di Alfredo Morganti – 21 febbraio 2017
Diciamolo che prima o poi la storia salda il conto. Che non si può più far finta di nulla, anche perché le ferite diventano sempre più gravi e profonde. Che se la base sociale si muove in un senso e tu in un altro, prima o poi scatta il movimento tellurico che sbriciola tutto. Era da tempo che arrivavano segnali, ultimo quello del referendum. Era da tempo che crescevano il disagio, la paura, il pessimismo, che la sofferenza sociale saliva di intensità, che i numeri della disoccupazione indicavano un crisi forte, tempestosa, che i giovani parlavano ormai solo il linguaggio della precarietà, a parte i pochi eccellenti che vincono da soli, senza bisogno della società. Era da tempo che la politica sembrava (e sembra ancora) inadeguata a rispondere a queste domande, forte soltanto di risposte inattuali, fuori fase, falsamente ottimistiche, tutte mediali, quasi da saltimbanchi. Era da tempo che il PD era da rifondare, ben prima del referendum, ben prima del renzismo, in quanto strumento inadeguato anch’esso a dare risposte efficaci, all’altezza della crisi e della fase.
Rifondare in un congresso vero, aprendo una fase costituente. L’impressione, oggi, è quella di un partito verticistico, incapace ad aderire ai bisogni sociali, tutto politico, tutto mediatico, ridotta alla punta dell’iceberg, ma senza alcun corpo sotto il pelo del mare. Un partito fuori tempo, fuori fase, tutto spalmato sulla superficie, incapace di ascoltare le voci profonde. Le cui risposte in questi ultimi tre anni sono state ridicole, se rapportate ai tempi e agli esiti che hanno prodotto, a fronte delle risorse pubbliche (e delle tante chiacchiere) spese. Pensate al jobs act. Il nulla di nulla, se non sgravi miliardari a buffo, se non indennizzi a fronte della licenziabilità, se non posti di lavoro drenati verso le categorie anagrafiche più alte, a partire dai 55enni, se non la disoccupazione giovanile più alta di sempre. Risposte fasulle per domande reali, stringenti, insuperabili.
Diciamolo, allora. La vera scissione già c’è stata col referendum. Che ha assunto un peso simbolico rilevante, e non è stato solo un ‘no’ contro uno sciocco e personale progetto di riforma, ma un grido di allarme lanciato da milioni di persone. Un’onda tellurica, appunto. Quel 4 dicembre è finita una fase e ne è cominciata un’altra. Tutti lo hanno visto, meno Renzi e la sua classe dirigente. Per il segretario del PD non è cambiato nulla, anzi, lui è ancor più convinto delle proprie ragioni, ne sono certo. È un politico monocorde, in fondo, che ripete sempre la stessa solfa, inadeguata tre anni fa, micidiale oggi. Non è un ‘suicidio’ come ripetono tutti. È un omicidio, compiuto da milioni di cittadini verso un arnese partitico che a queste condizioni non serve, che è stato costruito su una piattaforma politico-sociale vecchia, clintoniana, blairiana, roba di venti anni fa, quando ancora giravano due soldi e si gonfiavano a dismisura le ‘bolle’ esplose successivamente sui nostri volti.
La scissione racconta che è cambiata la fase e che finalmente ce ne siamo accorti anche noi. Che è finito il tempo delle mele ed iniziato quello del disincanto e della ragione. Che la nuova forza democratica deve nascere su un’altra piattaforma, sulla tragedia sociale, non sulle favolette delle eccellenze e delle start up. Che alla ‘scissione’ sociale si deve rispondere con una ‘scissione’ politica consapevole e all’altezza. Che si deve parlare ai cittadini con il cuore in mano e con onestà intellettuale, piuttosto che fare di scherma con chi è malato di politicismo e tatticismo. Che si tratta di partire, perché gli altri verranno se le risposte saranno adeguate. Perché in tempi di paura non bisogna aver paura. La politica nasce per dare risposte alla società, unire, tendere una mano ai disagiati, progettare una società più giusta, non per finire nei retroscena.