Fonte: sinistrainrete.info
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di Leonardo Mazzei 27 aprile 2015
Solo negli ultimi 4 anni il debito pubblico italiano è salito di 16,95 miliardi di euro per le scommesse perse sui contratti derivati compiute dal Ministero dell’Economia nelle bische del capitalismo-casinò. C’è di peggio: le perdite future sono ad oggi calcolate in 42,06 miliardi (fonte: il Sole 24 Ore). Perché queste scommesse? Perché queste perdite? Chi sono gli scommettitori? Qual è il volto dei biscazzieri?
Spesso si parla dello Stato biscazziere, colui che gestisce il gioco d’azzardo nazionale traendone benefici economici non piccoli. Ma c’è anche un altro Stato, quello che nella bisca ci va come un giocatore qualunque per farsi spennare dal biscazziere di turno. In questo caso la bisca è quella globale del capitalismo-casinò, mentre il biscazziere è normalmente un signore ben vestito che rappresenta gli interessi di qualche grande banca d’affari, solitamente americana.
In queste bische non si va per giocarsi qualche spicciolo, ma per concludere affari miliardari, con la firma di contratti derivati. Ora, cos’è un derivato? Come dice la parola, il derivato è un prodotto finanziario il cui prezzo deriva dal valore di qualcos’altro, il cosiddetto “sottostante”. La sottoscrizione di un derivato altro non è che l’accettazione di una scommessa sull’andamento di quest’ultimo.
Il sottostante può essere il prezzo di una materia prima, un tasso di interesse, un indice azionario, valutario od obbligazionario, ma può essere anche un mix di tutto ciò. L’importante è capire che il derivato è una scommessa. Ora, anche lo scommettitore che va alla Snai sa che ci sono scommesse che possono “coprire” altre scommesse fatte dallo stesso soggetto, ma evidentemente ritenute troppo rischiose. Ecco perché il derivato ci viene anche presentato (specie dai non certo disinteressati “addetti ai lavori”) come un’assicurazione su altri rischi facenti capo al soggetto in questione.
Questo in generale. Ma c’è una notizia clamorosa che ci chiede di entrare nel particolare. Lo scoop è del Sole 24 Ore (Claudio Gatti – “Il debito-monstre e la vera storia dei derivati italiani“) e la portata delle perdite per lo Stato italiano è enorme.
Che lo Stato avesse sottoscritto dei derivati già si sapeva. E si sapeva anche delle perdite. Era noto, ad esempio, che nel gennaio 2012, cercando di non dare troppo nell’occhio, il MEF (Ministero Economia e Finanza) aveva dovuto versare a Morgan Stanley la cifretta di 3,1 miliardi di euro.
Quel che non era noto, e che l’inchiesta del Sole porta alla luce, è il totale delle perdite che si annunciano, quantificabile ad oggi in 42,06 miliardi di euro. Questo per il futuro secondo l’articolo di Gatti, ma ieri (25 aprile) il quotidiano di Confindustria torna sull’argomento con un pezzo di Morya Longo che ci dice che le perdite reali già subite nel quadriennio 2011-2014 ammontano a 16,9 miliardi, e che «se non avessimo avuto i derivati nel 2014 il debito pubblico sarebbe stato di 5,5 miliardi più basso».
Capito che capolavoro? Per la cronaca 16,9 miliardi sono più di 10 volte (dieci) lo sbandierato “tesoretto” che l’imbroglione di Firenze si prepara a giocarsi in qualche modo in campagna elettorale. Mentre, giusto per fare un esempio, con i 42 miliardi che verranno persi si finanzierebbero per 6 anni (sei) tutte le forme di cassa integrazione.
Se l’entità della cosa sta tutta in questi numeri, cerchiamo ora di rispondere ad alcune domande. Perché queste scommesse? Perché queste perdite? Chi sono gli scommettitori? Qual è il volto dei biscazzieri?
Perché queste scommesse?
Naturalmente al MEF non si parla di scommesse, ma di “assicurazioni”. La sostanza però non cambia. Su cosa ha scommesso il governo italiano (in realtà diversi governi italiani, anche se le date esatte di sottoscrizione sono segrete)? Essi avevano scommesso sul fatto che i tassi di interesse dei titoli del debito pubblico sarebbero aumentati. O, se preferite, si erano assicurati rispetto al verificarsi di tale evenienza. Da quel che emerge dall’inchiesta del Sole il grosso di queste operazioni sarebbe stato realizzato alla fine degli anni ’90, cioè al momento dell’ingresso nell’euro.
La cosa è piuttosto paradossale, dato che in quel momento tutti prevedevano quel che è effettivamente avvenuto in seguito, e cioè un calo dei tassi. Poi, ma dieci anni dopo, è scoppiata la crisi del debito, ma certo questa non era allora prevedibile. Comunque, nonostante i picchi dei tassi raggiunti nel 2011-2012, la scommessa rimane largamente in perdita.
Ora, i casi sono due: o coloro che hanno sottoscritto i derivati erano i primi a non credere nella bontà dell’euro – e già questo sarebbe un fatto interessante, qualora avessero la gentilezza di confessarlo -, oppure si tratta di un caso piuttosto plateale di “intelligenza col nemico”. Il quale, è bene ricordarlo, quelle improvvide scommesse italiane le ha vinte alla grande. Perché la perdita delle decine di miliardi da parte dello Stato, corrisponde ovviamente ad un uguale guadagno dei pescecani della finanza internazionale.
Perché queste perdite?
Abbiamo detto che le perdite sono la conseguenza del calo dei tassi di interesse. Ma in realtà esiste anche un altro motivo. Per ragioni piuttosto oscure, il governo italiano ha ceduto alle controparti – per quel che se ne sa le solite banche d’affari americane – diverse swaption, cioè opzioni di chiusura anticipata del derivato. In questo modo – il Sole cita in particolare il caso di tre derivati sottoscritti con Morgan Stanley – la banca americana ha acquistato il diritto di entrare in swap (cambio) ben prima della scadenza prevista, assicurandosi un lasso temporale lunghissimo (si parla addirittura di decenni) in cui scegliere il momento più vantaggioso per chiudere a proprio favore il contratto. Un po’ come se uno scommettitore sul campionato di calcio avesse la possibilità di chiudere la scommessa non appena la squadra su cui ha puntato venisse a trovarsi, magari per una sola giornata, in testa alla classifica.
Perché una mossa così sconsiderata? Gatti ipotizza che i tecnici del ministero dell’economia lo abbiano fatto per realizzare un’entrata immediata (la swaption ha naturalmente un prezzo), a fronte di una probabile perdita comunque diluita nel tempo. Ma il fatto è che le cifre incassate sono nell’ordine di poche centinaia di milioni, mentre le perdite si misurano in diverse decine di miliardi di euro.
Dunque, è assai probabile che ci sia dell’altro. Non solo non si può escludere l’ipotesi della corruzione, ma esiste anche la possibilità che con questi contratti si sia voluto favorire dei soggetti economici ben precisi, magari anche in base a pressioni politiche d’oltreoceano.
L’articolista sottolinea poi un altro aspetto: cosa c’entra la vendita delle swaption con i concetti di “copertura” ed “assicurazione”? Ovviamente nulla, anzi egli dice: «Per lo Stato vendere una swaption significa infatti far cassa acquisendo rischi potenzialmente illimitati, l’esatto contrario della copertura».
Chi sono gli scommettitori?
Di fronte ad una voragine nei conti pubblici come questa, ci si aspetterebbe almeno di sapere chi sono i responsabili di un simile disastro, chi è che può decidere di scommesse arrischiate che valgono più di un’intera Legge Finanziaria. Ma, ovviamente, nulla di tutto ciò è all’orizzonte. La responsabilità politica, a volte chiamata in causa anche per questioni davvero piccole, in questo caso sembra non esistere. Nell’omertà assoluta del governo e del ministero interessato, si lascia comunque intendere che la scelta di ricorrere ai derivati sarebbe stata presa soltanto a livello “tecnico” e non politico. Che qualcuno possa davvero credere ad una simile panzana è un altro discorso, ma questa è la tesi ufficiale.
Sta di fatto che, nel febbraio scorso, è stata Maria Cannata (responsabile della gestione del debito presso il MEF) a riferire sulla questione alla Camera dei deputati. Cannata, e non Padoan o Renzi come sembrerebbe naturale a qualsiasi cittadino, altro non fosse che per l’ingente mole di derivati posseduti dal Tesoro, quantificata dalla Cannata stessa in 163 miliardi di euro.
Ecco cosa ha scritto in proposito Claudio Gatti: «Il MEF ci ha spiegato che i gestori del debito pubblico rispondono “al direttore generale o al ministro”. Da quando si è firmato l’accordo-quadro con Morgan Stanley a oggi in quei posti si sono succeduti nomi eccellenti – Mario Draghi, Domenico Siniscalco, Vittorio Grilli, Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi, Giulio Tremonti, Tommaso Padoa Schioppa – ma non risulta che nessuno di loro si sia mai fatto carico delle scelte tecniche fatte nella gestione del debito. Risultato: quei 42 miliardi di potenziali perdite non hanno un singolo responsabile politico». E poi si ha il coraggio di parlare di trasparenza… E di democrazia…
In ogni caso, al di là dei nomi, quel che appare grave e significativo è che la perdita della sovranità monetaria costringe di fatto gli Stati alle più spericolate manovre di ingegneria finanziaria. Di più: li costringe a prostrarsi e a mettersi nelle mani dei pescecani della finanza mondiale.
Qual è il volto dei biscazzieri?
Ma chi sono costoro? Su questo punto il Sole fa soltanto il nome di Morgan Stanley, e di certo non verranno dal MEF notizie utili a riguardo. Quel che sappiamo è chi forma, oltre alla banca già citata, il quintetto di testa dei maggiori speculatori sui derivati. Si tratta di JP Morgan, Citigroup, Goldman Sachs e Bank of America.
Se Gatti non fa nomi, la chiusura del suo articolo ci fornisce però un’interessante descrizione dei soggetti fisici impegnati nelle trattative con lo Stato. E lo fa iniziando con la citazione di un avvocato – Roberto Ulissi – già responsabile della Direzione IV del Tesoro:
«“Ma le risorse erano limitate e quando ci si presentava a negoziare in due o tre, dall’altra parte del tavolo si trovavano dieci banchieri assistiti da altrettanti studi legali. E noi eravamo sempre gli stessi a trattare dalla mattina alla notte inoltrata, mentre loro si alternavano mettendo sempre in campo forze fresche”. Inutile dire quanto significativo fosse lo squilibrio nei compensi di chi sedeva attorno al tavolo delle trattative. Da una parte banchieri con bonus che aumentavano a suon di milioni per ogni punto di margine di profitto aggiuntivo strappato, dall’altra funzionari dello stato con stipendi fissi e calmierati».
Insomma, al netto del piagnisteo sui “poveri” dirigenti ministeriali, il quadro è chiaro: da un parte c’è il biscazziere, colui che conduce il gioco, con la quasi assoluta certezza di fare il colpo grosso, dall’altro una politica dello stato demandata a funzionari nel migliore dei casi demotivati, nel peggiore complici e/o corrotti.
Conclusioni
In conclusione questa vicenda ci conferma tre cose.
In primo luogo essa ci parla delle catastrofiche conseguenze della perdita della sovranità monetaria. Uno Stato con moneta sovrana, e dotato di una Banca centrale con compiti di acquirente di ultima istanza dei titoli del debito, fissa lui stesso i tassi di interesse. Altro che scommetterci sopra!
In secondo luogo, ne esce confermata l’insostenibilità di un debito troppo elevato, tanto più se soggetto alle tremende pressioni dei mercati finanziari. Certo, è chiaro come nello specifico i gestori del debito abbiano operato in maniera improvvida e dilettantesca, se non addirittura losca ed asservita ad interessi ben diversi di quelli dello Stato. E, tuttavia, anche questa vicenda ci dimostra la necessità di uscire dalla schiavitù del debito, non solo riconquistando la sovranità monetaria, ma anche cancellandone una parte cospicua, ad iniziare da quella detenuta da banche, fondi di investimento ed assicurazioni estere. Costoro ci hanno già guadagnato fin troppo, e non sarà mai troppo presto quando si porrà fine alla loro speculazione.
In terzo luogo risulta ben chiara la seguente equazione: mancanza di sovranità + schiavitù del debito = morte della democrazia. E’ questa l’equazione degli ultimi anni della storia nazionale, è questa la fotografia del renzismo. E’ questo l’orrido futuro da contrastare con la lotta e l’organizzazione di un movimento politico cosciente ed all’altezza della situazione.
Non è troppo tardi per impedire la catastrofe. Ma il tempo stringe ed è questo il momento dell’azione.