Fonte: facebook
di Alfredo Morganti – 1 dicembre 2014
Il percorso è: dalla sociologia e dalla comunicazione alla politica-politica. Questo è il senso dell’intervista di D’Alema al Corsera di sabato (andate a leggerla, anche se non sarete d’accordo sarà una buona lettura). Una sorta di ritorno alla politica come presa globale sul mondo e sulla realtà, che oggi, sotto i colpi dei blogger e dell’ideologia, sembra scomparsa. Che dice D’Alema? Che ci vuole più Stato, non meno. Perché un bel dimagrimento pubblico si è già avuto, una bella dose di flessibilità è già stata somministrata a suo tempo, venti anni fa (e forse a quote troppo massicce, aggiunge). Cita pure il Clinton di tre anni fa, che riconosce buon ultimo di aver sottovalutato il ruolo e i compiti dello Stato, sopravvalutando viceversa la globalizzazione, della quale oggi cogliamo purtroppo il lato oscuro, mentre prima ne rivendicava anche la sinistra le ‘magnifiche sorti e progressive’. Spiega, D’Alema, che il fior fiore degli economisti oggi spinge in tutt’altra direzione. La Mazzuccato esplicitamente riconosce lo Stato come ‘forza propulsiva dello sviluppo’, come motore dell’innovazione (un ruolo che ha sempre svolto in questi anni senza alcun riconoscimento come tale). Altro che ‘spazi infiniti’, ‘globali’ et similia: guai a confondere taluni aspetti o epifenomeni dei processi in corso come se si trattasse della effettiva sostanza storica. Che oggi deve essere una riconsiderazione dello Stato, della sua forza innovativa, del suo ruolo ridistributore e riequilibratore della ricchezze e delle opportunità. Senza lo Stato, senza la ‘politica’ dello Stato la flessibilità cresce a dismisura e la frattura tra ricchi e poveri si allarga sino a un punto di intollerabilità finale, che mette a rischio la coesione sociale, ben più che la ricchezza individuale.
D’Alema riconosce esplicitamente che la crisi ha origine dalla “debolezza della politica e dell’azione pubblica”. E che se ne esce solo con “politiche in grado di promuovere gli investimenti anche pubblici. Altro che meno Stato”. Il problema è “il crollo dei consumi europei che deriva da un impoverimento delle classi medie e del mondo del lavoro”. E non serve intervenire ancora sul mercato del lavoro, se non a tentare di restringerne l’esagerata flessibilità con il contratto unico a tutele crescenti. Anche perché questo mercato, dati Ocse, “è più flessibile in Italia che in Germania e Francia”. C’è poco da fare, dunque. È l’impoverimento a ingenerare il crollo dei mercati e quindi la crisi. È l’abisso che separa i ceti più ricchi da quelli più disagiati a mortificare la società e i consumi. Che c’entra l’articolo 18, dunque? Nulla. Se è vero che è lo Stato il possibile propulsore di sviluppo, concentriamoci invece sul suo adeguamento, riformiamo le amministrazioni e le istituzioni pubbliche. Ecco una possibile leva egualitaria. Ma per riformare, dico io, servono risorse, soldi, non esistono le riforme a costo zero, così come i pasti gratis d’altronde. Non si tratta di tagliare ma di trovare risorse per investire sulla riforma della macchina: non sfrondare rami con cazzatelle buone per gli spot del politico frettoloso, ma irrobustire i tronchi. Abbiamo destinato 20 miliardi di euro (10 più 10) a risollevare consumi che non si risollevano, distribuendo soldi alla cieca, quando avremmo potuto puntare tutto sul rinnovamento effettivo degli apparati pubblici e della politica, potenziando il ruolo innovatore dello Stato stesso, come spiega la Mazzuccato (e andatevelo a leggere una buona volta questo libro, invece di farvi suggestionare dai sociologi o dagli imbonitori della comunicazione).
[La politica, dunque. Che è la sola cosa per cui un uomo politico è chiamato a rappresentare milioni di persone. Capisco che buttarla lì in caciara, dire ‘onore e disciplina’ (senza nemmeno valutarne le conseguenze) è più facile che piegare la testa sulla annosa riforma dello Stato. Ma questa maggiore facilità non esime dal fare le cose che dovrebbero esser fatte davvero. Quando la comunicazione surroga la politica (e quest’ultima si riduce a quella) le riunioni di Gabinetto diventano così: “amici, allora domani che ci inventiamo? Guardate che l’economia non è un granché, e nemmeno migliorerà nei prossimi mesi, quindi, mi raccomando tocca inventarci qualcosa, soprattutto perché scendo nei sondaggi, e non mi dite la cazzata che dovrei davvero mettere mano all’apparato pubblico per potenziare lo Stato: quando? Come? Con quali soldi? Tutte cazzate. Si fa prima a tagliare. Tanto chi le capisce le cose come stanno davvero, le gente meno che mai. Chiamatemi Giovanni, Giovanni? Due slides per domani me le fai? Che so, tipo: Cambio l’Italia? No? Dici che l’abbiamo fatto? e Cambiaverso? Anche? E ‘Cambiatutto’, buono no? Originale. Dici che ci devi pensare, ok, pensaci in 20 secondi, non impaludarti. Io intanto lancio una decina di grandi riforme e domani vado sui giornali per un selfie col Papa, che ne dite? È andata! Chiamatemi la Santa Sede che domani faccio una scappatina in Vaticano e ci scappa pure il selfie con piazza luminosa sullo sfondo! Mi metto in camicia bianca e raddoppio la veste del Papa, una specie di metafora in atto. Che dice il meteo, non è che piove, che la piazza mi diventa triste e non è spendibile in termini ottimistici? Ma vi rendete conto: finisco in prima pagina, finisco. Altro che riforma dello Stato: a me nella palude non mi ci mettono, a me a studiare non mi fregano, io faccio cose smart sennò chiamassero D’Alema, o Bersani, o Fassina. Pure la Bindi, tiè. E se qualcuno rompe, minaccio le dimissioni e il ritorno dei ‘rottamati’, guardate se non ne sono capace, eh? Tsk”.]