Fonte: Nuovo Quotidiano di Puglia
di Guglielmo Forges Davanzati, “Nuovo Quotidiano di Puglia” – 27 aprile 2019
La crisi europea – intesa come incapacità dell’Unione di generare processi di convergenza fra i Paesi membri e, dunque, come crisi soprattutto dei Paesi del Sud (Italia inclusa) – viene interpretata sulla base di due tesi.
1. Si ritiene che la crisi dipenda da eccessivo debito pubblico, a sua volta ricondotto a eccessiva spesa pubblica. Si aggiunge che un elevato debito pubblico è un freno alla crescita. Ciò fondamentalmente per la seguente ragione. Se il debito pubblico aumenta, le famiglie si aspettano un aumento della tassazione futura e, per conseguenza, per pagare tasse in aumento aumentano i risparmi. L’aumento dei risparmi riduce i consumi, la domanda aggregata e il tasso di crescita. In più, l’aumento del debito fa crescere i tassi di interesse, dunque le passività finanziarie delle imprese, disincentivando gli investimenti privati e, anche per questo effetto, riduce la domanda e il tasso di crescita.
Questa è stata per molti anni la visione dominante, sulla base della quale sono state messe in atto politiche di austerità: riduzione della spesa pubblica e aumento della tassazione. Si è cioè ritenuto che, per ridurre il debito pubblico, occorreva ridurre la spesa e mettere ‘in ordine’ i conti pubblici. Come diffusamente dimostrato sul piano teorico ed empirico, tuttavia, e come peraltro riconosciuto da importanti istituzioni internazionali (OCSE in primis), le misure di austerità fanno semmai crescere il rapporto debito/Pil (perché la riduzione della spesa pubblica riduce il denominatore più di quanto riduce il numeratore). Va precisato che le misure di austerità hanno prodotto effetti macroeconomici di segno negativo nei Paesi periferici, nei quali peraltro sono state attuate con la massima intensità, ma hanno sostanzialmente dato buon esito in Germania e nei Paesi satelliti della Germania. Ciò a ragione del fatto che la compressione della domanda interna in quei Paesi ha consentito alle loro economie di ridurre le importazioni e di aumentare le esportazioni. In altri termini, le politiche di austerità, in quelle aree, sono state funzionali a generare un sentiero di crescita trainato dalle esportazioni.
2. Altri economisti ritengono che l’Unione sperimenti un problema di squilibri commerciali, ovvero che – data la diversa struttura produttiva fra Paesi del Nord (Germania e Olanda innanzitutto) e Paesi periferici – questi ultimi fanno registrare sistematici disavanzi delle partite correnti: ovvero importano più di quanto esportano. La tesi fa riferimento a questa sequenza di eventi: i Paesi del Sud Europa sperimentano tassi di inflazione più alti dei Paesi centrali (per effetto della maggiore crescita dei salari monetari rispetto al tasso di crescita della produttività del lavoro); da ciò segue il deterioramento della competitività delle loro esportazioni, dunque minore crescita, minore entrate fiscali, maggiori interessi sui titoli per finanziare il debito e un più alto rapporto debito pubblico/Pil.
L’evidenza empirica sembra smentire questa tesi, almeno per quanto riguarda il confronto Italia-Germania: non si è sempre registrata maggiore inflazione nei Paesi periferici – Italia in questo caso. La minore inflazione nei Paesi periferici – in particolare a partire dal 2012 – è fondamentalmente dovuta a maggiore moderazione salariale, anche a fronte di un più basso tasso di crescita della produttività del lavoro. I più bassi salari nei Paesi del Sud si spiegano con diversi fattori, fra i quali le più accelerate politiche di precarizzazione del lavoro, la più elevata tassazione sul lavoro dipendente, la maggiore restrizione del credito (e dunque i minori investimenti privati) e la maggiore presenza di imprese di piccole dimensioni (di norma, le piccole imprese pagano salari più bassi ai loro dipendenti rispetto alle imprese di più grandi dimensioni).
Va poi rilevato che il dato risente dei divari regionali italiani. L’andamento dei salari al Sud è notevolmente più basso di quello che si registra nelle regioni del Nord, le quali, soprattutto a partire dal 2014 (anno nel quale si avvia una modesta ripresa della crescita in Europa, trainata da un aumento delle esportazioni), sono, in larga misura, strutturalmente legate – attraverso rapporti di subfornitura e catene globali del valore – al grande capitale tedesco e dei Paesi satelliti. Si calcola, a riguardo, che gli indici della produzione industriale di Italia e Germania sono correlati per oltre l’80%, definendo, di fatto, un’area economica pienamente integrata che comprende l’industria tedesca e i distretti produttivi (anche) dell’arco alpino italiano. In tal senso, quella che viene definita crisi dell’Eurozona è semmai crisi dei Paesi periferici e, nel nostro caso, soprattutto del Mezzogiorno. Le imprese italiane più grandi localizzate al Nord hanno tassi di crescita della produttività superiori a quelli delle imprese tedesche e sono legate al capitale del Nord Europa in modo strutturale, configurando l’esistenza di una macroregione alpina nella quale sono presenti le imprese maggiormente innovative e più competitive sui mercati internazionali. Sul piano formale, occorre ricordare che la macroregione alpina esiste dal 2013, a seguito dell’accordo di Grenoble e che, per l’Italia, ne fanno parte la Provincia autonoma di Bolzano, il Friuli Venezia-Giulia, la Ligugia, la Lombardia, il Veneto, il Piemonte, la Valle d’Aosta e la Provincia autonoma di Trento. L’accordo di Grenoble formalizza l’esistenza di un nuovo soggetto istituzionale inter-statale (con Austria, Francia, Germania Liechtenstein e Slovenia) che, per quanto attiene all’Italia, si pone il duplice obiettivo di acquisire maggiori finanziamenti europei soprattutto per il settore della formazione e di rivedere la Costituzione italiana in funzione della creazione di Macroregioni autonome.
Si può, dunque, provare a spiegare la crescita delle divergenze nell’Eurozona facendo riferimento a questi nessi.
a) La maggiore moderazione salariale nell’Europa del Sud genera minore inflazione; la minore inflazione produce riduzione del Pil nominale e un aumento dei tassi di interesse reali sui titoli di Stato, generando crescita del debito/Pil.
b) La maggiore moderazione salariale non ha avuto effetti apprezzabili sulle esportazioni per l’operare di meccanismi di competitività non di prezzo o anche per il cosiddetto effetto Veblen. In altri termini, data la nostra specializzazione produttiva basata su settori tecnologicamente maturi (al netto del residuo comparto dei macchinari, della chimica, farmaceutica e componentistica auto), i prodotti italiani sono acquistati all’estero o per la loro migliore qualità – effettiva o percepita (si pensi ai beni alimentari) – o per il loro prezzo elevato (per i beni di lusso, un prezzo alto è un segnale di esclusività del prodotto).
c) La maggiore moderazione salariale ha drammaticamente ridotto la domanda interna, penalizzando soprattutto la gran parte delle imprese meridionali che vende su mercati locali. Il capitale del Nord ha reagito accelerando la spinta secessionista legandosi alle aree economicamente più dinamiche del continente.
Seguono due conclusioni. In primo luogo, è semmai la maggiore moderazione salariale italiana (non quella tedesca) all’origine del modesto andamento delle nostre esportazioni. In secondo luogo, è la forte moderazione salariale italiana una delle principali cause dell’aumento del nostro debito.
E’ vero che l’architettura istituzionale europea è disegnata in modo da tener bassi i salari, ma è anche vero che la politica economica italiana dei trascorsi decenni (e ben prima dell’adozione dell’euro) ha fatto molto più, molto più incisivamente e molto peggio rispetto a quanto fatto in altri Paesi europei per quanto riguarda le politiche del lavoro. E purtroppo questi processi sono in larga misura irreversibili.