L’ordoliberalismo 2.0

per Gabriella
Autore originale del testo: LELIO DEMICHELIS
Fonte: micromega
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  di LELIO DEMICHELIS 20 luglio 2016

L’ordoliberalismo – già egemone forse più del neoliberismo nella forma economica e tecnica assunta dalla società globale – sta dilagando e diventando egemone anche in rete e questa volta è ordoliberalismo 2.0. Quali sono le conseguenze sociali e politiche?

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Era il 28 giugno del 1983 e Luigi Pintor – fondatore e direttore del manifesto – inventava un titolo che fece epoca esprimendo la speranza e l’auspicio di molti: Non moriremo democristiani. Sappiamo com’è andata a finire. Ma oggi, potremmo essere altrettanto ottimisti (l’ottimismo della volontà e della capacità-consapevolezza di poter cambiare il mondo) – ma questa volta senza sbagliare – e dire: non moriremo ordoliberali, neppure ordoliberali 2.0? Visti gli effetti di nichilismo politico e di sadismo sociale che l’ordoliberalismo ha prodotto e ostinatamente continua a produrre sull’Europa e su ciascuno di noi, davvero dovremmo proporci – con ostinazione e determinazione ben maggiori – di non morire ordoliberali (e neppure neoliberisti). Se l’ordoliberalismo e le sue politiche di austerità hanno palesemente fallito, perché ostinarsi nell’errore?

In verità, il pessimismo (o il realismo) della ragione sembra dirci che abbiamo perso la capacità di fare innovazione politica, economica e sociale e quindi abbiamo rinunciato alla libertà facendoci liberamente servi dell’ordine economico esistente. Come dimostrato dalla Brexit: l’illusione di un ritorno al passato come via di salvezza; e dalle elezioni in Spagna: il rifiuto del cambiamento e di una nuova politica economica, replicando l’atteggiamento del popolo di Siviglia che si inchina all’Inquisitore, nel racconto di Dostoevskij e dando purtroppo nuova conferma a quanto scritto da Gustavo Zagrebelsky, ovvero ormai non esistono più gli inquisitori come casta separata, perché tutti hanno interiorizzato il loro messaggio e l’unica libertà è quella di ‘difendere’ (per chi è incluso) o di ‘subire’ (per chi è escluso o ai margini) l’esistente. Fino a quando le nostre società interiorizzeranno l’assenza di alternative, saremo inquisitori di noi stessi, ci proibiremo, ciascuno per sé e tutti per ciascuno, l’uso della libertà di cui l’Inquisitore voleva liberarci. Inutile: ce ne siamo liberati da soli. E questo mentre siamo sempre più (infantilmente) entusiasti di ogni innovazione tecnologica offerta e promossa dagli oligopolisti e dagli oligarchi della Silicon Valley o dai nuovi makers, gli unici che avrebbero oggi una visione del futuro e la voglia di utopia, e che si offrono (e che noi ammiriamo) come i nuovi redentori – pur vivendo la nostra eteronomia dalla tecnica e dal mercato come virtuosa autonomia, perché avere un personal computer e un apparato mobile individuale o una stampante 3D in casa o essere nella sharing economy ci offre l’illusione (ma appunto, è solo un’illusione o un’allusione) di essere padroni dei mezzi di produzione e del lavoro che facciamo e di avere così sconfitto l’alienazione e la sub-ordinazione, di essere addirittura in un post-capitalismo o in una new economy (lo si diceva, uguale uguale anche negli anni ’90). Dimenticando che il capitalismo (produttivo e/o finanziario) è una potentissima e incessante (a mobilitazione totale) macchina trasformista di se stesso e trasformatrice per essenza e per vocazione, produttrice di individualizzazione e di soggettivazione (ma apparente, quindi falsa), di desiderio e di godimento e di falsi bisogni (come scriveva Marcuse), per poter integrare poi in sé e per sé – estraendone il massimo di profitto e di produttività – queste false soggettività/soggettivazioni, grazie ad un  meccanismo teologico di unificazione e di integrazione di ciascuno (di ogni apparente molteplicità che esso stesso produce/induce) nel sistema stesso e che passa attraverso la crescente, ma anch’essa apparente, personalizzazione dei messaggi pubblicitari e dei beni in offerta, oltre che di un lavoro anch’esso apparentemente autonomo e libero (free e/o smart). Tutti siamo poi convinti che la rete sia un grande mezzo di comunicazione e di conoscenza, dimenticando che oggi è soprattutto un mezzo di connessione e di integrazione, se è vero (ed è vero) che la rete è diventata non solo la più grande società di massa (individualizzata) della storia umana, quanto la più grande fabbrica (appunto globale) mai concepita, ciascuno sempre più integrato in un fare/essere capitalista nella nuova divisione internazionale del lavoro e nel passaggio dal novecentesco fordismo concentrato delle grandi fabbriche al fordismo individualizzato della rete.

Dunque, l’ordoliberalismo. E di ordoliberalismo si parla spesso anche se – più spesso ancora – si usa il termine generico di neoliberismo per definire le politiche economiche di questi ultimi trent’anni, dimenticando la stretta connessione e convergenza (al di là di alcune pur importanti differenze) tra queste due ideologie – tra queste due biopolitiche. Mario Monti si autodefinisce ordoliberale. Draghi lo ha detto di se stesso e della Bce («La costituzione monetaria della Banca centrale europea è saldamente ancorata ai principi dell’ordoliberalismo»). Renzi lo è con il JobsAct (e Hollande con la sua legge sul lavoro) e con la preferenza per il governo delle élite (anche se non lo è quando nega il decentramento del potere). Lo è ovviamente la Germania di ieri e soprattutto di oggi e quindi l’Europa dell’austerità, del pareggio di bilancio, delle riforme strutturali – che sono strutturali e strutturanti (funzionali) per l’espansione incessante del capitalismo, ma de-strutturanti per la società, la democrazia e per i diritti civili, politici e sociali. Tutto, in realtà è ordoliberalismo prima o più che neoliberismo. Ed è appunto una biopolitica, una forma di quella che Michel Foucault chiamava governamentalità, intendendo i modi con cui si guidano i comportamenti degli uomini (ovviamente in senso etero-normato, anche se il biopotere oggi non è più riferibile ad un soggetto esplicito di potere ma ad un sistema/apparato di potere, come la globalizzazione, i mercati o la rete). Una biopolitica – la forma moderna di esercizio del potere e della costruzione dei saperi, a sua volta da intendere come un campo di relazioni e come una strategia (perché il potere non ha solamente la funzione negativa del reprimere ciò che viene ritenuto non-normale/non-conforme dal potere, ma soprattutto ha la funzione positiva e creativa del produrre certi comportamenti e certe azioni) – e che, come sempre accade, si rovescia nel suo contrario, cioè in tanatopolitica; ed è appunto la biopolitica ordoliberale diventata tanatopolitica e quindi nichilismo che sta distruggendo quell’Europa che pure voleva costruire secondo il proprio ordine e la propria pianificazione. Ma cos’è esattamente l’ordoliberalismo, identificato anche con economia sociale di mercato?

È un modello economico, ma soprattutto sociale che si dice appunto liberale, sviluppatosi in Germania negli anni ‘30 del ‘900 attorno alla figura di Walter Eucken, assumendo poi il nome di Scuola di Friburgo e la denominazione di ordoliberalismo dal titolo della rivista Ordo, fondata sempre da Eucken e il cui primo numero uscì nel 1948. Un liberalismo che vuole essere diverso da quello ottocentesco e che si propone di garantire la libertà di mercato ma anche la giustizia sociale, nella convinzione che la realizzazione dell’individuo possa aversi solo se vengono garantite la libertà di impresa, di mercato e la proprietà privata. Poiché tuttavia tali condizioni non sono automatiche (e gli ordoliberali, a differenza dei neoliberisti della Scuola austriaca non credevano alla mano invisibile), lo stato deve intervenire laddove esse siano compromesse. Lo stato però non deve governare il mercato e indirizzarlo verso fini umani e sociali ma deve piuttosto, pedagogicamente, promuovere il mercato, attivarne la funzione sociale (il benessere) e produrre quindi una società ordoliberale, o meglio di mercato, in funzione del e funzionale al mercato. Lo stato non è il nemico, come per i neoliberisti e deve intervenire sul mercato per ripristinarlo (promuovendo la concorrenza e combattendo i monopoli) nella sua essenza pura. Da qui l’importanza del diritto nella costruzione delle regole del gioco (ma di un gioco di mercato), per cui occorre realizzare una costituzione economica per migliorare ma soprattutto per costruire il sistema dell’economia di mercato.

Eucken, assegnava allo stato la funzione di guardiano dell’ordine concorrenziale, che a sua volta era considerato come un bene pubblico. Ma dovrebbe risultare oggi chiaro ed evidente come lo stato ordoliberale non sia un arbitro che fa rispettare le regole del gioco («Così come l’arbitro non partecipa al gioco, così lo stato è fuori dall’arena», sosteneva Ludwig Erhard), quanto un arbitro di parte, che fa le regole per il mercato, promuovendo il mercato inteso come forma economica che deve diventare forma esistenziale individuale e sociale, essere insieme disciplina e biopolitica (lo diciamo richiamando ancora Foucault). Perché se il diritto diventa regola del gioco che lo stato dà per lasciare poi ciascuno libero di giocare il suo personale gioco – come appunto volevano gli ordoliberali – ma se il gioco che si deve giocare è quello del capitalismo, allora la regola del gioco non è imparziale né liberale (si cancella infatti ogni separazione e bilanciamento tra il potere economico e quello politico e giuridico), ma parzialissima e pedagogica, governamentale appunto, a profitto del gioco del capitalismo andando a modificare i modi e le forme di comportamento di ciascuno e dell’insieme, modi e forme sempre meno sociali e umanistiche e sempre più economiche e imprenditoriali. E libertà, uguaglianza e fraternità cedono il passo a impresa, mercato e competizione. La forma mercato deve cioè diventare forma sociale.

Allora è utile rileggere (ad esempio in Democrazia ed economia) Wilhelm Röpke (1899-1966), uno dei padri dell’ordoliberalismo tedesco, nonché punto di contatto (anche se problematico) con la Scuola neoliberista austriaca di Mises e Hayek. Röpke era conservatore in politica; era contrario alle tecnocrazie ma era favorevole alle élite; si opponeva al razionalismo moderno e alla superbia della ragione ed era legato a un’idea di comunità come entità virtuosa e necessaria per governare gli uomini; era convinto (evidentemente sbagliando, come i fatti continuamente dimostrano) che economia di mercato (sempre virtuosa e da promuovere) e capitalismo (potenzialmente vizioso e da controllare) non sono la stessa cosa; che l’economia di mercato non è tutto ma è un ordine parziale, anche se indispensabile, per cui occorre bilanciare il principio della libertà individuale e di gruppo con il principio sociale umanitario. Da qui la sua idea di un umanesimo liberale e la sua lotta (ossessiva) contro il collettivismo (e contro Keynes), ma anche contro un liberalismo ritenuto vecchio e quindi da aggiornare mediante una sorta di terza via; e, ancora, la sua distinzione tra stato sano (che genera la pacifica e volontaria subordinazione dei molti ai pochi che sanno governare) e soprattutto decentrato (grazie al principio della sussidiarietà, ripreso dalla dottrina sociale della Chiesa, cui era molto vicino) e stato malato (quello dell’accentramento delle risorse e del potere nelle mani di gruppi organizzati); mentre su welfare e politiche sociali sosteneva come non bisognasse oltrepassare una certa soglia di intervento per non spezzare la molla segreta di una sana società, vale a dire il senso della responsabilità individuale.

Scriveva Röpke, specificando il rapporto tra mercato e stato/società: «Questo ordine economico deve integrarsi negli altri, più ampi, e più alti ordini, da cui dipende il successo dell’economia di mercato e che a loro volta lo presuppongono». Aggiungendo: «Ecco perché, fin da principio, ci siamo opposti a semplificazioni e restrizioni, a economicismo, utilitarismo, materialismo e amoralismo, in nome dell’uomo nel suo complesso e dell’intera società» – senza tuttavia accorgersi che quella da lui enunciata è chiaramente una contraddizione in termini, perché se l’ordine del mercato deve integrarsi negli altri ordini – che a loro volta lo presuppongono – è inevitabile che questo produca l’inquinamento del primo sugli altri ordini.  Ciò che propone Röpke è analogo a chiedere che un ordine religioso si sostituisca alla – oppure orienti/indirizzi (integrandosi negli altri ordini) la – legge laica e civile.

Niente di più illiberale. Molto di biopolitico e di governamentale (e «le più forti ragioni per difendere la libertà economica e l’economia di mercato sono di carattere morale (…) che non stanno in piedi senza canoni morali»). Aggiungeva Röpke: «ogni limitazione della libertà economica, ogni intervento statale, ogni atto di pianificazione e di dirigismo contiene in sé una dose di coercizione». Ma nel mercato «tutto quello che è coercizione, intervento, decurtazione della libertà è limitato alla cornice, cioè alle regole dello svolgersi delle relazioni economiche, libere nel resto – [mentre] il collettivismo è caratterizzato dal dirigismo coattivo delle stesse singole decisioni economiche». Ebbene, oggi possiamo/dobbiamo rovesciare questa tesi e dire che proprio ogni atto pro-mercato contiene in sé una dose di coercizione e di dirigismo coattivo, di disciplina dentro a una biopolitica (il caso Grecia lo ha dimostrato, ma lo ha dimostrato ancora di più la famosa lettera di Trichet e Draghi all’Italia, del 2011) e maggiori sono le dosi di coercizione, maggiore è l’assuefazione, cioè l’adattamento di ciascuno al mercato e al suo dirigismo, che è appunto l’obiettivo che l’ordoliberalismo persegue in modo insieme teleologico, escatologico e teologico (di teologia economica).

E qui comincia allora a definirsi meglio l’uso particolarissimo e fuorviante (ideologico e appunto teologico) del termine sociale da parte degli ordoliberali. Perché se è vero che lo stato sociale tedesco è nato grazie anche a loro (ma anche contenendone, da parte democristiana, della sinistra e del sindacato, la vocazione pedagogica e l’agenda, mentre il welfare veniva esteso e la cogestione introdotta grazie alla socialdemocrazia contro l’ordoliberalismo), per gli ordoliberali l’obiettivo vero era quello di socializzare il mercato, di farlo penetrare appunto negli altri ordini dello stato e di sub-ordinare ad esso l’intera società, producendone l’introiezione (eteronoma, ma per attivare una falsa soggettivazione) da parte di ciascuno. Perché – secondo il pensiero ordoliberale, dove l’ordine si traduce infine in olismo capitalista e la società in organismo economico di mercato – non deve esserci alcuna contrapposizione tra le dimensioni sociali e quelle individuali e una società, in tutte le sue manifestazioni e in tutti i suoi aspetti, forma una unità, nella quale tutte le parti sono legate da un rapporto di interdipendenza e – appunto – «anche l’ordine economico non fa eccezione, dovendo essere inteso come una parte dell’ordinamento globale della società che deve corrispondere all’ordine spirituale e politico, esattamente come questo, a sua volta, deve armonizzarsi con l’ordinamento economico». Da qui l’altra distinzione ordoliberale, per cui le politiche dello stato possono essere conformi (quindi corrette e pedagogiche) o non conformi (quindi errate e pericolose) rispetto all’economia di mercato; e conformi sono ovviamente quelle che ricercano le migliori corrispondenze funzionali tra i diversi ambiti delle azioni umane, perché la società deve conformarsi alla forma del mercato e devono essere create tutte le corrispondenze possibili perché questo si realizzi. L’obiettivo degli ordoliberali non è dunque quello di democratizzare il capitalismo (come in troppi hanno creduto, ingannati dalla parola sociale aggiunta a economia di mercato), ma di farlo appunto diventare un modo di vivere e di essere degli uomini – e non solo di fare. Cioè, una biopolitica (in questo, similmente ai neoliberisti austro-americani, per i quali il neoliberismo, o meglio: il capitalismo, è un modo di essere, di vivere e di pensare). E infatti, dire che il mercato non è tutto o che il mercato deve essere il servitore e non il padrone della società (come scriveva Röpke) è dire niente se poi l’azione dello stato è funzionale e pedagogica alla promozione e diffusione del mercato, per cui ciò che non dovrebbe essere ‘tutto’ (il mercato) in realtà lo diventa inevitabilmente, così come diventa il vero sovrano assoluto del mondo proprio grazie all’ordine giuridico integrato in quello economico, prodotto dallo stato.

E allora, se l’ordoliberalismo è da intendere come una biopolitica, torniamo a Michel Foucault che lo aveva studiato e analizzato con grande cura e dettaglio in Nascita della biopolitica, il Corso tenuto al Collège de France nel 1978-1979. Dopo l’esperienza del nazismo, dicono i liberali tedeschi nella rilettura di Foucault, «dal momento che ormai è accertato che lo stato è portatore di un’intrinseca difettosità, mentre nulla prova che l’economia di mercato abbia simili difetti, chiediamo all’economia di mercato di fungere, di per sé, non tanto da principio di limitazione dello stato, bensì da principio di regolazione interna dello stato, in tutta l’estensione della sua esistenza e della sua azione. (…) Detto altrimenti: uno stato sotto la sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello stato». Ma non solo: si tratta anche di mettere ancor più a baricentro di questa arte ordoliberale di governo non lo scambio (che è sempre esistito, da quando esiste la società), ma la concorrenza (che è diversa dallo scambio, perché la concorrenza, a differenza dello scambio, non è qualcosa di naturale), quella concorrenza per altro già entrata nella riflessione liberale con Walras, Marshall e la teoria della concorrenza. E tuttavia, con gli ordoliberali un nuovo soggetto entra, di fatto nel capitalismo: lo stato – ma non lo stato come vero arbitro tra capitale e lavoro; non lo stato secondo il liberale Beveridge; non lo stato del New Deal di Roosevelt, cioè come imprenditore pubblico che fa ciò che il capitalismo non sa o non vuole fare (e ci chiediamo con ansia quale sarà l’avvenire del mondo se il paese economicamente più potente cede alle lusinghe di una demagogia anticapitalista, foriera di sicura rovina – scriveva Röpke stroncando il New Deal), o quello delle politiche keynesiane -; ma uno stato ordoliberale, piuttosto e ancora, che diventa arbitro-giocatore, produttore di integrazione di ciascuno nel meccanismo di mercato e di concorrenza (partendo appunto dal pre-giudizio per cui lo stato è intrinsecamente difettoso mentre il mercato non lo è o può essere corretto).

Ordoliberalismo come biopolitica, dunque; perché la vita di ciascuno deve essere a immagine e somiglianza del mercato e dell’impresa – l’altro elemento forte e programmatico dell’ordoliberalismo – una biopolitica che diventa una politica della società, secondo Foucault, ma per una società da costruire appunto sul modello d’impresa. Per cui si arriva all’altro paradosso (che paradosso anch’esso non è) per cui se il liberalismo si opponeva al socialismo ma anche al Piano del liberale Beveridge, accusandoli di voler dare uno scopo al mercato e una finalità sociale allo stato attraverso il piano e la programmazione e l’adozione di specifiche politiche (di sviluppo, sociali, industriali, per la ricerca, di redistribuzione dei redditi, per il pieno impiego), in realtà anche l’azione dello stato secondo la visione ordoliberale non è che un modo per dare uno scopo, una finalità all’azione di governo e dello stato. Solo che finalità dello stato ordoliberale è quella di modellizzare tutti e ciascuno su impresa, concorrenza e mercato. Facendolo, è anche il liberalismo a pianificare la società cercando di produrre la sua mutazione antropologica in nome del mercato e la trasformazione di ciascuno in imprenditore di se stesso. Lo fa in nome dell’individuo e della sua libertà, certo; ma producendo un individuo meno libero proprio perché sempre più sub-ordinato al mercato (anche questa è una forma di eteronomia) e sempre più modellizzato sul principio della concorrenza. Foucault: «In altre parole, si tratta di generalizzare, diffondendole e moltiplicandole quanto possibile, le forme ‘impresa’ (…). Si tratta di fare del mercato, della concorrenza, e dunque dell’impresa, quella che si potrebbe chiamare la potenza che dà forma alla società».

Non solo dunque fare impresa ma soprattutto, per ciascuno, essere impresa. Perché l’idea degli ordoliberali (sempre Foucault) era di «prendere il tessuto sociale e fare in modo che possa scomporsi, suddividersi, frazionarsi, non secondo la grana degli individui, bensì secondo quella dell’impresa. (…). Bisogna che la vita stessa dell’individuo – ad esempio, il suo rapporto con la proprietà privata, con la famiglia, con la sua conduzione, con i sistemi assicurativi e con la pensione – faccia di lui e della sua vita una sorta di impresa permanente e multipla. (…). E si tratta di fare in modo che l’individuo (…) non sia più alienato rispetto al suo ambiente di lavoro e al tempo della sua vita, alla sua casa, alla sua famiglia, al suo ambiente naturale. Si tratta di ricostituire attorno all’individuo dei punti di ancoraggio concreti (…); come una Vitalpolitik che avrà la funzione di compensare quanto c’è di freddo, di impassibile, di calcolatore, di razionale, di meccanico nel gioco della concorrenza propriamente economica». Da qui, ancora, l’importanza di attivare il capitale umano di ciascuno (istruzione, formazione e non solo), e di convincere ciascuno ad attivarlo come mission unica e totalizzante della propria vita-impresa. Ed è appunto in questa direzione, scrive Foucault, «che abbiamo visto orientarsi le politiche economiche, ma anche quelle sociali e culturali, come anche le politiche educative di tutti i paesi sviluppati», come di quelli in via di sviluppo.

Capitale umano, dunque; e dall’altro lato – aggiungiamo – il potenziamento delle retoriche dell’innovazione tecnologica (il tecno-entusiasmo per la rete e per la Silicon Valley di oggi), perché funzionali all’innovazione sempre e comunque e perché l’innovazione (la scoperta di nuove tecniche, di nuove fonti, di nuove forme di produttività, ma anche di nuovi mercati o di nuove riserve di manodopera) è funzionale e necessaria al capitalismo per la sua esistenza (Schumpeter, da rileggere ne La teoria dello sviluppo economico), per cui occorre attivare e mobilitare ciascuno verso l’innovazione incessante (creando e promuovendo appunto le retoriche del tecno-entusiasmo e tacciando ogni critica come patologica tecno-fobia), con il nuovo imprenditore in rete che non chiede più soldi alle banche per investire ma ricorre al crowdfunding – che è un altro modo di costruzione della governamentalità tecno-capitalista e della sua egemonia.

E questo è esattamente quanto accaduto negli ultimi trent’anni in tutta l’Europa germanizzata così come in Italia dove dall’economia dei distretti industriali al piccolo è bello fino al capitalismo molecolare e poi personale, dal lavoro autonomo di seconda generazione a quello free-lance – tutto è nella forma ordoliberale dell’impresa e della concorrenza di ciascuno nel mercato del lavoro, dove il lavoro cessa di essere un diritto e torna ad essere una merce (Gallino). Modello impresa per l’individuo e per lo stato (che deve pro-muovere il mercato e farsi impresa e soprattutto far fare impresa a ciascuno, ma anche ai musei, alle scuole e alle università, al welfare che deve essere azienda sanitaria ma anche diventare welfare aziendale e sempre meno universale); retoriche della responsabilità individuale per addestrare ad essere imprenditori di se stessi e a dover essere sempre connessi nell’apparato di produzione e di consumo; darsi da fare come mantra quotidiano (producendo una versione aggiornata del lavoro come Beruf); sfruttare al massimo il proprio capitale umano ma allo stesso tempo lasciare che il capitalismo estragga quanto più profitto dai dati personali di ciascuno; la chiusura della società in logiche di comunità o di comunità-rete; tutelare la concorrenza ma soprattutto promuovere la concorrenza (promozione aggiunta nel nuovo articolo 117, c. 2, lettera e della riforma costituzionale renziana – rimuovendo di fatto, con una sola parola, gli articoli 1, 2, 3, 4, 9, 31, 32, 35, 36, 38, 41, 43, 46 e 47 della Costituzione).

Modello impresa; ma quale impresa? Nell’impresa, scriveva ancora Röpke nel 1963, la democrazia è fuori luogo, come in una sala operatoria. «La vera democrazia economica sta altrove e cioè sul mercato, ove i consumatori sono elettori al cui costante plebiscito l’imprenditore deve adeguarsi se non vuole andare incontro al fallimento». Tutto ciò è evidentemente falso (e Vance Packard lo aveva dimostrato già da alcuni anni, con il suo Persuasori occulti) – perché se la democrazia non è ovunque,  anche nell’impresa, anche nella rete (e dire che il crowdfunding sarebbe una democratizzazione della scienza e dell’innovazione, come si è scritto, è un falso ideologico, perché è invece, e ancora, socializzazione del capitalismo, pedagogia capitalista, governamentalità capitalista), e se la democrazia non è ovunque e non lo è in modo crescente, la democrazia scompare.

E oggi, l’ordoliberalismo – già egemone forse più del neoliberismo nella forma economica e tecnica assunta dalla società globale – dilaga e diventa egemone anche in rete e questa volta è ordoliberalismo 2.0 diventato il nuovo tutto, il nuovo ordine normativo tecnico ed economico che deve integrarsi negli altri ordini. Perché se l’ordoliberalismo è ciò che è stato sopra descritto, la rete allora è ordoliberale (più che neoliberista) per essenza, per pedagogia e per governamentalità della vita individuale e collettiva e lo è più ancora del vecchio ordoliberalismo fisico. Perché ordoliberalismo 2.0 è gran parte (non tutta, certo, ma sicuramente la sua gran parte) della sharing economy (più spesso una mera economia della sopravvivenza che nuova new economy); è il modello Airbnb e Uber e soprattutto l’uberizzazione crescente del lavoro; è l’illusione dell’auto-imprenditorialità via rete (che comunque presuppone e obbliga ad una subordinazione all’apparato e al capitalismo di piattaforma); è la forma impresa che pervade l’economia in rete trasformando ciascuno in microcapitalista in ogni atto che compie e in imprenditore e ad esserlo a 360 gradi, 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno; è nel principio della concorrenza-competizione che pervade l’economia in rete (anche quando si traveste da sharing).

Ma lo è anche nella creazione di una (falsa) socialità in rete, anche se compensativa della freddezza della tecnica e degli effetti del mercato e che passa attraverso le retoriche della condivisione (in realtà noi condividiamo mentre loro, i signori della Silicon Valley fanno profitti – grazie al nostro condividere – con il Big Data e gli analytics, utili sì a monitorare ad esempio gli anziani da casa loro, e saremmo così in una vera economia solidale e sociale, ma che sono soprattutto una risorsa inesauribile per il business come recitava una pubblicità della Ibm con lo slogan: Costruiamo insieme un pianeta più intelligente); e quelle del crowdfunding, del co-working, della peer production, del crowdsourcing, delle social street e delle piccole comunità in rete e delle smart cities. Per un futuro fatto di tante piccole fabbriche personali e un movimento incessante di artigiani digitali che finalmente sostituirà la pessima produzione di massa (secondo il tecno-entusiasta Chris Anderson). Con l’aggravante, però, che in rete arbitro è oggi lo stesso mercato & la rete e lo stato semmai è divenuto ancor più giocatore della squadra del mercato e dell’innovazione tecnica, squadra che gioca contro nessuno perché l’avversario (come l’arbitro) ha abbandonato il campo da tempo. L’ordoliberalismo convola così a nozze con il neoliberismo austro-americano e con l’anarco-capitalismo della Silicon Valley; l’anti-monopolista ordoliberale si allea con gli oligopolisti neoliberisti e con il capitalismo delle piattaforme; la concorrenza vale solo per il nuovo proletariato digitale sempre più uberizzato (e sempre più individualizzato, quindi impossibilitato a costruire una propria coscienza di classe o di cittadinanza o di uscita dalla minorità) ma non per gli oligarchi del silicio e per gli imprenditori della quarta rivoluzione industriale. Tutti liberali – meglio: capitalisti – che agiscono su fronti diversi ma, appunto, convergenti tra loro nel costruire un ordine tecnico e capitalista apparentemente libertario e liberamente condiviso, in realtà potentemente biopolitico e religioso, integrante e omologante (ciascuno liberamente servile), economico e normativo-normante, destrutturante (la società e la democrazia) per strutturare meglio l’apparato. Per cui siamo tutti imprenditori, tutti capitalisti, tutti tecno-entusiasti, tutti connessi, tutti al lavoro nella grande fabbrica digitale globalizzata del tecno-capitalismo (anche se in forma individualizzata).

Dunque: moriremo ordoliberali – anche se entusiasticamente 2.0?

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per approfondire si consiglia anche ORDOLIBERISMO E EURO: LA LUNGA MARCIA DELLA RESTAURAZIONE (Post Fondamentale di Luciano Barra Caracciolo) 

dal sito scenarieconomici.it

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