Fonte: libertaegiustizia.it
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LORO DIRANNO, NOI DICIAMO – di GUSTAVO ZAGREBELSKY e FRANCESCO PALLANTE – ed. LATERZA
di Giulia Marzia Locati
«Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva fin dove non trova limiti (…). Perché non si possa abusare del potere occorre che (…) il potere arresti il potere». Montesquieu, Lo spirito delle Leggi.
È nelle librerie “Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle riforme istituzionali” (edizioni Laterza), agile saggio, già alla secondo ristampa, scritto a quattro mani da Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, e Francesco Pallante, professore di diritto costituzionale presso l’Università di Torino.
Il libro è diviso in quattro parti: nella prima vengono analizzati gli argomenti che i sostenitori della riforma costituzionale pongono alla base della stessa e, per ognuno, viene fornita una riposta alternativa; la seconda è rappresentata da un parere che Zagrebelsky inviò al ministro Boschi sulla riforma e sulla possibilità di intervenire in modo diverso sulla Carta costituzionale; nella terza parte gli autori illustrano nello specifico sia la legge elettorale che il testo di riforma costituzionale, quest’ultimo poi analizzato articolo per articolo (attraverso un raffronto comparato tra vecchio e nuovo testo) nella quarta ed ultima parte.
Il merito principale del presente saggio è quello di andare al di là della retorica dominante di entrambe le parti e di affrontare, con tecnicità ma anche con straordinaria chiarezza e lucidità, tutti gli argomenti che vengono utilizzati dai sostenitori della riforma, per rendere evidente le contradizioni e la superficialità dei ragionamenti che spesso vengono fatti sulla riforma.
E così, ad esempio, si mette in primis in luce che non tutti gli italiani aspettano da anni la riforma della Costituzione, ma solo una parte di essi, ossia coloro che si pongono come obiettivo quello di spostare il baricentro del potere a favore del Governo.
Si sfata poi il mito della celebre litania del «ce lo chiede l’Europa», dimostrando come non sia un valido argomento, ma un semplice pretesto. Questa dovrebbe essere, al contrario, l’occasione per riflettere sul tipo di Europa che siamo costruendo e per «liberarci dalle costrizioni della finanza e della speculazione finanziaria».
Si sottolinea anche che la parola governabilità è ambigua in quanto, stante il significato passivo che rimanda al «farsi docilmente governare» non risponde alla domanda «da chi», e che dunque sarebbe auspicabile utilizzare la parola Governo, che in democrazia presuppone «idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno».
Gli autori non hanno remore nel ricordare che il Parlamento che ha approvato questa legge di revisione costituzionale è stato eletto con una legge dichiarata incostituzionale per aver «rotto il rapporto di rappresentanza», ma che, nonostante ciò, ha avuto la presunzione di cercare di riformare il fondamento della convivenza civile, appunto la Carta costituzionale. In quest’ottica, quello che è stato descritto come atto d’orgoglio dei parlamentari capaci di autoriformarsi, viene ricondotto ad una forma di «arroganza dell’Esecutivo», che ha portato a sostituire l’idea di Costituzione come «patto sociale di garanzia e convivenza» a «strumento e armatura del proprio potere», rovesciando la piramide democratica e rimpiazzando la democrazia partecipativa con una «oligarchia riservata».
Un altro leitmotiv dei sostenitori della riforma è il richiamo alla volontà dei partiti della sinistra, che già dagli anni ottanta avevano criticato il bicameralismo perfetto (si pensi ai volantini diffusi con le foto e frasi di Ingrao e Berlinguer, volantini che hanno causato diverse polemiche e la presa di posizione delle relative famiglie): ebbene anche in questo caso Zagrebelsky e Pallante vedono le cose da una diversa prospettiva, contestualizzando le frasi richiamate dai sostenitori della riforma e ricordando che all’epoca la semplificazione delle istituzioni parlamentari era finalizzata a dare più forza alla rappresentanza democratica attraverso la «centralità del Parlamento» e non, come oggi, al consolidamento dell’Esecutivo attraverso la marginalizzazione della rappresentanza perché portatrice di autonome istanze democratiche.
L’effetto di questa riforma, che nella visione degli autori non può che essere letta parallelamente alla legge elettorale (cd Italicum), è «l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’Esecutivo» e la vittoria della «banale e pericolosa concezione della democrazia che si esprime nella formula: ho i voti, dunque posso». A ciò si aggiunga che, per le modalità plebiscitarie con cui i partiti politici stanno affrontando la campagna referendaria, quello che è sempre stato inteso come un «patto solenne che unisce un popolo sovrano» sta di fatto dividendo quello stesso popolo.
Dopo aver riflettuto sugli argomenti innanzi illustrati, nella terza e nella quarta parte del saggio gli autori analizzano nello specifico sia il testo della legge elettorale che quello di revisione costituzionale, mettendo in evidenza innanzitutto le anomalie di metodo con cui gli stessi sono stati adottati: e infatti gli emendamenti dell’Italicum non sono mai stati discussi in Commissione, né alla Camera né al Senato; la discussione al Senato è stata fortemente condizionata dall’approvazione dell’emendamento noto come “super canguro” che, «anteponendo al testo del progetto un articolo avente contenuto non normativo, ma dichiarativo del contenuto degli articoli successivi, ha fatto decadere tutti gli emendamenti ancorati agli articoli successivi»; i deputati dissenzienti del Partito democratico sono stati sostituititi nella Commissione Affari costituzionali per la sola discussione della legge elettorale, considerando in questo modo decaduti automaticamente tutti gli emendamenti che erano stati dagli stessi presentati; sulla votazione finale articolo per articolo è stata posta la fiducia, con ciò violando l’art. 116, quarto comma, del Regolamento della Camera, e ponendosi in continuità con le uniche altre due leggi elettorali sulle quali era stata posta la questione di fiducia, la legge Acerbo e la legge “truffa”.
Per quanto riguarda poi la legge di revisione costituzionale, viene sottolineata l’incompatibilità con il principio del costituzionalismo dell’iniziativa governativa della riforma costituzionale, atteso che la Costituzione può fungere da limite per il potere – ed in particolare per quello governativo – nella misura in cui tale limite sia esterno, eteronomo, e non posto dallo stesso soggetto che dovrebbe soggiacervi. Anche in questo caso sono stati adottati strumenti di riduzione della discussione, come la sostituzione dei componenti della Commissione Affari costituzionali del Senato perché portatori di posizioni difformi, la riduzione degli emendamenti con l’applicazione del “canguro”, il contingentamento dei tempi di discussione (“tagliola”). A ciò si aggiunga la mancata discussione in Commissione degli articoli del ddl.
Gli autori evidenziano poi delle anomalie “di merito” delle leggi, come il carattere eccessivo del premio di maggioranza o gli esiti assurdi a cui porterebbe la legge elettorale in alcuni casi, come ad esempio se due liste ottenessero il 40% dei voti (come accadde all’elezione del 2006) e avessero dunque diritto entrambe al premio di maggioranza. Accanto a ciò c’è la trasformazione di fatto del sistema di Governo da Parlamentare in Presidenziale (o, meglio, in quello che Leopoldo Elia definì premierato assoluto), che attraverso l’indicazione preventiva del candidato premier (art. 2, comma 8, Italicum) trasforma l’elezione del Parlamento anche in elezione del Presidente del Consiglio, in violazione dell’art. 92, comma 8, Cost.
Per quanto attiene poi alla riforma costituzionale, tra i diversi profili analizzati (la composizione del Senato, la diversificazione dei procedimenti legislativi, lo Statuto delle Opposizioni) quello più rilevante attiene alla marginalizzazione del ruolo delle opposizioni nella scelta degli organi di garanzia, come l’elezione del Presidente della Repubblica, l’elezione di un terzo dei membri del Consiglio superiore della magistratura, l’elezione dei Giudici della Corte costituzionale, la dichiarazione di guerra e l’approvazione delle leggi di amnistia ed indulto. Infatti la riduzione del numero dei senatori e la legge elettorale iper–maggioritaria determinano un aumento del potere della maggioranza; a ciò si aggiunga che per l’elezione del Presidente della Repubblica dal settimo scrutinio in poi si fa riferimento ai votanti, anziché ai presenti, con ciò «agevolando tatticismi parlamentari volti ad abbassare ulteriormente il quorum di elezione».
In questo quadro, ciò che più desta preoccupazione è il combinato disposto di queste due riforme, che partono dall’idea del sacrificio necessario dei valori del dialogo, della tutela del dissenso e delle minoranze, dell’importanza delle diverse componenti sociali, tutti sacrificati sull’altare della stabilità, della governabilità e della velocità della decisione, con buona pace della prima parte della Costituzione ed in particolare del principio di uguaglianza sostanziale.
Tale cambiamento, epocale, è avvenuto procedendo non attraverso un atteggiamento inclusivo, volto alla ricerca di punti di contatto tra le diverse parti presenti in Parlamento, ma in un clima da “conta finale”, in cui l’argomento dell’avversario non è mai stato preso in considerazione.
Accanto a questa pars destruens, vi è una lunga pars costruens, rappresentata dal parere inviato da Zagrebelsky al ministro Boschi, parere che non ha mai ricevuto risposta.
Stante l’impossibilità in queste brevi riflessioni di illustrare le numerose proposte di Zagrebelsky (per le quali si rimanda alla lettura del libro), mi pare utile soffermarsi su una questione particolare, ossia quella relativa alle ragioni del bicameralismo, che è indice del fatto che probabilmente molte questioni sottese alla riforma non sono state affrontate con la dovuta profondità.
L’autore rileva infatti che nella storia i senati hanno rappresentato o esigenze federali rispetto allo Stato centrale (ad esempio il sistema tedesco) ovvero ragioni conservative rispetto alla camera elettiva e alle sue mutevoli maggioranze (ad esempio il sistema inglese) e propone di prendere atto della natura non federale del nostro Stato e di provare dunque ad immaginare un Senato che sia posto a tutela di ragioni conservative, non rispetto al passato (come era appunto la camera dei Lord inglese) ma rispetto «alle ragioni di opportunità per il futuro», per evitare in sostanza la dissipazione delle risorse pubbliche, materiali e immateriali, a causa della brevità dei governi democratici, che devono sottostare a scadenze elettorali. Tale obiettivo potrebbe essere raggiunto prevedendo l’elezione di membri del Senato «per una durata adeguata, superiore a quella ordinaria della Camera dei deputati, e con la regola della non rieleggibilità». Un Senato, in sostanza, che sia posto a presidio dell’ambiente, del patrimonio artistico e culturale, e di tutti quei beni che dovremmo conservare per le prossime generazioni e che invece la politica non riesce adeguatamente a tutelare.
Se si avesse avuto meno fretta, se si fosse ragionato maggiormente sui problemi posti dalle disposizioni che via via si cercavano di riformare, se si fosse prestata maggior attenzione alle opinioni di quanti sottolineavano i passaggi problematici della riforma, probabilmente ne sarebbe scaturito un risultato migliore. Se si fosse stati meno superficiali, si sarebbero analizzati a fondo i problemi, trovando soluzioni nuove a problemi che da tempo affliggono la nostra società.
Il metodo adottato non ha invece consentito questo tipo di dialogo e ha contribuito a collocare la Costituzione non al di fuori del contingente, ma dentro lo stesso, con ciò portando la Carta a non essere più lo strumento che rende possibile il confronto tra forze politiche, senza che questo degeneri in scontro a tutto campo.
«Se tutto, anche la Costituzione, diventa oggetto di contesa continua, a venir messo a repentaglio è – al contrario di quel che sempre affermano i sostenitori della riforma – proprio quel residuo di stabilità istituzionale che ancora ci resta».
(*) L’autrice è giudice del lavoro del Tribunale di Milano
1 commento
Mi sembra che il pensiero espresso nella citazione da “Lo spirito delle Leggi” di Montesquieu si sia rivelato ormai da tempo una sciocchezza. La divisione dei Poteri non argina l’abuso di potere. I Poteri, difatti, si attraggono e sanno come accordarsi. A mio avviso, il più efficace freno all’esercizio del potere è dato, invece, dal costante controllo su di esso da parte di cittadini consapevoli dei loro diritti ed in grado di farli valere in ogni occasione. Un popolo istruito, attrezzato intellettualmente, oltre che unito e solidale, rappresenta il più efficace argine alla formazione di “caste” arroganti e inamovibili.