Autore originale del testo: Guido Iodice
Fonte: facciamosinistra.blogspot.it
Url fonte: http://facciamosinistra.blogspot.it/2016/10/lincertezza-radicale-e-il-ruolo-dello.html
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di Guido Iodice, per lo speciale di facciamosinistra! 18 ottobre 2016
“E’ un errore comune quello di credere che la burocrazia sia meno flessibile delle imprese private. Può essere così nei dettagli, ma quando devono essere fatti adattamenti su larga scala il controllo centrale è molto più flessibile. Potrebbero essere necessari due mesi per ottenere una risposta ad una lettera da un dipartimento governativo, ma sono necessari 20 anni ad un settore industriale privato per adeguarsi ad un calo della domanda” Joan Robinson.
Mariana Mazzucato è riuscita a trasmettere nel suo libro Lo Stato innovatore una lezione semplice quanto potente: la ricerca (non solo la ricerca di base, ma anche quella applicata, compresa quella rivolta a creare prodotti commerciali) è in molti casi il risultato della spesa pubblica, soprattutto nei settori più all’avanguardia (informatico, ma anche in quello farmaceutico e delle biotecnologie).
E il motivo è chiaro: la ricerca richiede denaro, ma molto spesso fallisce. Gli imprenditori mossi da “spiriti animali” possono decidere di spendere, certo, anche in ricerca, ma molto spesso gli “spiriti animali” non bastano, soprattutto quando non somigliano a quelli delle tigri e dei leoni, ma a quelli degli animali domestici, come una volta Keynes scrisse a Roosevelt. La mano invisibile del mercato (che, come dice Joseph Stiglitz, è invisibile perché non esiste) deve quindi, volenti o nolenti, essere integrata dalla mano visibile dello Stato.
L’imprenditore privato si trova sempre di fronte a scelte, o per meglio dire a scommesse. L’idea degli economisti mainstream è che l’imprenditore “rappresentativo” (ma lo stesso discorso vale per qualsiasi agente economico) massimizzi il profitto, ottimizzando le proprie scelte su un arco temporale virtualmente infinito e che sia in grado di prevedere il futuro e calcolare così i migliori rendimenti. Questi poteri soprannaturali emergono magicamente dalle leggi del mercato, che premierà coloro che faranno le scelte migliori e punirà chi sbaglia.
John Maynard Keynes aveva un’idea del tutto diversa di come funziona l’economia. Un’idea molto più vicina al senso comune, quella capacità dell’uomo della strada di percepire la realtà che tanto fa inorridire gli economisti. Secondo Keynes la radice dell’instabilità del capitalismo è da ricercare nell’incertezza. L’incertezza differisce alquanto dal concetto di rischio a cui sono abituati gli economisti:
“Con il termine ‘conoscenza incerta’, vorrei spiegare, non intendo semplicemente distinguere ciò che è conosciuto con certezza da ciò che è solamente probabile: il gioco della roulette non è soggetto, in questo senso, a incertezza […] la speranza di vita è solo leggermente incerta, e anche il tempo atmosferico è solo moderatamente incerto. Il significato in cui io uso questo termine è quello per cui si può dire che sono incerti la prospettiva di una guerra in Europa, o il prezzo del rame e il tasso di interesse di qui a vent’anni, o l’obsolescenza di una nuova invenzione, o la posizione dei proprietari di ricchezza privata nel sistema sociale del 1970. Su queste cose non c’è alcuna base scientifica su cui poter fondare un qualsivoglia calcolo probabilistico. Noi semplicemente non sappiamo.”
Per Keynes esiste quindi un range di incertezza che va dagli eventi perfettamente certi a quelli totalmente incerti. Le scelte economiche si collocano in genere tra questi due estremi. In questo ambiente di incertezza fondamentale, diventa cruciale la formazione delle aspettative sul futuro. Non potendo essere calcolate probabilisticamente e su basi “razionali” nel senso economico, entrano in gioco i fattori psicologici più vari. Keynes non sostiene che la gente agisca in maniera “irrazionale” nel senso comune del termine, cioè che compia azioni degne di un matto (sebbene l’euforia dei mercati, a volte, non sfigurerebbe in un manicomio). Piuttosto, non potendo prevedere il futuro, altro non possiamo fare che cercare di formarci delle opinioni sulla base del poco che conosciamo e del nostro buon senso. Ma nulla ci assicura di indovinare, né come singoli, né come collettività, né come classe sociale, né come “mercato”. Scrive Keynes:
“Come affrontiamo in queste circostanze [l’incertezza], in modo da salvare la faccia di persone economicamente razionali? Abbiamo studiato allo scopo una varietà di tecniche, di cui le più importanti sono le seguenti tre:
1. Supponiamo che il presente sia una guida molto più utile per il futuro di quanto un esame sincero dell’esperienza passata suggerirebbe. In altre parole, ignoriamo in larga parte la prospettiva di cambiamenti futuri sul cui effettivo carattere non sappiamo nulla.
2. Assumiamo che lo stato attuale delle opinioni, espresso dai prezzi, e il carattere della produzione esistente, si basi su una corretta sintesi delle prospettive future, cosicché possiamo accettare tale stato di opinioni a meno che, e fino a quando, qualcosa di nuovo e rilevante entri in gioco.
3. Sapendo che il nostro giudizio individuale è inutile, ripieghiamo sul giudizio del resto del mondo, che è forse meglio informato di noi. Cioè, ci sforziamo di conformarci al comportamento della maggioranza o la media. La psicologia di una società di individui, ciascuno dei quali si sforza di copiare gli altri, porta a quello che potremmo rigorosamente definire un giudizio convenzionale”
Il terzo punto è particolarmente importante: un mercato così organizzato non può generare automaticamente le decisioni di investimento che sarebbero necessarie a mantenere il pieno impiego, come suppone la teoria classica:
“Si potrebbe supporre che la concorrenza fra esperti operatori professionali, i quali possiedano giudizio e cognizioni superiori a quelle medie degli investitori privati, corregga gli sbandamenti dell’individuo ignorante abbandonato a sé stesso. Si verifica invece che le energie e l’abilità dell’investitore e dello speculatore professionale si esercitano principalmente in altre direzioni. Infatti la maggioranza di queste persone si occupa soprattutto non già di compiere migliori previsioni a lungo termine sul rendimento probabile di un investimento per tutta la durata della sua vita, bensì di prevedere variazioni della base convenzionale di valutazione con un breve anticipo rispetto al grosso pubblico. […] Né si può dire che questo comportamento sia il prodotto di mentalità mal orientata; è un risultato inevitabile di un mercato degli investimenti organizzato secondo le linee suesposte.”
In questo contesto di incertezza, non sempre basta agire sulla leva del tasso di interesse per convincere gli imprenditori ad investire, i risparmiatori a comprare titoli o le banche a concedere prestiti. La mano visibile dello Stato diventa quindi fondamentale: “Vorrei vedere che lo Stato – che è in condizioni di calcolare l’efficienza marginale di beni capitali in base a considerazioni a lunga portata e in vista del vantaggio sociale generale – si assumesse una sempre maggiore responsabilità nell’organizzare direttamente l’investimento”
Quali sono, dunque, le attività che lo Stato dovrebbe controllare, in vista dell’interesse generale? Non è possibile rispondere una volta per tutte, prescindendo dalla situazione concreta. Cosa debba fare il pubblico e cosa il privato è in larga parte una scelta che dipende dal contesto economico, politico, sociale, dal grado di sviluppo del paese, dalla sua cultura, dalla sua storia, dalle sue dimensioni, dalle sue vocazioni naturali, dalla sua cultura imprenditoriale, dalla competizione internazionale, e da tanti altri fattori. La suddivisione tra agenda e non agenda, per usare un’espressione utilizzata da Keynes, non è data una volta per sempre e non è sempre la stessa ovunque. Ad esempio la Corea del Sud ha costruito buona parte delle sue fortune grazie all’incubazione, nello Stato o vicino ad esso, di attività economiche che altrimenti i privati non avrebbero intrapreso, e solo più tardi, e dopo averle adeguatamente protette dalla competizione internazionale attraverso pratiche protezionistiche, ha provveduto a privatizzarle e ad aprire i propri mercati. Così oggi la Cina ha trovato un modus vivendi tra pubblico e privato che spazza via i tanti luoghi comuni sulla preminenza dell’uno o dell’altro. Qui cercheremo di elencare, sulla base dell’esperienza di alcuni paesi, un insieme di attività che più di altre si prestano ad essere condotte dallo Stato. Non sempre è necessario o auspicabile che lo Stato possieda tutte le imprese che svolgono una certa attività; il più delle volte è sufficiente che controlli quella preminente sul mercato, in modo da influenzarlo nella direzione voluta. Inoltre, ce lo confermano gli esempi che faremo, le imprese pubbliche funzionano meglio se agiscono come “corpi autonomi all’interno dello Stato”, evitando di rincorrere il sentimento politico del momento o peggio trasformandosi in puri serbatoi di clientela per l’uomo politico di turno. A volte non c’è neppure bisogno di un controllo diretto di una certa attività economica, e lo Stato può limitarsi (e non è poco!) a delineare una programmazione, intervenendo indirettamente tramite politiche industriali, piani strategici, stimoli e incentivi al settore privato, compartecipazione ai finanziamenti e tutta una gamma di strumenti più o meno “interventisti”, in modo da realizzare quella che Keynes chiamava “una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento”. Il modello che sembra avere più successo è quello in cui lo Stato si occupa di alcune attività, in particolare quelle che costituiscono una precondizione della produzione e dei settori di volta in volta strategici, dettando inoltre con la sua politica economica il quadro generale, mentre lascia ai privati i “dettagli” delle scelte, unendo così i vantaggi della pianificazione centralizzata a quelli dell’economia decentralizzata, cioè del mercato.
Proviamo quindi a stilare un elenco, non esaustivo e sempre emendabile, di ciò di cui lo Stato dovrebbe farsi carico. Della ricerca abbiamo già detto ma è forse opportuno aggiungere un esempio: la Cina. L’Accademia delle Scienze cinese, nonostante il nome, è tutt’altro che un posto dove ci si limita a fare ricerca di base. Al contrario, ha addirittura partorito una vera e propria holding dell’industria tecnologica cinese, chiamata CASH (Chinese Academy of Science Holding, in sigla CASH, che non a caso in inglese vuol dire “contanti”). Dall’Accademia essa è nata la Lenovo, il primo produttore al mondo di computer, che nel 2005 ha comprato il settore di produzione di personal computer da IBM. L’Accademia promuove incubatori tecnologici da cui nascono decine di imprese e di fatto costituisce, insieme alla sua “sorella”, l’Accademia di Ingegneria, una sorta di “infrastruttura” per i piani di modernizzazione tecnologica del paese.
Un’altra attività che non può essere lasciata totalmente al mercato perché estremamente influenzata dall’incertezza è senz’altro il credito. Le banche pubbliche hanno avuto ed hanno ancora, dove presenti, un ruolo centrale nello sviluppo di un paese (e va detto: nel bene e nel male, quando sono gestite in modo inadeguato). La tanto acclamata Germania ha sfruttato nel dopoguerra l’equivalente della nostra Cassa depositi e prestiti, la KfW, per indirizzare l’investimento. Il suo braccio chiamato Förderbank investe in edilizia residenziale e ambiente, promuovendo l’edilizia ecosostenibile e l’uso di pannelli fotovoltaici. Un secondo braccio, la Mittelstandsbank, è invece attivo nel sostegno alla piccola e media impresa, che ha più difficoltà nell’accesso al credito rispetto all’impresa di grandi dimensioni. Infine una sussidiaria della KfW, la IPEX Bank, si occupa di finanziare imprese e progetti legati alle esportazioni, il chiodo fisso dei tedeschi. E così la IPEX finanzia porti, aeroporti, navi, telecomunicazioni, energia e industrie manifatturiere. I tedeschi sanno bene che il liberismo non sempre paga.
La produzione di energia è anch’essa particolarmente prona all’incertezza. Una guerra in Medio Oriente e il conseguente aumento del prezzo del petrolio può causare una crisi in Occidente di grandi proporzioni, come accaduto negli anni ’70. Anche senza arrivare a tanto, l’aumento del prezzo del petrolio negli anni 2000 è una delle cause del passivo nella bilancia commerciale del nostro paese che, al netto dell’energia, è sempre stata in attivo. Con il prezzo dell’energia così volatile, il grado di incertezza nell’economia non può che aumentare. A causa di ciò, dagli anni ’70, i paesi occidentali hanno cercato altre fonti energetiche per sostituire il petrolio. Si può avere qualsiasi opinione sul nucleare, ma il punto è che le politiche industriali volte all’indipendenza energetica hanno molto a che vedere con la volatilità del prezzo delle materie prime. Fu per questo che l’Italia mantenne l’Eni in mano pubbliche e poi nazionalizzò l’energia elettrica con l’Enel. Nazionalizzazione, questa, che trovò in Ugo La Malfa, un fervente liberale, uno dei principali artefici, convinto che un monopolio pubblico fosse comunque preferibile a un monopolio privato e persuaso che il futuro industriale del paese avesse bisogno della mano visibile dello Stato, che si materializzava in quelle che allora venivano chiamate “riforme di struttura” (esattamente speculari alle riforme strutturali di stampo liberista che l’Europa sta perseguendo). In questo quadro, anche la nazionalizzazione dell’acciaio altro non fu che il tentativo di fornire certezze, in termini di disponibilità e di prezzo, sul principale input dell’industria manifatturiera. Lo stesso discorso può estendersi ad altri settori: i trasporti ferroviari, le strade, la mobilità cittadina, le infrastrutture delle telecomunicazioni, l’edilizia popolare. Sono tutti beni “di base” che servono a produrre altri beni, e sui quali i privati spesso non investono perché il ritorno economico è negativo o troppo incerto. E, quando lo fanno, a volte dopo pochi anni di attività, lo Stato deve comunque intervenire in soccorso di imprese in via di fallimento, nazionalizzandole o imponendo un artificioso monopolio legale privato.
Queste merci speciali, alla base di ogni produzione, e che quindi influenzano l’intera struttura economica, non sono solo materiali. L’istruzione e la sanità possono essere viste come beni “di base” senza i quali è difficile immaginare un futuro di ricchezza per qualsiasi paese. Il welfare state, l’istruzione pubblica e tendenzialmente gratuita, le cure per tutti, non sono solo doverosa solidarietà e redistribuzione del reddito. Sono anche il tentativo dello Stato di costruire una prosperità economia più solida, più certa, rispondendo a quei fallimenti del mercato che costituiscono un collo di bottiglia per la crescita dell’economidell’economia e l’aumento della ricchezza nazionale. L’economia mista, l’intervento dello Stato in economia del secondo dopoguerra, non fu il trionfo dello Stato contro il mercato, ma per un’economia di mercato che si coniugasse con l’interesse collettivo, con l’equa distribuzione delle ricchezze e dei redditi, in un percorso stabile di crescita che risentisse il meno possibile delle oscillazioni dovute all’incertezza. Un modello che ha conseguito successi spesso sottovalutati, e che fu emulato anche in Asia e in America latina.
Questo testo è una rielaborazione per lo speciale di facciamosinista! del capitolo “L’incertezza radicale e il ruolo dello Stato” del libro “La battaglia contro l’Europa” di Thomas Fazi e Guido Iodice, Fazi editore 2016.
Guido Iodice ha ideato i quotidiani on-line «Aprileonline.info» e «Rossodisera.info». Di entrambi è stato editorialista e corsivista. Ha scritto e scrive di politica, tecnologia ed economia per diverse testate. Nel 2012, insieme a Daniela Palma, ha dato vita a Keynes blog (www.keynesblog.com). L’ultimo libro che ha scritto è La battaglia contro l’Europa insieme a Thomas Fazi.