L’ultima rottamazione, o dei saldi di fine stagione

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fausto Anderlini/Carlo Galli

di Fausto Anderlini – 1 luglio 2018

Leggo cose come questa di Carlo Galli, sul suo blog, e poi D’Attorre e Freccero sull’Antidiplomatico. Una buona materia di riflessione, problematiche che impongono una risposta. Quel che stona è la iattanza provocatoria, il liquidazionismo semplificatorio di fasi complesse e uno sdoganamento del rosso brunismo che sfiora un’apologia controproducente.

Secondo Galli il neo-liberismo sarebbe stato impiantato in Europa da Mitterand, Srhoeder e altri, nonchè Bersani e D’Alema. Una forma di codismo ideologico se non di protervia ideologica autodistruttiva. A rovescio una forma di avanguardismo del nuovo rapporto sociale. Le terze vie liquidate come ‘tradimento e mutazione ideologici’. Dimenticando la spinta possente all’individualizzazione emersa negli ’80 e culminata nell’89, cioè l’egemonia culturale che conobbero per un lungo periodo le nuove espressioni del liberismo e del mercatismo. Spesso proveniente dalle stesse basi sociali dei partiti legati all’esperienza socialdemocratica. Le terze vie prima di proporsi come ipotesi di governo furono strategie adattive, tentativi di conciliazione e di sopravvivenza.

Del resto queste cose Carlo, le cui evoluzioni non da oggi mi sono note, non le disse allora, quando partecipò con entusiasmo alla costituzione del Pd fino a entrare in parlamento aderendo all’Italia bene comune guidata da Bersani. Sicchè vien da pensare che se del senno di poi son piene le fosse, e le tasche, almeno si dovrebbe prendere la propria quota evitando le sindromi proiettive, accusatorie e dottorali.

D’Attorre aggiunge l’analisi elettorale (il leit motiv della sinistra dei quartieri ‘alti’) e Galli invita la sinistra rifondata a voltare le spalle alla ‘sinistra borghese’, moderata e neo-liberista. In realtà le classi medie ‘benestanti’ che la sinistra, in tutte le sue espressioni, radical e moderate, ha tenuto nei centri urbani non sono una ‘conquista’ scambiata con l’abbandono delle periferie disagiate. La sinistra ha perso l’elettorato periferico e conservato i ceti riflessivi acquisiti con le terze vie. Di qui l’idea fallace di un reinsediamento, laddove invece trattasi del disinsediamento da una parte del blocco del centro-sinistra. Classi medie peraltro inserite nel sistema di welfare e largamente interne ai settori ‘istituzionali’ (scuola, sanità, amministrazione) della formazione sociale. Sembrerebbe quasi che i ‘nostri’ invitino a squassare questo residuo sociale ed elettorale completando l’opera di Renzi (un quarto scarso dell’elettorato), sorta di zavorra da rottamare, come del resto i diritti civili (come dimenticare, anche qui, la spinta clamorosa delle issues post-materialistiche a partire dagli ’80, che i socialisti dovettero accogliere a furor di popolo facendosene paladini contro i rigurgiti oscurantisti della destra?).

La mia impressione è che questi semplificazionismi tradiscono un qualche debito verso la cultura della rottamazione. C’è un’ansia palingenetica che stona. Peraltro in stridente contrasto con quella cultura della ‘mediazione’ che si vorrebbe ripristinare al seguito di un rinnovato protagonismo della politica costituzionale sull’economia.

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di Carlo Galli – giugno 2018
Sulla sinistra “rossobruna”

Nonostante la sua critica dello Stato come organo politico dei ceti dominanti, nonostante il suo internazionalismo, la sinistra in Occidente ha sviluppato la sua azione all’interno dello Stato: ha cercato di prendere il potere e di esercitarlo al livello dello Stato, ha investito nella legislazione statale innovativa, e nella difesa e promozione della cittadinanza statale per i ceti che ne erano tradizionalmente esclusi. Nella sinistra agiva l’impulso a considerare lo Stato come una struttura politica democratizzabile, sia pure a fatica; mentre le strutture sovranazionali erano per lei deficitarie di legittimazione popolare. La sinistra italiana, per esempio, fu ostile alla Nato (comprensibilmente) ma anche alla Comunità Europea. E in generale le sinistre difesero gelosamente le sovranità nazionali e si opposero a quelle che definivano le ingerenze dei Paesi occidentali nelle faccende interne degli Stati sovrani dell’Est, quando qualcuno protestava perché vi venivano calpestati i diritti umani. L’internazionalismo della sinistra rimase al livello di generica approvazione dell’esistenza dell’Onu, di più o meno platonica solidarietà per le lotte dei popoli oppressi, e di sempre più cauta collaborazione con i partiti comunisti fratelli. L’internazionalismo inteso come spostamento del potere fuori dai confini dello Stato, avversato dalle sinistre, fu invece praticato vittoriosamente dai capitalisti e dai finanzieri.

Caduta l’Urss, la sinistra aderì entusiasticamente al nuovo credo globale neoliberista e individualistico, e alla critica dello Stato (soprattutto dello Stato sociale) e della sovranità – oltre che dei sindacati e dei corpi intermedi – che esso comportava. L’idea dominante era che la sinistra di classe non era più ipotizzabile perché le classi non esistevano più, e perché vi era ormai una stretta comunanza d’interessi fra imprenditori e lavoratori. La giustizia sociale era un obiettivo raggiungibile solo se si lasciava che il mercato svolgesse la propria funzione di generare la crescita complessiva della società: la politica era solo un accompagnamento di processi di sviluppo in realtà autonomi. Gli inconvenienti del mercato si dovevano correggere nel mercato. Sono state le sinistre a introdurre il neoliberismo in Europa: Blair, Delors, Mitterand, Schroeder, Andreatta, D’Alema, Bersani. La sinistra storica divenne così un partito radicale di massa, schiacciato sulle logiche dell’establishment e sulla sua gestione, impegnato – senza esagerare – sui diritti umani e civili visti come sostitutivi dei diritti sociali. Una sinistra dei ceti abbienti e cosmopoliti, incapace di interrogare radicalmente i modelli economici vigenti, le strutture produttive e le loro contraddizioni.

La critica alle storture, alle disuguaglianze, alla subalternità del lavoro, che invece si manifestarono nelle società occidentali soprattutto a partire dalla Grande crisi del 2008, e alla logica deflattiva dell’euro ordoliberista – con cui l’Europa volle giocare la propria partita nel mondo globale –, fu lasciata alle sinistre radicali (Tsipras, Corbin, Mélenchon, e negli Usa Sanders), generose ma anche confusionarie, e per ora minoritarie, e ai movimenti populisti e sovranisti spesso di destra, che oggi intercettano il bisogno di protezione e di sicurezza di gran parte dei cittadini. Che sono preoccupati per la propria precarietà economica, per il declassamento sociale e per i migranti, visti come problema di ordine pubblico ma anche come competitori per le scarsissime risorse che lo Stato destina all’assistenza e al welfare. Le destre politiche approfittano, come sempre, dei disastri provocati dalle destre economiche (e dalle sinistre che hanno dimenticato se stesse).

Mentre la sinistra deride e insulta gli avversari politici, grida al fascismo fuori tempo e fuori luogo (banalizzando una tragedia storica), e di fatto nega i problemi reali rispondendo alle ansie dei cittadini con prediche moralistiche e con la proposta di dare a Balotelli la maglia di capitano della nazionale, come segno anti-razzista, la destra politica e i populisti quei problemi li riconoscono e ne approfittano. Naturalmente, la interpretazione che ne danno è più che discutibile: i migranti e la casta (bersagli dei populisti e delle destre) non sono i principali responsabili della crisi e della disgregazione che ha colpito il Paese. Ma almeno queste forze anti-establishment porgono ascolto ai cittadini, che infatti li votano, mentre non votano le sinistre, che fanno sterile e superficiale pedagogia mainstream, e che ora scoprono con stupore di essere confinate nei quartieri alti, mentre nelle periferie degradate il proletariato e i ceti medi impoveriti – che ancora esistono, nonostante le analisi di sociologi non troppo perspicaci – votano destre e populisti.

In questo contesto, i sovranisti di sinistra (che non si possono definire “rosso-bruni”, che vuol dire “nazi-comunisti” – ed è un po’ troppo –) cercano di recuperare il tempo e lo spazio perduti dalle sinistre liberal e globaliste. Cercano insomma di sottrarre la protesta sociale alle destre, e tornano così allo Stato, nella consapevolezza che senza rimettere le mani su questo e sulla sovranità – che è un concetto democratico, presente nella nostra Costituzione, e che di per sé non implica per nulla xenofobia e autoritarismo – non ci si può aspettare alcuna soluzione dei nostri problemi, che non verrà certo da quelle potenze sovranazionali che li hanno creati (naturalmente, esistono forti responsabilità anche interne del nostro Paese, che andranno affrontate). Ovviamente è una strategia rischiosa, non garantita, forse anti-storica (ma lo Stato, in ogni caso, è ancora il protagonista della politica mondiale); e, altrettanto ovviamente, facendo ciò le sinistre sovraniste sposano, entro certi limiti, gli argomenti della destra, e ne condividono i nemici (la sinistra moderata – mondialista e europeista –, e il capitale globale). Ma se la sinistra sovranista sa fare il proprio mestiere riesce a distaccarsi chiaramente dalla destra politica perché è in grado di dimostrare che questa dà a problemi veri risposte parziali, illusorie e superficiali: la destra va sfidata non sui migranti, ma sulle politiche del lavoro; non sui vitalizi, ma sulla critica della forma attuale del capitalismo; non sull’euro, ma sulla capacità del Paese di non essere l’ultima ruota del traballante carro europeo; non sul nazionalismo, ma su un’idea non gerarchica di Europa. La sinistra sovranista – che è meglio definire radicale – ha il compito di dimostrare che destre e populismi sono l’altra faccia del neoliberismo e della globalizzazione che dicono di combattere; che sono apparentemente alternativi ma che in realtà ne sono subalterni.

Siamo alla fine del ciclo democratico e progressivo apertosi con la vittoria sul fascismo: una fine sopraggiunta dapprima nelle strutture economiche, e ora nel pensiero e nella pratica politica. In campo, duramente contrapposte ma complementari, ci sono establishment e anti-establishment: due destre, una economica (a cui è di fatto alleata la ex-sinistra liberal) e l’altra politica, l’una moderata e l’altra estrema. Lo spazio della sinistra non è accostarsi ai moderati, né mimare gli estremisti di destra, ma praticare la profondità, la radicalità dell’analisi; il suo compito è dimostrare che il cleavage destra/sinistra esiste ancora, ma è nascosto, e complesso. E che per il bene di tutti lo si deve fare riaffiorare.

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