L’ultima “spiaggia”. Pavese e il mare

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Gian Franco Ferraris

Cesare Pavese nato e cresciuto in collina, tra le vigne e i campi, ha avuto con il mare un rapporto difficile, urtante, come emerge con tutta evidenza dalle lettere scritte durante il soggiorno a Brancaleone (Reggio Calabria), il comune dove, nel 1935, lo scrittore era stato condannato dal regime fascista a tre anni di confino.

Riporto stralci di due lettere alla sorella Maria e all’amico Mario Sturani.

Pavese giunse a Brancaleone il 4 agosto del 1935, come raccontò in una missiva alla sorella Maria:

Cara Maria, sono arrivato a Brancaleone domenica 4 nel pomeriggio e tutta la cittadinanza a spasso davanti alla stazione pareva aspettare il criminale che, munito di manette, tra due carabinieri, scendeva con passo fermo diretto al Municipio.

Il viaggio di due giorni, con le manette e la valigia, è stata un’impresa di alto turismo. Ormai il nome della famiglia è irrimediabilmente compromesso: Le stazioni di Napoli e Roma le ho attraversate nel momento di maggior traffico e bisognava vedere come la gente faceva largo al sinistro terzetto. A Roma una bambina che va ai bagni, chiede al padre: ” papà , perchè nelle manette non fanno passare la corrente elettrica?” A Napoli non è mancata nemmeno la caduta sotto la croce, sotto forma di uno stramazzone – manette, valigia e tutto – preso sulla scalinata del cortile delle carceri. Allora un cireneo si è occupato della valigia.(…)

Qui ho trovato una grande accoglienza. Brave persone, abituate a peggio, cercano di tenermi buono e caro. (…) Qui, sono l’unico confinato. Che qui siano sporchi è una leggenda. Sono cotti dal sole. Le donne si pettinano in strada, ma viceversa tutti fanno il bagno. Ci sono maiali, e le anfore si portano in bilico sulla testa. (…) La grappa non sanno cosa sia. (…) La spiaggia è sul Mar Jonio, che somiglia a tutti gli altri e vale quasi il Po….
Insomma non chiedo che libri, soldi e saluti dalle amicizie. Ciau (16)

Foto Brancaleone

27 novembre 1935

Caro Sturani

…..Vedo che insisti per sapere titoli di libri da mandarmi….ma ti sconsiglio di spendere altri soldi, non va bene esagerare in beneficenza, perchè a un certo punto non si guadagna più che l’odio del beneficiato.

Ora è cominciato l’inverno sotto forma di piogge, venti torrenziali e umidità notturne, che per la mia asma sono tanto pepe. Questo me brutto, perchè essendo qui il sonno l’unico passatempo non esasperante, sentirselo troncare tutte le notti moltiplica per X la durata dell’esilio.

Il mare già così antipatico d’estate, d’inverno è poi innominabile, alla riva tanto giallo di sabbia smossa; al largo, un verde tenerello che fa rabbia. E pensare che è quello d’Ulisse: figurarsi gli altri.
La grande attrattiva del paese sono i pesci, che a me non piacciono, che così non mangio pietanza non più che un giorno o due la settimana, quando ammazzano la vitella.

Ho quindi comperato una bella corda, l’ho adattata, a nodo scorsoio, e tutte le mattine la insapono per tenerla pronta.

Mi servirà a guadagnarmi un po’ di carne, quando i vicini mi chiameranno a prendere parte all’impiccagione del maiale, che sta ora ingrassando in rigorosa castità…..

Foto Brancaleone
Con il tempo e senza gli umori condizionati dalla costrizione della libertà e dalla mancanza di notizie da parte di Tina Pizzardo, la donna dalla voce roca, gli scritti di Pavese sul mare si addolciscono come in questo testo del 1938 (pubblicato nel 1948 con il titolo “Il Carcere”) in cui descrive l’esperienza del confino e della vita di mare con ironia:
“Stefano sapeva che quel paese non aveva niente di strano, e che la gente ci viveva, a giorno a giorno, e la terra buttava e il mare era il mare, come su qualunque spiaggia. Stefano era felice del mare: venendoci, lo immaginava come la quarta parete della sua prigione,una vasta parete di colori e di frescura, dentro la quale avrebbe potuto inoltrarsi e scordare la cella. I primi giorni persino si riempì il fazzoletto di ciottoli e di conchiglie. Gli era parsa una grande umanità del maresciallo che sfogliava le sue carte rispondergli: –Certamente.Purché sappiate nuotare. (Il carcere, p. 3).”
Ma altri mari si profilano all’orizzonte di Pavese, che tra il 6 novembre 1940 e il 18 gennaio 1941 scrive un breve romanzo “La spiaggia”, che viene pubblicato a puntate dalla rivista romana “Lettere d’oggi” diretta da G.B. Vicari e ripubblicato dall’Einaudi nel 1956 dopo la morte di P.
Pavese non considerò mai ”La spiaggia” un’opera riuscita: anzi ebbe a definirla, in una lettera a Giambattista Vicari
del 12 luglio 1941,«un romanzetto che poi nel corso della stesura si insabbiò e non merita certo di essere pubblicato per intero».
Ebbene quest’estate ho riletto, dopo quasi 50 anni, questo breve romanzo e l’ho ritrovato incantevole, scritto con uno stile lieve, elegante ed essenziale.
Il paesaggio muta dalle colline piemontesi alla spiaggia ligure (non identificata), anticipando i motivi più singolari della narrativa di P.
Chi racconta in prima persona è un uomo di più di trent’anni, un professore, che viene raggiunto durante l’estate da un amico, Doro, che si era sposato e aveva lasciato Torino per andare a vivere e lavorare a Genova.
A Doro è venuto il desiderio di fare una scappata in campagna nel suo paese di origine.
 «In fondo a una campagna dove gli alberi apparivano piccini tant’era immensa, sorgevano le colline di Doro: colline scure, boscose, che allungano le loro ombre mattutine sui poggi gialli, sparsi di cascinali»
La gita nei luoghi natii, la sbronza con i giovani del luogo, le cantate notturne ed insolenti sotto le finestre di donne, il tafferuglio in piazza, sono pagine di amare baldorie di un paese, un mondo che sta per scomparire.
Successivamente Doro con l’amico fa ritorno al luogo di vacanza balneare dov’è la moglie, Clelia. Comincia la vita della spiaggia, l’ozio, i futili discorsi, i pigri intrighi sentimentali. Il professore distaccato ed insieme attentissimo sta dietro a tutti, pronto a cogliere uno stato d’animo, un’allusione, un segreto. Ma la vera protagonista è Clelia, una donna ironica, sfuggente ed intelligente, è amata dal marito Doro e corteggiata dall’amico/ingegner Guido, ma seduce anche a sua insaputa lo studente Berti.  Il professore, nonostante sia legato a Doro da una profonda amicizia, ne è affascinato.
« Fin dal primo giorno avevo accennato per cortesia a scendere in acqua con lei, ma Clelia si era fermata guardandomi, con un sorriso ambiguo. – No, no, – aveva detto. Io, sorpreso, l’avevo guardata. – No,no, vado in acqua da sola. – Non c’era stato verso. Mi aveva spiegato che lei tutto faceva in pubblico, ma col mare se la vedeva da sola. –Ma è strano. – È strano, ma è così. – Nuotava bene e non era per imbarazzo. Era una sua decisione. – La compagnia del mare mi basta.Non voglio nessuno. Nella vita non ho niente di mio. Mi lasci almeno il mare. – Si allontanò nuotando senza muovere l’acqua, e al suo ritorno l’aspettavo sulla sabbia. Tornai sul discorso, e Clelia alle mie proteste aveva risposto con un mezzo sorriso. – Neanche con Doro? –chiesi. – Neanche con Doro – .»
La maggior parte dei commentatori di Pavese sostiene la tesi che lo scrittore sia misogino; ma in questo romanzo breve, come in altri libri di Pavese quali ”Tra donne sole” e ” La bella estate”, la figura femminile è quella che emerge ed è ben definita anche dal punto di vista psicologico, a differenza della maggior parte della letteratura italiana, in cui le donne sono spesso marginali e delineate in modo scialbo o poco credibile. Il racconto, fatto di piccole futilità balneari, in cui i maschi sono piuttosto volgari e indecenti:
e Guido: «Siccome tacevo, mi spiegò che anche a lui piaceva la compagnia di Clelia,ma che il fumo non è l’arrosto. – L’arrosto sarebbe? – Guido si mise a ridere. – Ci sono donne di carne, – disse, – e donne d’aria. Una boccata dopo pranzo fa bene. Ma bisogna prima aver mangiato»
il narratore dimostra nei confronti di Clelia una partecipazione affettiva ed emotiva, di fatto Clelia è la rappresentazione della donna sublimata. La narrazione si interrompe all’improvviso ed in modo positivo, perchè Clelia rimane incinta e torna in città con il marito. E’ un finale singolare per Pavese, alla pulsione di morte prevale lo spirito di sopravvivenza – la vita.
foto di Mia Ferraioli
 Nel tempo l’ostilità nei confronti del mare scompare,  resta tuttavia sempre estraneo al paesaggio interiore dello scrittore profondamente legato alle langhe, la terra degli avi, l’acqua è quella dei fiumi della sua vita il Belbo e il PO:  Pavese a Gressoney, in un paesaggio montano, prova esattamente la stessa reazione che comunica a Fernanda Pivano in una lettera del 30 agosto 1942: «Ora io non ho ricordi di questi luoghi, di questa natura, di questa realtà : per me è un mondo gratuito, vuoto, oggettivo come persona veduta per la prima volta. È evidente che non ho nulla da dire su di esso.»
Sulla questione mi pare di una chiarezza abbagliante lo stesso pavese nella poesia “Luna d’agosto” del volume Lavorare stanca (pubblicato nel 1943)
Al di là delle gialle colline c’è il mare,

al di là delle nubi. Ma giornate tremende
di colline ondeggianti e crepitanti nel cielo
si frammettono prima del mare. Quassù c’è l’ulivo
con la pozza dell’acqua che non basta a specchiarsi,
e le stoppie, le stoppie, che non cessano mai.

E si leva la luna. Il marito è disteso
in un campo, col cranio spaccato dal sole
– una sposa non può trascinare un cadavere
come un sacco -. Si leva la luna, che getta un po’ d’ombra
sotto i rami contorti. La donna nell’ombra
leva un ghigno atterrito al faccione di sangue
che coagula e inonda ogni piega dei colli.
Non si muove il cadavere disteso nei campi
né la donna nell’ ombra. Pure l’occhio di sangue
pare ammicchi a qualcuno e gli segni una strada.

Vengon brividi lunghi per le nude colline
di lontano, e la donna se li sente alle spalle,
come quando correvano il mare del grano.
Anche invadono i rami dell’ulivo sperduto
in quel mare di luna, e già l’ombra dell’albero
pare stia per contrarsi e inghiottire anche lei.

Si precipita fuori, nell’orrore lunare,
e la segue il fruscio della brezza sui sassi
e una sagoma tenue che le morde le piante,
e la doglia nel grembo. Rientra curva nell’ombra
e si butta sui sassi e si morde la bocca.
Sotto, scura la terra si bagna di sangue.

Nel dopoguerra il bisogno di scrivere versi per P. tornerà solo in occasione di episodi di vita amorosa, e saranno sempre versi per una donna, l’interlocutrice di un dialogo reale o desiderato.
In quegli anni Pavese ha amato due donne Bianca Garufi “Afrodite è venuta dal mare” (sul diario il 27 novembre 1945)  e Constance Dowling. Nelle poesie a loro dedicate ricorre l’eco del mare:

Terra rossa terra nera,
tu vieni dal mare,
dal verde riarso,
dove sono parole
antiche e fatica sanguigna
e gerani tra i sassi –
non sai quanto porti
di mare parole e fatica,
tu ricca come un ricordo,
come la brulla campagna,
tu dura e dolcissima
parola, antica per sangue
raccolto negli occhi;
giovane, come un frutto
che è ricordo e stagione –
il tuo fiato riposa
sotto il cielo d’agosto,
le olive del tuo sguardo
addolciscono il mare,
e tu vivi rivivi
senza stupire, certa
come la terra, buia
come la terra, frantoio
di stagioni e di sogni
che alla luna si scopre
antichissimo, come
le mani di tua madre,
la conca del braciere.

Cesare Pavese

[27 ottobre 1945]

questa poesia fa parte delle nove poesie che compongono “La terra e la morte” di Cesare Pavese, apparsa per la prima volta nella rivista «Le tre Venezie», n. 4-5-6, Padova 1947. Seguì una nuova edizione postuma in “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, Einaudi, Torino 1951, e successivamente in “Poesie edite e inedite”, a cura di Italo Calvino, Einaudi, Torino 1962.

 
Questa è la poesia dedicata a Connie Dowling nella primavera del 1950
 
I mattini passano chiari
e deserti. Così i tuoi occhi
s’aprivano un tempo. Il mattino
trascorreva lento, era un gorgo
d’immobile luce. Taceva.
Tu viva tacevi; le cose
Vivevano sotto i tuoi occhi
(non pena non febbre non ombra)
come un mare al mattino, chiaro.
Dove sei tu, luce, è il mattino.
Tu eri la vita e le cose.
In te desti respiravamo
sotto il cielo che ancora è in noi.
Non pena non febbre allora,
non quest’ombra greve del giorno
affollato e diverso. O luce,
chiarezza lontana, respiro
affannoso, rivolgi gli occhi
immobili e chiari su noi.
È buio il mattino che passa
senza la luce dei tuoi occhi.

Cesare Pavese 30 marzo 1950

Negli anni del dopoguerra, gli ultimi della vita dello scrittore, Pavese soggiornerà per brevi periodi, in località balneari turistiche, ne Il diavolo sulle colline, sul filo di un ricordo balneare il narratore esplicita il motivo per cui il mare resterà sempre per lui un elemento estraneo:

«Finiti i bagni, non aveva stretto amicizia se non col padrone di qualche bettola e con vecchi pensionati.

Io di quella spiaggetta nascosta mi ricordai a lungo: In fondo, il mare così grande e inafferrabile non mi diceva gran che; mi piacevano i luoghi ristretti che avevano una forma e un senso – insenature, viottoli, terrazze, uliveti.»

nell’estate del 1950, Pavese, ormai entrato nella fase più acuta della crisi, passa alcuni giorni dell’agosto 1950 dapprima a Forte dei Marmi in casa di Adolfo Occhetto, dirigente amministrativo della casa editrice Einaudi. Il figlio Achille Occhetto (ultimo segretario del PCI) ricorda «La cosa più strana è stato quello che è accaduto quando se ne andò via. Una settimana dopo ci è arrivata una cartolina, che a noi tutti parve curiosa, anche se però, ovviamente, subito non ci pensammo. C’ era scritto: “Vi ringrazio per l’ ospitalità e auguro a tutti voi una lunga vita”. Ora: uno che è stato in vacanza non è che va via e augura lunga vita.

Foto Bocca di Magra in inverno

Poi a Bocca di Magra nella casa di villeggiatura di Giulio Einaudi, a una ragazza  “Pierina” Romilda Bollati (figlia di un altro dirigente della Einaudi) di 18 anni scrive biglietti “Ogni tuo ballo è un giorno di meno nella mia vita. Me ne restano pochi. P” e almeno tre lettere in cui manifesta l’intenzione di suicidarsi,  lettere strane e significative per comprendere il suo stato d’animo: “C’è una tale sproporzione di stati d’animo tra noi due che le mie stesse parole mi tornano in bocca e mi feriscono”…”Penso che sia la musica in cui tu balli a scavarmi dentro a scrollarmi il sangue a farmi fare la faccia feroce (ma è la faccia feroce di un suicida, non altro)”… e ancora “Il motivo immediato è il disagio di questa rincorsa dove, non ballando e non guidando, resto sempre perdente. Io sono, come si dice, alla fine della candela” “Tu sei giovane, incredibilmente giovane, sei quello che io ero a 28 anni quando, risoluto a uccidermi per non so qual delusione, non lo feci… La vita mi era parsa orribile, ma trovavo ancora interessante me stesso. Ora è l’inverso: so che la vita è stupenda, ma che io ne sono tagliato fuori… Posso dirti che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo?” e infine “ Non si può bruciare la candela da due parti, e nel caso mio l’ho bruciata tutta da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto”.

La notte tra sabato 26 e domenica 27 agosto del 1950, Cesare Pavese si chiude nella camera 43 dell’Hotêl Roma in Piazza Carlo Felice a Torino e ingerisce, sciolte nell’acqua, “venti bustine di sonnifero” .

Sul frontespizio dei Dialoghi con Leucò posato sul tavolino, Pavese scrive le sue ultime parole

“Perdono tuttie a tutti chiedo perdono. Va bene?

Non fate troppi pettegolezzi”.

ultime_parole_pavese

1)  Nella retata della polizia fascista del 1935 viene arrestato anche Cesare Pavese che non aveva mai cospirato contro il regime e dopo un soggiorno nelle carceri di Torino e di Regina Celi a Roma viene condannato a tre anni di confino nel comune di Brancaleone (Reggio Calabria), con lui venne condannata la redazione della rivista “La Cultura”: Giulio Einaudi fu prosciolto in istruttoria con ammonizione, Carlo Levi e Franco Antonicelli furono condannati a cinque anni di confino.

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