Lista Tsipras ed elezioni europee. E poi?

per Gian Franco Ferraris

di Gabriele Pastrello

Raramente ho visto scrivere dalla Rossanda (vedi articolo “Tutte le ombre del voto europeo” in questa sezione) un tal cumulo di sciocchezze, ed è veramente insolito, a cominciare dalla frase d’apertura: “ Lo spostamento a destra del Parlamento europeo ha di fatto annullato lo spazio politico per la candidatura di Tsipras a guidare la Commissione UE. Mentre in Italia è fallito l’obiettivo della Lista Tsipras di utilizzare la campagna elettorale come un cantiere per tentare una riunificazione di tutti i frammenti delle sinistre radicali.”

La lista Tsipras e l’Europa

Andiamo con ordine, e cominciamo dalla prima parte della frase. Solo gli sciocchi hanno potuto pensare che Tsipras avrebbe potuto avere spazio per correre per la Presidenza per una, più che improbabile, addirittura impensabile maggioranza autonoma di centrosinistra. Ve l’immaginate l’SPD, che in Germania neppure dialoga con la Linke, fare maggioranza in Europa con la sinistra? Per di più con il PD renziano dentro, per favorire il quale l’identità socialista del gruppo nel parlamento europeo è stato annacquato in Socialisti & Democratici. Così com’era assolutamente improbabile un sorpasso PSE rispetto al PPE. Bastava guardare i dati delle elezioni europee degli ultimi dieci anni, di quelle tedesche dell’anno scorso, le amministrative francesi e inglesi; e l’avanzata dei populismi.

Quello che invece era nell’ambito del possibile era un rapporto politico tra Schulz e Tsipras, anche dall’esterno della maggioranza parlamentare; come si poteva vedere dai reciproci rapporti di non belligeranza pre-elettorali. Rapporto che tuttora potrebbe essere importante per l’uscita dall’austerità. Anzi, sottolineo, l’unico fatto politico che davvero segnerebbe un’uscita. Sarebbe a questo scopo, infatti, cruciale che si formasse una maggioranza PPE e S&D senza i liberali. Ed infatti tutti i movimenti più o meno sotterranei puntano a riportare i liberali dentro una maggioranza da cui i numeri li avrebbero esclusi, perché esiste una maggioranza autonoma PPE e S&D, che potrebbe da sola votare Schulz. Maggioranza che, guarda caso, è stata silurata a urne appena chiuse proprio da Renzi (per la felicità di Schulz, e degli elettori italiani del PD, immagino).

Ma anche questa maggioranza, ancora possibile, per quanto indebolita da Renzi e rimessa in corsa da Tsipras, avrebbe un ruolo che proprio non c’entra nulla con il seguente giudizio della Rossanda: “e siamo già a una diversa interpretazione dei trattati perché il Parlamento europeo vuole essere non solo l’elettore (a maggioranza qualificata), ma l’organismo che propone gli eleggibili, mentre la Germania esige che questo sia il Consiglio degli stati europei”. I Trattati dicono solo che i governi, cui spetta il diritto di proposta, devono ‘tener conto’ degli esiti elettorali. E’ ovvio che su queste formulazioni si possa scatenare la battaglia politica su dove debba cadere l’accento, ma il fatto è che, volenti o nolenti, la partita è a due: Governi e Parlamento. Ora, il punto di partenza, al di là delle chiacchiere, è che il PPE non ha una maggioranza di centrodestra (ovviamente esclusi gli euro-scettici) per far approvare dal Parlamento il candidato del proprio partito. E quindi la partita intorno alla presidenza della Commissione, pur nella complessità degli svolgimenti, ha un solo vero punto di scontro: la Grosse Koalition si farà con i liberali dentro o fuori della maggioranza? Da cui dipenderà il nome del Presidente, e dipenderà come e quanto la Commissione si atteggerà nei confronti del problema dei problemi, l’uscita dall’austerità (ma anche del problema sotterraneo: il rapporto con gli Stati Uniti).

Il voto europeo e la crisi politica

Di fatto è successo qualcosa di più complesso di un semplice spostamento a destra. Anche qui giudizio semplicistico. Sta succedendo una crisi politica di tutti gli assetti dei paesi dell’Unione. La Francia è in pieno collasso. L’Inghilterra potrebbe diventarlo a breve. In Italia facciamo finta di aver trovato la bacchetta magica, ma con il 40% di astenuti e con più del 50% dei restanti (quindi più del 30% del totale) tra Grillo e il centrodestra (per quanto frantumato) mi pare che la crisi politica del sistema sia in pieno svolgimento. La base del sistema politico è ristretta tra il 25 e il 30% dell’elettorato. Cosa ci sia da esultare, per la stampa benpensante, lo sa solo Dio. E’ vero che il pericolo Grillo era una bufala per gonzi (tra cui tanti elettori di SEL, chissà perché?), ma lo scollamento di massa dell’elettorato è ancora in corso. Quello che è successo è che il saldo netto di enormi movimenti dentro e fuori l’area dell’astensione, e tra le varie aree (movimenti che hanno coinvolto circa il 50% degli elettori precedenti dei partiti), è che una fetta rilevante di elettori di centro e anche centrodestra ha scelto il PD. Ma i movimenti lordi dicono anche che c’è un’area nuova di fuoriusciti a sinistra dal PD di circa due milioni (tra astenuti e votanti Tsipras, e pure Grillo). E questi sono classificabili a sinistra molto più di quell’area di frustrati che abbandonarono all’ultimo momento, nel 2013, il PD di Bersani favore di Grillo, dimostrando tutta la loro confusione intellettuale e il loro scarso radicamento nella sinistra. Perché abbandonare Bersani fu fatto da posizioni genericamente e visceralmente protestatarie, laddove rifiutare Renzi ha richiesto un qualche istinto di sinistra in più, perché le promesse buone per ingenui arrabbiati si sono sprecate.

Questo ci porta alla seconda parte della citazione iniziale della Rossanda: “Mentre in Italia è fallito l’obiettivo della Lista Tsipras di utilizzare la campagna elettorale come un cantiere per tentare una riunificazione di tutti i frammenti delle sinistre radicali”. Ma chi ci ha mai creduto? L’utilità della lista Tsipras era portare voti a Tsipras. Che quella banda di sciamannati potesse ‘tentare una riunificazione’ era di là dal pensabile. Ma non solo dal momento del lancio della lista. Era già ampiamente visibile che i partitini di sinistra, persi nei loro antagonismi non erano neppure riusciti a lanciarla la lista. Salvo poi polemizzare, darsi calci sotto il tavolo, e darli pubblicamente, prima durante e dopo la campagna elettorale (un comportamento che notoriamente attira elettori; vero?) a quel gruppo di persone che, magari con qualche ingenua improntitudine, però la lista erano riusciti a lanciarla, anche grazie al fatto di essere persone note al grande pubblico.

Visto poi le lotte feroci al coltello locali per le candidature, era ovvio che tutto ci si poteva aspettare meno della capacità di produrre riunificazioni. Per non parlare della qualità modestissima della gran parte dei candidati (a parte alcune gloriose eccezioni, ovviamente sabotate dalle macchinette elettorali dei partitini). Per finire con l’ignobi­le sceneggiata degli attacchi alla Spinelli, persona decentissima, non a caso richiesta da Tsipras e infamata dai sostenitori del medesimo in Italia. Da questa miopia e meschinità non ci si poteva aspettare niente. E quello che non erano i partitini era ancora peggio; una congerie di sopravvissuti, male, degli anni Settanta, e parecchi ragazzi, i ‘movimenti’, ben intenzionati e confusissimi, persi nelle loro micro-campagne politiche locali con obbiettivi universali, incapaci di alzare la testa e guardare l’Italia, per non parlare di Europa. Ma un fatto politico comunque esiste. Le liste ci sono, di là dalla loro qualità, e in quanto tali possono essere un punto di riferimento. Data la scarsità di questi, è meglio non buttarle via.

Sinistra, primarie, PD

Ma quest’incapacità a produrre ‘riunificazione politica’ viene da ben più lontano. Quantomeno da quel 9 dicembre 2013, quando Vendola dimostrò di essere del tutto inadeguato come leader di sinistra, mostrando di non aver capito nulla, ripeto, tragicamente nulla, di quello che era successo in quelle primarie; perso nei politicismi della sinistra interna al PD. Per un autentico leader di sinistra il risultato di quelle primarie avrebbe dovuto segnare uno spartiacque come il voto dei crediti di guerra dei partiti socialisti in Francia e Germania nel 1914.

Quelle primarie portavano infatti a compimento il progetto veltroniano (incorporato nello Statuto del PD), di sradicamento della sinistra in Italia dalla sua storia socialista, incorporata nei partiti a mobilitazione di massa del secolo scorso. Era perfino il residuo di quella presenza ad infastidire. Peraltro, la storia delle primarie negli Usa mostra che, più di un secolo fa, furono usate allo stesso modo, per tagliare fuori strutture organizzate di massa, appoggiandosi a settori di ‘opinione’.

Che questo fosse l’obbiettivo lo dimostra che, nelle due consultazione precedenti, Bersani-Franceschini e Bersani-Renzi, sondaggisti, politologi e commentatori avessero ‘previsto’ che coll’aumento del numero degli elettori sarebbe diventata maggioranza la parte anti-apparato (da segnalare l’uso denigratorio e assolutamente improprio del termine ‘apparato’. Non esiste più da tempo alcun apparato. Esiste il partito degli ‘eletti’, ma questo è assolutamente omogeneo al progetto veltronian-renziano). Queste previsioni pelose furono smentite ampiamente per ben due volte. Facendo nascere la certezza, piuttosto che il sospetto, che non fossero ‘sondaggi’ ma strumenti di orientamento, per il momento falliti. Ma nel caso delle primarie Renzi-Cuperlo-Civati (una vera bestialità: le primarie servono a selezionare; e quindi alla fine devono essere ballottaggi. Ma evidentemente si voleva impedire che emergesse uno schieramento consistente anti-Renzi) quell’obbiettivo fu raggiunto grazie a due fattori: la dissoluzione della maggioranza bersaniana seguente al disastro politico-parlamentare post-elettorale, e il martellamento dei mass media.

Di fronte a questo sconvolgimento politico del corpo del partito, in cui la militanza, che conservava le tracce della storia del partito, sia del lato socialista sia del lato cattolico concorrenziale rispetto al primo, ma proprio per questo influenzato dai suoi valori di giustizia sociale, veniva sommersa e neutralizzata da elettori orientati dai mass media (NB – anche appartenenti all’area politica di centro-destra), la reazione di Vendola fu che si trattasse di un ‘normale’ spostamento all’interno di un partito, e che anzi questo spostamento verso il centro di un partito che conservava la sua collocazione sul centrosinistra, aprisse spazi interni al PD per una sinistra ‘esterna’ che confluisse (diciamo Vendola, solo per indicare il frutto di una mediazione al ribasso interna a SEL, in cui alcuni settori, si muovevano solo avendo di vista equilibri parlamentari presenti e futuri, detto gentilmente).

La chiusura di una storia

Da cui gli atteggiamenti ambigui di ‘dialogo’. Invece di prendere atto che, con quel voto, si chiudeva la storia ‘organizzata’ del socialismo italiano, sopravvissuta alla Prima Guerra Mondiale, al fascismo, alla Seconda, alla caduta dell’Urss e a Tangentopoli, nei due filoni socialista e comunista. Ovviamente perfettamente legittimo il progetto di ‘americanizzazione’ della politica italiana. Ma solo dimenticando che la forza di quella tradizione socialista e anche della sua ‘concorrenza’ cattolica era direttamente dipendente dalla ‘debolezza strutturale’ non solo dello stato unitario ma dalla debolezza etico-politica della borghesia italiana. E questa debolezza aveva avuto conseguenze profonde su tutti gli assetti della società italiana. Quella debolezza significava strati sociali dediti a coltivare posizioni di rendita e a muoversi in modo parassitario sullo sviluppo del paese.

Solo l’ignoranza totale della storia italiana poteva far dimenticare che i due ‘decolli’ (violente accelerazioni della crescita che avevano indotto forti modernizzazioni del paese) dell’economia italiana sono avvenute sotto direzioni politiche che avevano frenato proprio quegli strati sociali: Giolitti nel periodo 1907-11, e il ‘miracolo’ del dopoguerra, 1948-63, a guida democristiana, che però doveva combattere per la sfida sull’egemonia lanciata dalle sinistre. E non è per caso che l’economia italiana abbia smarrito fin dagli anni Novanta il sentiero della crescita (dopo il rallentamento degli anni Ottanta a guida CAF) fino a fermarsi nel primo decennio Duemila, berlusconiano. Erano infatti venuti meno i due partiti capaci di ‘trasmutare’ pulsioni negative degli italiani in forza costruttiva. I partiti che si erano formati, Lega e FI, trovavano le ragioni del successo invece proprio nell’assecondare le pulsioni ‘anarchiche’ che storicamente agitano il fondo degli italiani. E gli eredi di quelle due tradizioni sembravano, anzi erano, confusi e persi di fronte a una trasformazione mondiale che aveva sovvertito completamente le condizioni non solo della crescita dell’economia italiana, ma anche della crescita sociale del paese (ricordiamo che gli anni Settanta sono gli ultimi in cui sono state attuate grandi riforme modernizzatrici).

Da cui, evidentemente, la scelta di archiviare ‘definitivamente’ la storia politica del paese per una modernizzazione politica di stampo statunitense. Non è il caso qui di ricordarne le tappe. Va tenuto presente solo che l’irruzione di Grillo sulla scena, segnalava l’incipiente crisi politica del sistema (simile a quella segnata dall’irruzione della Lega vent’anni prima), e che mentre nel caso precedente le forze di sinistra erano state considerate, peraltro malvolentieri, necessarie a frenare l’irruzione berlusconiana, successiva a quella leghista, in questo caso il giudizio apparentemente compatto (a giudicare dallo schieramento dei mass media) era che quelle dirigenze residue non erano più in grado di far fronte all’emersione grillina e che bisognava accelerare e portare a compimento quel cambiamento di assetti solo implicito nella fondazione del PD, e il cui esito era rimasto sospeso. Il successo di Grillo alle amministrative del 2012 è stata la levatrice dell’irruzione di Renzi.

In realtà fin dall’inizio l’«operazione Renzi» si configurava come una rinascita a livello di massa del «trasformismo» italiano di fine Ottocento. Basta pensare al martellamento di organi del centro-destra sulla ‘novità’ renziana, la novità tanto attesa: la scomparsa della sinistra di stampo socialista, cui bisognava dare tutto l’appoggio possibile. Quello che era solo potenziale nelle primarie è diventato alle elezioni europee inizio di una realtà possibile, dimostrando anche, con l’adesione di parte dell’elettorato di SEL, dell’avanzato spappolamento dell’area di sinistra.

L’occasione persa

Basta pensare alle cifre dei movimenti dei flussi elettorali per misurare l’entità drammatica dell’occasione persa.

Secondo le analisi SWG, 1.4 milioni di elettori PD sono andati in astensione, 500mila hanno votato Tsipras o Grillo e 400mila da SEL hanno votato PD, spaventati probabilmente dalla bufala del pericolo Grillo, ma anche dalla mancata comprensione sia della posta in gioco in queste elezioni (non politiche e non maggioritarie) che della trasformazione in atto nel corpo elettorale PD, cui ovviamente seguirà più nel profondo quello nel corpo del partito.

La Lista Tsipras ha ottenuto poco più di un milione di voti. I voti di sinistra non confluiti sulla lista sono circa 2.5 milioni. Un partito del 6%. Cui magari andrebbero aggiunti settori al margine ancora interni al PD disincentivati dalla tradizionale disistima nei confronti dei partitini di sinistra, e anche moralmente ricattati, per quanto senza vera ragione, dalla retorica del voto utile; soprattutto a Schulz (e sono elettori che oggi meditano amaramente sul sabotaggio che proprio il loro voto ha dato la forza a Renzi di effettuare nei confronti di Schulz). Potremmo aggiungere anche qualche settore di astenuti di sinistra già in precedenza, e anche qualche settore al margine di votanti Grillo, di provenienza PD, che nulla ha potuto convincere a ritornare a votare questi partiti a sinistra. Ma la Rossanda pensa invece alla riunificazione del nulla, di quell’area dei vari partitini sulla sinistra, più le aree giovanili ‘movimentiste’, elettoralmente inconsistenti, e che insieme hanno di poco superato il 3%, e senza l’afflusso ex-PD sarebbero definitivamente scomparse dalle scena; e che molto probabilmente le prossime elezioni ridurranno ulteriormente (il che spiega l’ansia con cui alcuni settori SEL spingono per accordi qualsiasi con il PD).

Ovviamente non penso che tutta quest’area sarebbe potuta oggi confluire sotto le bandiere della Lista Tsipras, ma anche fosse stato solo un terzo, o anche meno, sarebbe stato l’inizio, questo sì, di una ricomposizione di un’area di popolo di sinistra. Certo, per ottenere anche un minimo risultato Vendola avrebbe dovuto valutare la natura del cambiamento che si stava annunciando. Cambiamento annunciato e decifrabile fin dall’estate del 2012 quando partì la campagna renziana di ‘rottamazione’, e ancor più chiarito da tutte le mosse successive.

Con un partito alle spalle; per quanto ‘smobilitato’, un partito è sempre molto più ‘potenzialmente’ rimobilitabile di aree senza reti di comunicazione e organizzazione, e senza sponde istituzionali a tutti i livelli. Per di più con la sua figura di leader molto presente sui mezzi di comunicazione, molto più dei suoi concorrenti Ferrero e Diliberto, comunque. Bisognava alzare la bandiera del traghettatore, cioè di colui che avrebbe portato bandiere di stampo ‘socialista’ nel XXI secolo, contro il loro plateale abbandono da parte del PD.

Il che non avrebbe significato affatto rinunciare al dialogo istituzionale a tutti i livelli dovunque e comunque fosse stato utile. Ma dialogo incalzante. E soprattutto dialogo che avesse chiaro che in questa ‘transizione’ il PD ha dei lati molto scoperti: da un lato deve dare messaggi che attirino l’elettorato di centro-destra (certo in questo è molto aiutato dai mass media) però certe promesse, o certe allusioni vanno fatte: fisco, giustizia etc.. D’altra parte si può valutare (sempre dati SWG) che siano rimasti tra i suoi elettori 2 milioni di elettori più a sinistra della direzione del partito (lo erano già, secondo l’SWG, rispetto a Bersani); e anche sui restanti bisogna pensare che ve ne sia una buona parte (20-30% del vecchio elettorato, almeno; 2-3 milioni) non siano intenzionati a cedere su misure autenticamente di centrosinistra. Se l’ambiguità dei messaggi renziani li ha finora convinti di potersele aspettare in futuro, una battaglia politica ficcante avrebbe potuto far nascere molti dubbi (ad esempio non è difficile far nascere dubbi sul fatto che il Jobs Act sia una misura di sinistra; o la riforma del Senato non stravolga la Costituzione. Nel silenzio della sinistra PD una campagna su questi temi sarebbe stata ancor più efficace).

Lista Tsipras: e poi?

Ma siccome non è stato fatto bisogna partire da qui. E partire da qui significa anche che la battaglia politica va tenuta anche dentro il PD. Anche perché bisogna evitare due errori simmetrici (un classico). Evitare cioè l’errore ‘multitudinista’, alla Toni Negri, e l’errore ‘politicista’, alla D’Alema.

Il primo errore consisterebbe nel pensare che quei numeri che ho elencato sopra sono quelli di una moltitudine, ingannata e già estranea a quel partito (la ‘moltitudine di Toni Negri) che basta urlare un messaggio a voce sempre più alta per far accorrere. Oppure che tutti i movimenti politici, fino all’ultimo elettore, attraversando tutta l’organizzazione e tutte le possibili, molteplici varietà di aggregazione, siano riportabili alle scelte, le alleanze, interessi e i silenzi dei gruppi dirigenti.

Perché da Orfini, il novello presidente del PD, all’ultimo elettore c’è un mare di gente, di persone cui bisogna accostarsi in modo ‘molecolare’, si sarebbe detto una volta. Sono persone con desideri, idee, esperienze che hanno una storia, dei dubbi, cui non è il caso di chiedere immediate abiure quanto piuttosto convincere che i dubbi sono più che legittimi, che a questi dubbi il PD deve rispondere con le azioni e non solo con le dichiarazioni; persone a cui dovrà pure venire il sospetto (per quelli che ‘nei secoli fedeli’, nulla servirà, ma alla fine non saranno tanti) che le dichiarazioni roboanti in una direzione a cui seguono fatti nella direzione opposta costituiscono un problema per il mantenimento della lealtà in queste condizioni, e possono essere uno stimolo per cercare di cambiare nell’ambito del proprio intorno. Ci sono decine di migliaia, e più, di persone vicine alla politica locale, bene intenzionati, non tutti semplicemente corruttibili o riducibili al silenzio.

E dall’altra parte ci sono quelli che da tempo hanno pensato che i destini della sinistra si fossero scissi da quelli del PD, ma che anche da molto, troppo, tempo hanno perso il senso che l’azione, la critica la discussione devono mirare sempre a individuare obbiettivi su cui altri si possano muovere. Persone che da troppo tempo hanno abbracciato una versione predicatoria e autoconsolatoria della politica.

Incominciare a muoversi tra questi due lati. Anche a questo possono servire i Comitati della Lista Tsipras. Questo il primo compito. Il resto si vedrà. Bisogna adottare come articolo di fede un proverbio russo: incominciare ad affrontare i problemi in ordine cronologico (man mano che sorgono).

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.