Fonte: La Stampa
L’Italia che cancella la politica industriale
A sei mesi dalle elezioni europee non è in corso in Italia alcun vero dibattito sul futuro del nostro sistema economico. L’interesse per le questioni economiche è limitato al breve o brevissimo periodo e le forze politiche si rivolgono agli elettori con un gran numero di piccole proposte– spesso vere e proprie “mance elettorali” – rivolte a segmenti precisi di elettorato che, se approvate, comporteranno un modesto sostegno ai beneficiari e un aumento non indifferente della spesa pubblica corrente, rendendo più difficile il controllo della spesa e del debito pubblico. Il tutto senza produrre di fatto alcun investimento aggiuntivo.
Le proposte di investimento pubblico, al di là del PNRR – che costituisce un impegno monitorato dall’Unione Europea – sono concentrate sul Ponte sullo Stretto di Messina, la cui realizzazione, secondo gli studi che sono stati effettuati, avrebbe, nel migliore dei casi, un rapporto costi-benefici estremamente incerto, anche perché gran parte delle potenzialità di traffico sarebbero riservate ai trasporti su strada mentre le lentezze del sistema siciliano dei trasporti richiederebbero che un’opera di queste dimensioni venisse coordinata con il parallelo ammodernamento e potenziamento delle ferrovie e delle autostrade siciliane.
Al di là di quest’opera singola, non collegata con altre, c’è pochissimo interesse su come si possa cercare di garantire al Paese una struttura produttiva in grado di consentire di mantenere nei prossimi decenni il posto di rilevanza medio-grande che l’Italia attualmente occupa nell’economia europea e mondiale. E’ necessario alzare lo sguardo, proiettarsi oltre l’oggi e porre l’accento su nuovi investimenti, scegliere una via che permetta un aumento sensibile delle nostre capacità produttive: il loro tasso di crescita negli ultimi 20-25 anni è stato nettamente inferiore rispetto a quello di pressoché tutti gli altri grandi o medi paesi avanzati.
Per uscire da questa situazione di debolezza, è necessario abbandonare la politica dei sussidi a pioggia, che tratta allo stesso modo imprese efficienti e imprese poco efficienti, e concentrare invece le risorse disponibili sulle imprese e sui settori con prospettive migliori in un mondo scosso da rivoluzioni tecnologiche che non possiamo limitarci a subire. È necessaria, in altre parole, quella che una volta veniva chiamata “politica industriale” e che oggi non solo le forze politiche ma anche le associazioni dei lavoratori e quelle delle imprese sembrano aver dimenticato e mandato in soffitta.
Questa dimenticanza è chiaramente visibile nel caso dell’ILVA di Taranto, una struttura portante del nostro sistema industriale. L’lLVA è il principale produttore europeo di acciaio “primario”, ossia ottenuto direttamente dal minerale di ferro, che oggi può – e deve – essere prodotto con metodi “verdi” e successivamente trasformato secondo le esigenze speciali dei settori industriali più vari. Il mantenimento e la messa in regola di questo grande impianto non solo è essenziale per gran numero di imprese del ciclo siderurgico ma appare fondamentale anche per molti settori industriali grandi e piccoli che, in questi anni, hanno fornito un sostegno indispensabile all’economia italiana. Tutto ciò non attira l’interesse che meriterebbe nel dibattito nazionale.
È probabile che sia necessario un intervento massiccio della finanza pubblica – già presente nel capitale della società a cui fa capo l’ILVA – se non altro per far uscire il socio estero Arcelor Mittal, il cui obiettivo sembra essere la chiusura dello stabilimento per favorire altri suoi impianti europei. Quest’intervento pubblico dovrebbe chiaramente essere temporaneo.
In definitiva, l’ILVA di Taranto richiede azioni rapide e cospicue mentre il progetto del Ponte sullo Stretto di Messina ha bisogno di messe a punto importanti. Non intervenire sul primo può comportare la sparizione di molte attività industriali italiane, intervenire troppo rapidamente sul secondo potrebbe voler dire che altre non ne prenderanno il posto.