di Mariano Fasciolo
Una sera al bar un caro amico, dopo qualche birra, cominciò a raccontarmi una storia, ma forse le birre erano solo un mezzo per togliersi un peso, un fardello troppo grande da portare senza un aiuto.
“Mio zio è morto un giorno qualunque di ottobre, anno 2000.
Aveva ottantuno anni.
Per lui la Patria non è mai stata quella che lo vide nascere, anzi durante la sua vita molto particolare maturò una tenace avversione verso tutto ciò che parlava italiano.
– Gente furba, voltagabbana, con una mentalità bottegaia gli italiani, e quando sembrano generosi sono invece mossi da un misto di esibizionismo e opportunismo.-
Tanto livore, ma senza vero odio perché non si possono rinnegare le proprie radici, venne ricambiato quando si ammalò e i medici, trascurando i dati clinici per troppo tempo, lo curarono quando ormai era tardi.
– E’andata così, siamo in Italia…- ripeté, fatalista.
Però mi strappò una promessa: dopo la cremazione e aver riposto le ceneri in un piccolo cimitero della Val Borbera, (un tempo teatro di grandi scontri tra partigiani e nazifascisti), accanto ad un nipote e ad un partigiano russo, avremmo dovuto bere e festeggiare tutti insieme amici e parenti, senza tristezza.
Quindi un pugno di ceneri l’avrei conservato per spargerlo al vento, in direzione del mare, dalla torre più alta del castello di Hvar, un’isola croata.
Ma per Mario, nome di battaglia Aquila per via del naso, l’isola fa parte ancora della Repubblica Socialista di Jugoslavia.
Quel pugno di ceneri non arrivò mai laggiù e io mancai alla parola data per colpa della legge italiana.
Curioso vero?”
L’amico fece una pausa, osservandomi con cura, pronto a cogliere un’espressione di disapprovazione sul mio volto impassibile.
“L’estate seguente andai sull’isola con mia moglie e mio figlio e l’unica, reciproca impressione fu di un posto dove sarebbe stato bello fare il primo come l’ultimo viaggio.
E’ strano come la maggior parte di noi trovi poetico che qualcuno decida di ritirarsi in uno sperduto paradiso, però ci si guardi bene dall’imitarlo.
Forse per Mario è stato più facile non avendo una propria famiglia, ma tantissimi nipoti- E’ come stare a Paperopoli!- ripete sempre mia cuginetta Sonia.”
La risata scoppiò spontanea e liberatoria tra di noi, le birre stavano facendo il loro dovere.
“Non si sentiva certo nella stessa situazione lo zio, a Paperopoli intendo, quando, dalla nebbiosa pianura padana venne catapultato, all’inizio della II Guerra Mondiale su di un aereo come marconista, in mezzo alla Grecia.
Ben presto il suo gruppo si dissolse, con alcuni compagni marciò per giorni e, attraverso l’Albania, giunse in Jugoslavia.
Dai tanti racconti che ho ascoltato, a volte confusi o contradditori ma sempre appassionati, ho capito che la sua anima era là, nella Patria per la quale ha scelto di combattere.
E il pensiero andava agli scontri con i tedeschi, le fughe sui monti, i furti di cibo nei cimiteri -Era usanza portare da mangiare ai morti, qualcosa per il viaggio…- mi diceva, ed io non sapevo se credergli, ma in fondo andava bene così.
Poi l’incontro, fondamentale, con gli inglesi: il rispetto che dimostrarono per la sua divisa di partigiano titino, con la stella rossa ben in vista sul risvolto del berretto, la loro efficienza di esercito organizzato dove capì l’importanza vitale di un buon paio di scarpe.
Ho contato gli anni che passò in Jugoslavia dalla guerra in poi, quasi sessanta avanti e indietro, credo conoscesse quel paese meglio di tanti suoi abitanti e mi sono domandato cosa lo spingesse a fare tutti quei viaggi, sempre gli stessi, a trovare gli amici slavi ed anche italiani che, rimasti soli, avevano scelto di vivere un’altra vita.
Forse il bisogno di identità che l’Italia gli negava, come il soldato giapponese che ogni tanto si prendeva la meritata licenza, ma mai il congedo definitivo.
Viveva nel passato in maniera totale, sorrideva quando gli parlavo del ’68 e del movimento studentesco, certo apprezzava ma doveva apparirgli poco più che una scampagnata.
Non sorrise più quando sua sorella, vedova, cioè mia madre gli disse che saremmo andati a stare per conto nostro perché, se è difficile convivere con qualcuno, non si può vivere con chi parla di comunismo, anarchia, della libertà vera di ogni uomo e poi la nega a chi gli è più vicino.
Lo zio Mario è stata la persona più sola che abbia conosciuto, il compagno Aquila aveva tanti amici, credo.
E, quando rigiro tra le dita la medaglia d’oro con il faccione di Tito, che ebbe dopo la guerra per aver salvato un’intera scolaresca durante un bombardamento dei tedeschi, ricordo un episodio.
Ero bambino e un giorno salii sulla sua Vespa, davanti, in piedi.
Ero agitato, guardavo il contachilometri, la lancetta rossa, l’aria frizzante ben presto mi avrebbe inumidito gli occhi, era come guidarla.
Si tornava dal fiume, lui mise in moto e finimmo in un fosso; riprovò da solo e per due volte tornò nel fosso, prima di sbloccare lo sterzo con la chiave.
Mi piace ricordarlo così, distratto e ostinato, che vola tranquillo verso la sua isola, verso la nostra pace.”
– La vostra pace?- mi scossi dal torpore improvviso con un sorriso appena accennato, mentre posavo il bicchiere vuoto.
– Quale pace, eh? La pace dei popoli oppressi, o forse la pace della coscienza ferita?-
Lui mi guardò sorpreso, le guance arrossate, la bocca semiaperta incapace di pronunciare un’altra parola.
– Sono uno stronzo, scusami. Facciamo ancora un giro, vuoi? –