piedi, invece vede e sente tutto». Putin snocciola gli scalini della sua carriera, finché Kissinger gli chiede che cosa facesse da militare. «E lì mi sono detto che l’avrei deluso: “Sa, lavoravo per i servizi”.


E lui, calmissimo: “Lavorava all’estero?”. “Sì, in Germania, all’Est”. Lui: “Tutte le persone per bene hanno cominciato nei servizi. Anch’io”». Al colmo della sintonia, Kissinger confessa: «“Sa, la mia posizione sull’Urss mi è costata molte critiche. Pensavo che l’Unione Sovietica non dovesse ritirarsi così in fretta dall’Europa dell’Est. Il nostro mondo ha perduto troppo rapidamente il suo equilibrio, e ciò può avere conseguenze indesiderabili. Oggi mi si rimprovera questa opinione. Mi si dice: vede, l’Urss è crollata e tutto va bene, mentre lei diceva che era impossibile che tutto andasse bene. E io penso sinceramente che sia impossibile… A dire il vero, ancora non capisco perché Gorbačëv abbia fatto quel che ha fatto”. Non mi aspettavo affatto di ascoltare queste parole. Glielo dissi. E ve lo ridico oggi: Kissinger aveva ragione. Avremmo evitato un sacco di problemi senza quella precipitosa fuga in avanti» 11.


Sintonia durevole, visto che nel marzo 2014, mentre la Russia riannetteva la Crimea, l’ex segretario di Stato si spendeva per la neutralizzazione di Kiev ed esortava l’Occidente a capire che «per la Russia l’Ucraina non può mai essere solo un paese straniero» 12. Non risulta abbia cambiato idea.


Oggi Putin volta le spalle al nostro mondo, da cui originariamente ambiva a essere accolto: «Noi siamo parte della cultura europea occidentale. In questo risiede il nostro valore principale. Dovunque vivano i nostri, in Estremo Oriente o nel Sud del paese, noi siamo europei. Faremo di tutto per restare dove siamo». Ma avvertiva: «E se ci si respinge, allora formeremo delle unioni per diventare più forti». Detto, fatto appena persa Kiev, otto anni fa. Né Putin né la nazione russa si sarebbero mai messi spontaneamente nelle mani dei cinesi. Tantomeno l’«amico» Xi smaniava per puntellare il fatiscente impero russo. La strana coppia, figlia di doppio azzardo, cambierà tono a seconda di come e quando si vorrà dichiarare finita l’infinibile partita ucraina.


C) L’azzardo del re pastore e l’oblomovismo del gregge d’anticamera.


Quando l’allievo Putin studiava alla scuola dei servizi, trovò scritto sulla scheda personale: «Platov (pseudonimo interno, la regola è mantenere l’iniziale del cognome, n.d.r.) ha un debole senso del pericolo». Vladimir Vladimirovič ne restò impressionato. «È un tratto negativo, un difetto preso molto sul serio. (…) La paura è come il dolore. Se senti un dolore nel corpo, c’è qualcosa che non va nell’organismo. Ho dovuto lavorarci parecchio, da allora». E poi: «Nelle situazioni critiche divento calmo. Anche troppo.» Per stabilire: «Non gioco d’azzardo» 13.


Eppure all’ex ragazzo di strada d’umile famiglia leningradese che s’infilava nelle risse di cortile torna in mente un episodio dei tempi universitari. «Ero in macchina con il mio istruttore. Un camion carico di fieno mi arrivò sulla corsia di fronte. Il mio finestrino era aperto e il fieno aveva un magnifico odore. Incrociando il camion, sporgo la mano per acchiappare il fieno. E bam! La mia vetturetta sbatte contro il camion (…) e si mette a girare su due ruote». Miracolosamente, la Zaporožec’ ritorna in linea. L’istruttore ammutolisce, poi: «Tu prendi dei rischi».


Le ultime righe delle sue «confessioni» potrebbero essere stampate oggi: «Ci sono delle cose che si fanno e che non si riesce completamente a spiegare. Che cosa mi ha attirato verso quel camion? Forse proprio quel fieno che odorava tanto di buono» 14.


Che cosa ha attirato Putin verso l’avventura ucraina? Se lo saranno chiesto molti russi, a cominciare dai boiardi che il 24 febbraio proprio non riuscivano a darsi ragione dell’azzardo del capo. E tenevano a far sapere di non essere stati consultati. Delitto di lesa anticamera. Sì, Putin/Platov non sembra ancora aver sviluppato un giudizioso senso del pericolo, lui che nella conversazione tiene al tratto loico, alla concatenazione degli argomenti. L’autarca pare autistico. Non apprezza il confronto con i contrarians, né sembra disposto a spendersi nella rieducazione dei burocrati accidiosi affetti dalla sindrome di Oblomov. Quando il corridoio s’occlude agli ambasciatori di cattive notizie o d’opinioni non richieste, il problema del capo ricade tutto intero sul paese. Finché questo non ricada sul capo.


Oggi la Russia è su due ruote come la vecchia Zaporožec’. Non potrà restarvi a lungo. I casi sono tre: gli pneumatici tornano a scorrere insieme sull’asfalto riparato dopo i bombardamenti, per salvezza e gloria dei russi e del loro capo; i russi si stancano di tanto perigliosa acrobazia, cacciano il capo e con un’altra guida cercano una nuova strada, da percorrere eventualmente soli o sotto l’egemone, qualunque sia; o tutti insieme scompaiono nel burrone verso il quale li ha indirizzati il «debole senso del pericolo» del compagno Platov. In ogni ipotesi noi italiani ed europei pagheremo prezzi alti forse altissimi, che nel mondo ante-24 febbraio nemmeno potevamo concepire. Nell’ultima, definitivi. 


6. L’articolo di Fëdor Luk’janov, analista d’ingegno con accesso al capo, che segue questo editoriale traccia a fil di spada la svolta di Putin e della Russia. Cambio di stagione. Dopo trent’anni d’inutile pressione alle porte dell’impero americano per esserne riconosciuta co-titolare dell’ordine eurasiatico, con ampia zona d’influenza nell’area post-sovietica e non solo, Mosca rinuncia. Gli storici s’accapiglieranno per stabilire le responsabilità del fallimento. Se queste siano solo russe o anche nostre. Ma fallimento resta. Capitolo chiuso. Spinti dal loro ingovernabile messianismo, che noi occidentali in compagnia di qualche russo tendiamo a diagnosticare follia, Putin e la Russia hanno deciso di ricominciare il mondo. Alla conquista di un nuovo equilibrio delle forze. Armi in pugno. Nel film western che Washington si racconta ad esaustione e che Mosca continua a prendere sul serio – The West vs. The Rest – la Russia del 24 febbraio si propone di recitare da protagonista, avanguardia del Resto del mondo. L’Occidente al tramonto, già Primo Mondo che volle pensarsi unico, è il nemico da battere. L’Oriente, guida di Secondo e Terzo Mondo, è il sol dell’avvenire.


Faremmo male a sottovalutare questa dichiarazione di guerra, noi che tremiamo a pronunciarne il nome. Presa sul serio, esprime vena apocalittica. L’Ucraina è modello (carta 3). Non possiamo averla? Bene. Non l’avrà nemmeno la Nato. Meglio terra bruciata che terra altrui. Nessun capo russo accetterà mai un’Antirussia alle porte del Cremlino.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


Se così stanno le cose, non resta che sperare nel divorzio fra Putin e Russia. E operare per questo. Non proprio quanto parrebbe derivare dalla triplice scelta di Washington. Rifiutare la sfida diretta con i russi, combatterli fino all’ultimo ucraino e punire via sanzioni a Mosca noi satelliti europei per l’intrinsechezza non solo energetica con la Russia. Così l’America finisce per giocare al gioco di Putin. La cui prima priorità, da quando ereditò una Russia a pezzi, è tenerla unita con le cattive (Cecenia docet) o con le buone. Quando rischi di romperti l’osso del collo, hai bisogno di accertarti che il resto del corpo sia integro e collabori. Per capire l’importanza di questa posta, riavvolgiamo la pellicola. 


7. Putin ha un’ossessione: evitare alla Russia la fine dell’Urss. Precondizione del suo attuale progetto di rivoluzione mondiale. Movimento doppio. Territoriale, recuperando quanto possibile dello spazio sovietico, a cominciare dall’intera Bielorussia e da gran parte dell’Ucraina. Ma soprattutto identitario. Per Putin la Federazione Russa è provisorium. La Russia, quella vera, spiritualmente quindi spazialmente integrale, non esiste senza ristabilire la continuità della propria millenaria missione storica. Persa con il crollo dello zarismo, quindi dell’Idea Russa originaria. Travolta e surrogata dai bolscevichi con l’ideologia, travestita da scienza della storia, prodotta da un ebreo renano visceralmente russofobo, Karl Marx. Reinterpretata in chiave sovietica dall’agente tedesco Vladimir Il’ič Ul’janov detto Lenin, mente del golpe d’Ottobre che spezza in due la parabola russa. Sul quale Putin concorda di certo con Churchill: il Kaiser esportò Lenin a Mosca nel vagone piombato «come un bacillo della peste nel corpo della Russia» 15.


La geopolitica della memoria adattata agli imperativi del presente è cuore del putinismo. Non capiamo molto della strategia di Putin se ne trascuriamo lo scopo primario di riconnettere la Federazione Russa alla storia, quindi all’identità imperiale travolta dalla guerra civile del 1917-22 (carte a colori 6 e 7 – in apertura). L’evento più importante e più trascurato nel suicidio collettivo degli imperi europei avviato dal 1914 e non del tutto compiuto. Almeno quindici milioni di morti nel colossale scontro tra fazioni russe e una ventina abbondante di invasori stranieri, fra cui Regno Unito, Francia, Italia, Stati Uniti, Impero ottomano, Germania e Giappone. Decisi a stroncare il «bacillo» rosso e a profittare dell’agonia della Russia per spartirsene le spoglie.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


In un teatro esteso da Cina occidentale e Mongolia via Asia Centrale e Caucaso fino all’Europa orientale e settentrionale. Nel quale Finlandia, Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Bielorussia e soprattutto Ucraina, già avamposti europei dell’impero russo, inaugurano più o meno brevi stagioni di indipendenza. Processo scatenato da quella che per i putinisti puri e duri, specie se legati alla Chiesa ortodossa, è la prima rivoluzione colorata: il moto del febbraio (marzo per il nostro calendario) 1917 culminato nell’abdicazione di Nicola II. Cospirazione di intellettuali e finanzieri senza patria, aristocratici di dubbio sangue e cortigiani intriganti, con il sostegno del capitale inglese.


In nome di quei princìpi liberali, materialisti e agnostico-ateisti che Putin vuole espellere con la forza dal corpo della nazione imperiale. Se il peccato originale sta in quel complotto di futuri ci-devant, allora la liquidazione dello zar non è colpa dei sovietici ma dell’Occidente e dei suoi velleitari associati russi. In questa reinterpretazione dei due tempi della rivoluzione e della conseguente guerra civile i tessitori dell’arazzo putinista benedetto dall’incenso ortodosso inseguono due obiettivi indispensabili alla propria legittimazione: riabilitare l’autocrazia zarista, regime naturale della Santa Russia, e riconnetterla all’età sovietica. Di Stalin, non di Lenin. Dello «zar rosso» che negli anni Trenta del Novecento ristabilisce la potenza imperiale poi gradualmente dissolta dai suoi epigoni, fino al colpo di grazia inflitto da Gorbačëv a quella periclitante architettura 16.


La campagna d’Ucraina esprime la volontà di Putin di riannodare i fili della continuità (preemstvennost’) nel tempo dell’unica e sola Russia. Mille anni abbondanti di storia dal leggendario battesimo di Vladimiro (988) a Khersones (Korsun’ in slavo), centro bizantino in Crimea, o a Kiev. Sorta di salafismo russo-ortodosso: marcia a ritroso nel tempo e nello spazio, per abbeverarsi alle fonti che rivitalizzeranno l’impero in missione. La giuntura spaziotemporale da ricomporre e integrare nella comunità di tutte le Russie è oggi l’Ucraina, epicentro della sfortunata resistenza bianca contro i rossi nella bolgia fratricida, abbozzata come Stato durante la guerra civile, battezzata infine da Lenin repubblica socialista con diritto di recesso dalla famiglia sovietica.


Dove per fazione bianca – dalla candida coccarda monarchica dei controrivoluzionari francesi – s’intende la disarticolata congerie di combattenti anticomunisti delle più varie tendenze, dai lealisti dello zar ai socialisti rivoluzionari passando per quasi tutti i colori dello spettro politico-ideologico, liberal-costituzionalisti inclusi. Incapaci di coinvolgere le masse contadine e di coglierne l’indisponibilità a continuare la guerra a fianco degli alleati occidentali. Denikin e Wrangel, leggendari comandanti bianchi del Fronte meridionale che si scontrano con i bolscevichi tra Dnepr e Don, anche nelle aree ucraine oggi solcate dagli invasori russi, combattono in Lenin e Trockij non tanto la nefanda ideologia quanto gli agenti germanici ed ebraici che minano il corpo straziato della «Russia una e indivisibile» – marchio forgiato da Denikin (foto 2).


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Nella carta mentale di Putin l’Ucraina non esiste. È Piccola Russia. Proprietà dello zar. Sorella minore, con Bielorussia, di Madre Russia. Quando il 24 maggio 2009 il presidente depone un mazzo di fiori sulla tomba di Denikin, recuperato agli onori della memoria, invita a leggerne il diario: «Lui vi discute di Grande e Piccola Russia – Ucraina. E stabilisce che a nessuno deve essere permesso di interferire nelle relazioni fra noi, che sono sempre state affare della Russia stessa» 17. Grande passo in avanti nella riabilitazione della memoria dei gloriosi soldati bianchi, protagonisti delle ultime cariche di cavalleria della storia. Bianchi o rossi, zaristi o comunisti, aristocratici o proletari sempre russi erano, sono, saranno. 


La riabilitazione della Russia bianca attraverso la consacrazione patriottica del suo più famoso comandante militare inizia quasi quattro anni prima. Luogo: antico monastero Donskoj a Mosca, da cui si diparte la strada che porta in Crimea. Data: 3 ottobre 2005. Solenne cerimonia di sepoltura del generale Denikin e della moglie, già inumati in un cimitero cosacco del New Jersey. La figlia Marina consegna a Putin la sciabola del padre. Suggello della riconciliazione di bianchi e rossi nelle mani del nuovo capo. Benedetta dal patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Alessio II: «L’evento odierno prova che stiamo concludendo il processo di restaurazione dell’unità del nostro popolo, diviso dalla storia tragica dello scorso secolo» 18. A fianco dei Denikin è riseppellito anche Ivan Il’in, pensatore emigrato riferimento dei bianchi monarchici e ultraconservatori, con la consorte. Ecco il sacrario bianco della riconciliazione. «Spero sia l’inizio della fine della guerra civile», commenta Nikita Mikhalkov, stella del cinema russo, zarista fervente, amico di Putin e regista dell’operazione 19.


Mikhalkov ha ragione. La guerra civile russa non è mai finita. La santificazione di Denikin e degli altri martiri che difesero tradizione e religione russa contro gli eversori rossi ha lunghe radici in età sovietica. Senza di che la postuma riconciliazione d’età putiniana sarebbe impensabile. Contro le narrazioni ideologiche che rattrappiscono il settantennio rosso in formulette apologetiche o demonizzanti, scavando nelle sue stratificazioni scopriamo come le battaglie della guerra civile vi siano state ricombattute quali duelli della memoria. Non diversamente da come le Americhe nordista e confederata tuttora si affrontano per la conquista delle vette di comando nell’autocoscienza e nella pedagogia a stelle e strisce.


Sotto il titolo «bianco contro rosso» sfogliamo le pagine insanguinate dello scontro fra élite intorno all’identità dello Stato, a cavallo di Otto e Novecento. Russisti versus internazionalisti. Custodi della tradizione monarchica sposata all’ortodossia, religione nazionale dunque inesportabile, opposti a intellettuali di ceppo ebraico, germano-baltico, polacco o ucraino araldi della nuova missione verniciata di marxismo. Religione universale dunque incompatibile con la regola zarista. Leva dell’impero sovrannazionale rosso, forcipe della futura umanità. Disputa perpetuata in età staliniana. Fra sovietici e residui emigrati bianchi o rossi dissidenti. Persino nei palazzi del regime, dove s’annidano i «ravanelli», rossi fuori e bianchi dentro. A conferma della sempre incerta legittimazione del sovietismo.


Spesso si confonde la paranoia di Stalin con l’insicurezza di chi in quanto bolscevico si sa erede di un colpo di mano alquanto minoritario. Dunque diffida del suo stesso popolo, soprattutto dei compagni d’avventura. Capita alle avanguardie troppo scapigliate, quando guardano indietro e si scoprono sole. Obbligate a reinventare una narrazione che sacrificando la purezza rivoluzionaria si riconnetta con tradizioni e credenze troppo profonde per finir scartate. Di solo terrore accompagnato alla recitazione delle sacre litanie nessun sistema può sopravvivere.


Primi segnali della tentata riscrittura della storia vengono dalla cinematografia, con il magnifico Aleksandr Nevskij di Sergej Ejzenštejn (1939), epopea della vittoria contro i cavalieri teutonici, e i film che in piena Grande guerra patriottica celebrano glorie militari quali Suvorov (1941), Kutuzov (1943) e Ivan il Terribile (1945). Negli anni Sessanta vanno di moda gli ostern, plagio sovietico dei western americani, dove invece del cowboy si romantizza la guardia bianca, l’eroe dell’altra sponda, emancipato dallo stigma ideologico. Messaggio subliminale: bianco o rosso non significa cattivo o buono. Ciascuno a suo modo, tutti combattevano per Madre Russia. Nei musical storici, classificati operetta e dedicati alla resistenza contro gli invasori occidentali – Napoleone su tutti – spicca la figura idealizzata dell’ussaro pronto a morire per l’imperatore e per la patria. I ragazzi che giocando ne imitano le gesta slittano nel gergo dal tovarišč (compagno) di regime al borghese gospodin (signore) 20.


La strisciante riabilitazione degli sconfitti nutre il nazionalismo russo che scorre nelle sclerotiche arterie del Partito comunista sovietico durante il disgelo. Fin dagli anni Cinquanta vi si aggruma il partito russo (russkaja partija). Informale quanto pervasivo. In lotta contro le tendenze internazionaliste, incarnate da Nikita Khruščëv, il capo che nel 1954 regalò la Crimea all’Ucraina sovietica e intese codificare un patriottismo sovietico refrattario al russismo. Così eccitando i nazionalismi periferici, a cominciare dall’ucraino. E di riflesso la reazione nazionalista russa 21.


I russisti sono spesso antisemiti. Praticano la «sionologia». Lettura obbligata, I protocolli dei savi di Sion. Costoro sprezzano le minoranze etniche in nome della superiore Idea Russa. Alcuni sognano di estrarre dal cilindro sovietico una Repubblica Russa strettamente etnica, con il proprio partito comunista. Riabilitazione e riuso a fini propri dei patrioti bianchi sono al cuore del progetto. Negli anni Settanta il partito russo è all’apice dell’influenza. Ne sono massimi patroni capi del Kgb quali Aleksandr Šelepin e Vladimir Semičastnyj, membri del Politbjuro come Dmitrij Poljanskij, l’ideologo Vladimir Vorontsov, braccio destro del custode supremo della Verità comunista, Mikhail Suslov.


Qualcosa, forse molto di queste correnti restauratrici percola fino a Putin, quando nei primissimi anni Novanta, conclusa l’avventura nel Kgb – ma «le ex spie non esistono», dixit – è braccio destro del padrone di San Pietroburgo, Anatolij Sobčak. Amico dei discendenti della famiglia imperiale massacrata il 16 luglio 1918 a Ekaterinburg, abilitati a visitare la loro antica capitale nel novembre 1991. Ad Urss formalmente vigente.


Il lato bianco di Putin non ne contraddice la formazione rossa. Il presidente russo non ha ideologia. Salvo il culto della Russia. Identificata con sé stesso. La riconciliazione di Donskoj s’intende sutura della ferita rivoluzionaria, non postuma vendetta zarista. Se oggi si barda da imperatore, non per questo Putin assolve la vecchia monarchia, che inchiodava i suoi avi alla servitù della gleba. «Grazie a Dio non abbiamo una monarchia ma una repubblica!», esclama il 15 marzo 2017 22. Qualcuno dei suoi adoratori lo vorrebbe però fondatore di una nuova dinastia. Acclamato dal popolo.


Quanto alla sua ostentata fede cristiano-ortodossa, di cui non dubitiamo, interessa qui l’intesa con l’esponente più in vista dell’ala monarchica, iper-tradizionalista e filo-bianca: il metropolita Tikhon, suo probabile confessore. La Chiesa ortodossa è all’avanguardia nella campagna di promozione dei martiri bianchi, a cominciare dalla famiglia reale. Ma il cuore del presidente non vibra di simpatia per Nicola II martire (1894-1917), icona verso cui il patriarcato moscovita e di tutte le Russie indirizza la devozione del suo gregge. Figura troppo debole per l’attuale padrone del Cremlino. Incapace di salvare lo Stato dai sovversivi. Nel pantheon degli zar Putin preferisce Nicola I (1825-55) e Alessandro III (1881-1894), di sicura fede reazionaria e accentratrice. Adesione monumentalizzata il 18 novembre 2017, quando Putin inaugura a Jalta, in Crimea, una colossale statua marmorea dell’ultimo Alessandro con inciso il suo motto: «La Russia ha due soli alleati, il suo esercito e la sua flotta». Sempre valido, parrebbe.


8. Quando smetteremo di fissarci sul campo di battaglia per alzare lo sguardo sulle conseguenze strategiche del conflitto scopriremo che la deterrenza è finita. Come informa con aurea brevità l’Oxford Reference, riprendendo il gergo militare americano, deterrenza è «prevenzione dell’azione per paura delle conseguenze». Versione lunga: «La deterrenza è uno stato d’animo prodotto dall’esistenza della minaccia credibile di una inaccettabile controazione» 23. Questo paradigma d’elegante simmetria, poggiante sull’equilibro del terrore garantito dal possesso della Bomba, ha governato i rapporti fra le potenze durante la guerra fredda e dopo, fino al 24 febbraio.


Quando è morto. L’invasione russa non è stata prevenuta dalle armi nucleari americane. Mentre la minaccia russa di ricorrere alle bombe atomiche ha finora sconsigliato l’intervento diretto di americani e soci nella guerra fra Mosca e Kiev. La deterrenza unilaterale è l’opposto della simmetrica. È atto di guerra non dichiarato ma cogente con cui una superpotenza nucleare, la Russia, ha disarmato l’altra, l’America. In forma: ne ha prevenuto la reazione per timore delle conseguenze. Virtual preemptive strike, in pentagonese.


Chi crede alla prevalenza del diritto e ai trattati internazionali che ne derivano osserverà che l’Ucraina non è nella Nato, quindi non gode dell’ombrello americano assicurato dall’articolo 5 del Trattato di Washington (1949), fondativo dell’Alleanza Atlantica. Nobile e commendevole postura, che si scontra con cinque dati di realtà. Primo, il diritto evolve, perfino nella patria d’origine, altrimenti saremmo retti dalle Dodici Tavole e in tasca conteremmo sesterzi. Secondo, quell’articolo troppo citato non assicura un bel nulla ma, come qualsiasi norma, si presta all’interpretazione caso per caso, sulla base dei rapporti di forza 24.


Terzo, ben prima dell’aggressione russa Stati Uniti, Regno Unito e altri paesi Nato hanno armato, addestrato e finanziato le Forze armate ucraine allo scopo di scoraggiare o almeno contenere l’espansionismo di Mosca, sicché il 24 febbraio Kiev era di fatto più atlantica di molti atlantici (tra cui Roma). Quarto, il giurista Putin informa: «Uno dei postulati della teoria del diritto dice che la legge è sempre in ritardo sulla vita» – ergo faccio quel che mi pare 25. Quinto e decisivo, in quanto «stato d’animo» la deterrenza è altrettanto instabile dei nostri umori. E figlia delle nostre incomunicanti culture. Questo limite intrinseco a un concetto che si pretende razionale, dunque trascura quel molto di noi che non afferisce al ragionamento, si scontra con le differenze di valore attribuite alla vita e alla morte dalle diverse tribù umane. Con la maggiore o minore disponibilità a impugnare le armi per motivi non sempre calcolabili né prevedibili. Insomma con il fatto che il mondo non è piano cartesiano.


Se l’America non ha finora risposto con la guerra diretta all’aggressione di Putin lo si deve a scelta prudenziale. Meglio non irritare l’orso in vena di follie, cui inizialmente Biden concedeva persino il diritto a «una incursione minore», forse sperando che così si sfogasse 26. Dunque nel caso ucraino la regola non è l’articolo 5 – mondo dei sogni – ma l’indisponibilità di Washington a rischiare l’apocalisse atomica per un paese europeo. Per le ragioni sopra esposte, non se ne può trarre legge bronzea, valida sempre, comunque e dovunque. Ma a Varsavia come a Vilnius o a Berlino (su Roma non giuriamo) se ne è presa buona nota. Dopo l’ubriacatura della pace eterna (1991-2001), la deviazione della «guerra al terrore» (2001-2021), eccoci rientrati nella guerra ad alta intensità. Norma di mezzo Novecento e dei secoli precedenti. Con armi imparagonabilmente più letali, capaci di annientare il nemico da enormi distanze e di penetrare qualsiasi scudo grazie a vettori ipersonici. Per tacere delle segrete virtù della ciberguerra e degli usi militari dello Spazio. Di cui il Pentagono si serve per colpire non proprio indirettamente assetti nemici anche in territorio russo, oltre che in mare (per informazioni rivolgersi ai superstiti del Moskva).


Negli ultimi anni le dottrine nucleari di America e Russia hanno fatto un passo in più, colpo di grazia alla deterrenza: trattano una classe di armi atomiche da estensione delle convenzionali. Un tipo di munizione. Vale per le cosiddette atomiche tattiche, dal potenziale non dissimile da quelle che spianarono Hiroshima e Nagasaki, cui i tecnici appongono l’etichetta «a basso rendimento», che si vorrebbe rasserenante. Contrariamente al senso comune, la Bomba tattica non scoraggia l’escalation verso la guerra termonucleare, la promuove. Ad esempio, un missile con carica tattica lanciato da un sottomarino è indistinguibile ai radar da uno dotato di testata strategica. Se in guerra fredda le bombe nucleari erano ostentazione di minaccia suprema, a bassissima probabilità d’uso, oggi il criterio è che debbano essere usabili. Almeno le tattiche. Tipologia d’atomica in cui fra l’altro i russi surclassano gli americani: circa duemila, quasi tutte sul fronte occidentale, contro duecento, di cui centocinquanta parcheggiate in Europa fra Italia, Belgio, Olanda, Germania e Turchia.


Washington prende sul serio le oblique minacce di Putin sul ricorso agli ordigni «fine di mondo». Per questo punta sulla guerra d’attrito via ucraini, legittimando anche operazioni in territorio russo. Così spera di fiaccare il nemico e di costringerlo alla ritirata entro mesi, non anni. La dottrina del Cremlino statuisce che l’impiego dell’atomica sarebbe possibile quando in gioco fosse l’esistenza dello Stato. Il raggio interpretativo è volutamente amplissimo. Se vale l’equazione Russia=Putin, ovvero Stato=regime, le Forze armate russe potrebbero ricorrervi anche in caso di rivoluzione colorata. Lasciando aperta l’ipotesi di lanciare una atomica tattica su un bersaglio ucraino, forse dopo averne sganciato un’altra di avvertimento su un’isola deserta nell’Artico russo, tanto per ricordare al mondo che quei suoi ordigni sono spendibili. L’avvertimento artico sarebbe anche un segnale alla Nato, che si appresta ad accogliere svedesi e finlandesi e che sta avanzando truppe e mezzi verso nord-est (carta a colori 8). Così finendo di accerchiare la strategica exclave di Kaliningrad, piazzaforte russa chiusa via terra da Polonia e Lituania (carta 4). E minacciando da presso la penisola di Kola, bastione lungo la rotta artica sul cui controllo Mosca si gioca tutto. La stessa San Pietroburgo, chiusa in fondo alla bottiglia baltica ormai atlantizzata sarà esposta a blocco navale.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


 

Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


 

Se lo stato d’animo del presidente russo volgesse alla disperazione causa sconfitta in Ucraina, il futuro dell’umanità sarebbe affidato al filtro di ufficiali raziocinanti, garanti dei tre gradi di separazione fra l’ordine del capo e lo sparo della Bomba. 


Di qui il paradosso insito nella guerra per procura su cui oggi noi occidentali paiamo uniti. Armiamo gli ucraini perché battano i russi, ma non troppo. Perché se la sconfitta di Putin nella sua Piccola Russia apparisse totale, il regime dunque lo Stato rischierebbe di sparire. Quanto potrebbe indurre il Cremlino alla mossa della disperazione. Ragione per cui converrebbe determinare le nostre linee rosse nei due sensi. Quello che segnala il limite oltre il quale non potremmo tollerare il successo dell’operazione militare speciale. Più importante l’altro, che marca il presunto grado di accettabilità della sconfitta da parte russa, al di là del quale rischiamo la guerra atomica. Frontiere incerte, rivedibili, mai definitive. Ma che obbligano a mantenere il dialogo fra le parti. Vuol dire parlarsi, in riparate sedi. Sforzando di capirsi, malgrado la divaricazione di linguaggi un tempo simmetrici.


Resta la novità strategica del 24 febbraio, d’importanza vitale per noi europei. Non possiamo più fingere d’esser certi che l’America ci proteggerà in caso di attacco russo, o di chiunque altro. Gli europei, italiani compresi, sanno che la pace è finita perché esaurito è lo schermo della deterrenza. E viceversa. Il nucleare non è più tabù. Dobbiamo trarne conseguenze. Alcune già avviate, quale il fino a ieri impensabile super-riarmo tedesco, su cui torneremo nel prossimo volume.


Qui abbiamo scandagliato l’universo Putin. Abbrividiamo a constatare quanto il nostro destino dipenda da un uomo apparentemente singolare, che più scaviamo più ci si svela plurale. In mille sensi, tra cui quello decisivo di rappresentare il popolo russo. E che oggi pare chiuso nel dialogo con sé stesso. L’occhio ricade sulla penultima pagina della sua apologia da neopresidente. Alla domanda se abbia o meno voglia di governare la Russia, risponde: «Quando ho cominciato a fare questo lavoro ho sentito…una soddisfazione… Forse la parola non è ben scelta… È legata al fatto di prendere decisioni in autonomia, alla coscienza di essere l’ultima istanza, dunque all’idea che molte cose dipendono da me. La responsabilità. Sì. È piacevole sentirsi responsabile» 27. Vorremmo fosse implicita citazione di Max Weber, teorico dell’etica della responsabilità come attenzione alle conseguenze delle proprie azioni. Vorremmo, ma non giureremmo.


Note:

1. S. Richmond, V. Solodin, «’The Eye of the State’: An Interview with Soviet Chief Censor Vladimir Solodin»The Russian Review, vol. 96, n. 4, ottobre 1997, pp. 584-585. 

2. Vladimir Poutine. Première Personne, Paris 2016, So Lonely, p. 57. Traduzione dell’intervista concessa a N. Gevorkian, N. Timakova, A. Kolesnikov da V. Putin nel 2000, pubblicata in russo con il titolo Pervoe lico, Mosca 2000, Bagrius. 

3. «An overdose of freedom is lethal to a state», conversazione con V. Surkov, a cura di H. Foy, Financial Times, 19-20/6/2021. Cit. in «C’era una volta il fronte occidentale», editoriale di Limes«Se crolla la Russia», n. 6/2021, pp. 35-36.

4. Cfr. Y. Hamant, «Le recours de Poutine à l’argot mafieux indique une sorte d’appartenance au monde des malfrats », Le Monde, 21/3/2022.

5. Ivi. Vedi anche M. Galeotti, Russia’s Super Mafia, New Haven-London 2018, Yale University Press, p. 256. 

6. C. Schmitt, Dialogo sul potere, Milano 2012, Adelphi, pp. 25, 26-27.

7. P. Rialland, «La Russie développe un concept de “puissance navale continentale”», Revue Défense Nationale, n. 790, 5/2016, pp. 35-40. Vedi anche M. Motte, «La mer d’Azov, un enjeu de la guerre en Ukraine», Brèves Marines, n. 253. 

8. Cfr. F.-G. Lorrain, «Notre nouvel État aura une glorieuse histoire», Le Point, 10/3/2022. Il testo di V. Surkov. «Dolgoe Gosudarstvo Putina» è apparso sulla Nezavisimaja Gazeta l’11/2/2019. Esiste una traduzione francese commentata da M. Eltchaninoff, «La longue gouvernance de Poutine», Paris 2019, Fondation pour l’innovation politique. Le citazioni qui riprese sono alle pagine 15 e 16. Il testo integrale sarà pubblicato nel prossimo volume di Limes.

9. Cfr. Vladimir Poutine, cit., nota 2, p. 41.

10. Ivi, pp. 90-91.

11. Ivi, pp. 92-93.

12. H. Kissinger, «To settle the Ukraine crisis, start at the end»The Washington Post, 5/3/2014.

13. Cfr. Vladimir Poutine, cit., nota 2, p. 53.

14. Ivi, p. 202. 

15. Cit. in D. Bullock, The Russian Civil War (1918-22), Oxford 2008, Obsprey Publishing, p. 14.

16. Seguiamo qui l’eccellente ricostruzione del recupero della memoria russo-bianca in età sovietica e sotto Putin di M. Laruelle e M. Karnysheva, Memory Politics and the Russian Civil War. Reds Versus Whites, London 2021, Bloomsbury.

17. Cfr. «Putin warns outsiders over Ukraine»Associated Press, 24/5/2009.

18. C. Bigg, «Russia: White Army General Reburied In Moscow»RadioFreeEurope/RadioLiberty, 3/10/2005.

19. Ibidem.

20. M. Laruelle, N. Karnysheva, op. cit., p. 28 e passim.

21. Cfr. N. Mitrokhin, Russkaja partija: dviženie russkikh nacionalistov v SSSR1953-1985 gody, Mosca 2003, Novoe Literaturnoe Obozrenie. Citato in M. Laruelle, N. Karnysheva, op. cit., pp. 20-21 e passim. Vedi anche S. Cosgrove, Russian Nationalism and the Politics of Soviet Literature. The Case of Nash Sovremmenik, 1981-91, New York 2004, Palgrave Macmillan.

22. M. Laruelle, N. Karnysheva, op. cit., p. 85. 

23. «Deterrence»Oxford Referenceoxfordreference.com

24. L’articolo 5 del Trattato Nord Atlantico stipula che in caso di attacco a un paese alleato ciascuna delle altre parti «assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale».

25. Cfr. Vladimir Poutine, cit., nota 2, p. 182.

26. Cfr. A. Khalid, «How Biden is trying to clean up his comments about Russia and Ukraine»Npr, 20/1/2022.

27. Cfr. Vladimir Poutine, cit., nota 2, p. 201.

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