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di Tomaso Montanari La Repubblica, 17 novembre 2014
«Il Paese frana sotto la pioggia e passa la legge che sblocca i cantieri. Il Presidente del Consiglio invece di sostituirsi a giornali e storici nella ricerca di responsabilità, si chieda cosa deve fare il governo. Invece di pensare alle leggi regionali, pensi a quelle che firma lui».
Lascia interdetti lo scaricabarile tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Liguria sulle responsabilità del dissesto del territorio italiano. E non solo perché è indecoroso mettersi a discutere mentre i cittadini e la Protezione civile lottano contro il fango: ma anche perché la questione è troppo maledettamente seria per liquidarla a colpi di dichiarazioni e controdichiarazioni tagliate con l’accetta.
Andrà scritta, prima o poi, la vera storia della cementificazione dell’Italia. Quella storia che oggi ci presenta un conto terribile. Andranno identificati, esaminati, valutati i giorni, le circostanze, i nomi, le leggi nazionali e regionali, i piani casa, i piani regolatori, i condoni, i grumi di interesse che — tra il 1950 e il 2000 — hanno mangiato 5 milioni di ettari di suolo agricolo. E che solo tra il 1995 e il 2006 hanno sigillato un territorio grande poco meno dell’Umbria, in un inarrestabile processo che oggi trasforma in cemento 8 metri quadrati di Italia al secondo: come ci ricorda un prezioso libretto di Domenico Finiguerra.
Per dare un titolo a questa brutta storia, negli anni Settanta Giorgio Bocca, Indro Montanelli e Antonio Cederna parlarono di “rapallizzazione”: perché Rapallo e tutta la Liguria erano il luogo simbolo della distruzione del paesaggio e della deformazione delle città. Per sapere che quella regione non ha cambiato verso, non importa leggersi le statistiche che ci dicono che, tra il 1990 ed il 2005, in Liguria si è massacrato il territorio più che in Calabria e in Campania: basta accendere la televisione. Ma è stato tutto il Nord a pensare che lo sviluppo fosse perfettamente sinonimo di cemento. E continua a pensarlo.
Quando, nel maggio scorso, un cittadino di nome Gabriele Fedrigo ha esposto fuori dalla sua finestra due striscioni con su scritto «Basta cemento» e «Acqua e aria sane», il suo Comune lo ha diffidato, perché avrebbe attentato al decoro urbano. Il comune era Negrar, in Valpolicella: quello che ha dato origine alla parola “negrarizzazione”, che vuole dire «urbanizzazione speculativa, e al di fuori di ogni controllo» (Dizionario Treccani).
È stato l’architetto veronese Arturo Sandrini a coniare questo termine, in un articolo del 1997 in cui invitava a ribellarsi al processo che ha trasformato Negrar, la Valpolicella e tutto il Veneto «quasi in un’unica immensa area urbanizzata, dov’è difficile trovare qualche zona non interessata da quel delirium edilizio, fatto di orridi capannoni prefabbricati, naturalmente uno diverso dall’altro, di ville, villette e villone, ovviamente non quelle venete, che giacciono invece impietosamente abbandonate». Sandrini non era solo. Quando Fedrigo (che non scrive solo slogan, ma ha anche pubblicato il libro di riferimento sulla Negrarizzazione, Speculazione edilizia, agonia delle colline e fuga della bellezza, 2010) è stato diffidato, la Valpolicella si è riempita di identici striscioni. Ne è comparso una perfino sulla villa Serego Alighieri: la residenza che nel 1353 fu comprato dal figlio di Dante, Pietro, e che dopo ventuno generazioni è ancora di proprietà dei discendenti diretti del poeta.
Ma se questa storia diventa esemplare, se si può parlare di una “negrarizzazione” dell’Italia intera, è proprio perché la sua morale risponde in modo concreto alle domande di queste ore: di chi è la colpa? A Negrar non c’è stato un singolo mostro, l’orco speculatore. Né c’era una povertà da cui riscattarsi di colpo. E non c’è stato nemmeno l’abusivismo: non c’è un solo edificio fuori della legge, a Negrar. La Valpolicella aveva una bellezza naturale struggente, aveva la storia, aveva un vino spettacolare: un’economia solida. Ma questo non è bastato: era troppo lento. La speculazione edilizia è come una droga: tutto corre più veloce. E allora una comunità — senza che nessuno la costringesse — ha deciso di eleggere politici disposti a corrompere le leggi, perché le leggi corrotte permettessero di corrompere l’ambiente. Legalmente. Il motto del ventennio berlusconiano — “padroni in casa propria” — è stato applicato nel modo più radicale e devastante: fino a distruggere la casa stessa. E infatti il sinonimo perfetto di “negrarizzazione” è “irresponsabilità”: l’idea bestiale che non importa chi sarà a pagare il conto. Anche se saranno i nostri figli: anzi noi stessi, solo qualche anno — o qualche temporale — dopo. E non siamo usciti da questa storia: basta vedere quante resistenze, e quanto violente, sta incontrando l’ottimo Piano Paesaggistico della Regione Toscana, finalmente vicino all’approvazione.
Allora vorremmo che il Presidente del Consiglio pensasse al futuro, e non al passato. Che invece di sostituirsi ai giornali e agli storici nella ricerca delle responsabilità, egli si chiedesse cosa può e deve fare il suo governo. Che invece di pensare alle leggi regionali, pensasse a quelle che sta firmando lui.
Vezio De Lucia ha spiegato (Nella Città dolente, 2013) che la storia del cemento cominciò davvero quando la Democrazia Cristiana rinnegò Fiorentino Sullo e la sua ottima legge urbanistica, che ci avrebbe lasciato un’Italia diversa. Era il 1963: cinquant’anni dopo il governo di Matteo Renzi fa lo stesso errore, approvando lo Sblocca Italia di Maurizio Lupi, che è una legge fatta per portare a compimento la “negrarizzazione” dell’Italia. Una legge che bisognerebbe avere il coraggio di ripensare radicalmente anche se è appena uscita sulla Gazzetta Ufficiale. Anzi, una legge che bisognerebbe avere il coraggio di rottamare.