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di Guido Viale, dal Granello di Sabbia di Settembre-Ottobre 2016
Parto da una vicenda che abbiamo tutti seguito con apprensione e su cui è opportuno che si torni a riflettere. Nella prima settimana di luglio del 2015, alla vigilia del referendum sul terzo memorandum della Troika, il Governo greco ha dovuto limitare l’erogazione del contante dai bancomat e l’accesso ai conti correnti per impedire che le banche del Paese, non più rifornite di liquidità dalla BCE, dovessero risultare insolventi. Il limite del prelievo era stato posto a 60 euro al giorno: una misura più che sufficiente, per molte famiglie, per affrontare le necessità della vita quotidiana, sempre che si abbiano depositi adeguati sul conto corrente; ma una misura decisamente insufficiente per lo svolgimento della normale attività di un’impresa produttiva o commerciale. Inoltre quel limite avrebbe anche potuto essere portato a zero, bloccando completamente qualsiasi transazione, e lo sarebbe stato se il blocco della liquidità fosse continuato.
Che cosa ci dice questa vicenda? Ci dice che tutta l’attività di un intero Paese può essere bloccata per la decisione di un’unica persona (nel nostro caso Mario Draghi, presidente della BCE) o, al massimo, di un’unica entità (la BCE). Ovviamente, per imporre con un ricatto inaggirabile della paralisi totale, le loro condizioni.
Non viviamo più da tempo in un’economia di sussistenza dove una comunità può sostentarsi in gran parte con beni prodotti al proprio interno. Oggi cibo, energia, casa ed altre esigenze irrinunciabili della vita possiamo procurarcele solo attraverso una compravendita intermediata da un passaggio di denaro, cioè pagando. Altri fattori essenziali alla vita civile come salute, istruzione, assistenza, mobilità, possono esserci forniti in forma mista: in parte comprandoli e pagandoli direttamente, in parte dallo Stato, che a sua volta li paga con il ricavato delle imposte che abbiamo pagato noi. Senza denaro, con una circolazione monetaria bloccata, la vita, anche la cosiddetta “nuda vita”, si ferma.
Questo ci dà la dimensione del controllo che il potere finanziario ha conquistato sulla vita di tutti.
Quando il denaro e la circolazione monetaria erano costituiti prevalentemente o esclusivamente da “moneta sonante”, cioè da monete vere e proprie (coins) lo Stato le emetteva attraverso la Zecca, le poteva anche truccare (e di fatto lo faceva), alterandone il contenuto metallico, ma poi quelle monete circolavano liberamente. Nessuno, se non i loro possessori, poteva più controllare come spenderle e quante spenderne, e quando. Ma oggi le monete e la carta moneta che circolano in un paese non sono più del tre-quattro per cento della circolazione monetaria. Tutte le altre transazioni avvengono tramite banca. Bloccare le banche vuol dire bloccar la vita economica.
Comunque, finché è rimasta in vigore la separazione tra banche commerciali e banche di investimento introdotta con il New Deal e poi diffusasi in tutto il resto del mondo (fino a che non è stata abolita dal governo Clinton e, dopo di lui, in tutto il resto del mondo), l’attività delle banche commerciali, cioè la circolazione monetaria, era sì regolata dallo Stato – o dalla Banca centrale – attraverso il tasso di sconto e l’obbligo della riserva, ma lo Stato non poteva bloccarne lo svolgimento.
Infine, finché l’attività della Banca centrale era regolata dallo Stato e ne era di fatto una branca – prima, cioè, del “divorzio” tra Governo e Banca centrale – lo Stato che spendeva in deficit, cioè più di quanto incassava con le imposte, si indebitava di fatto con se stesso; o comunque solo con chi accettava di prestargli del denaro alle condizioni decise dal Governo, e non a quelle imposte dalla finanza internazionale: non c’erano in questo contesto molte possibilità di speculare sulle emissioni di uno Stato, perché era il Governo, e non la finanza, a fissarne il rendimento. Certo un deficit eccessivo della spesa pubblica poteva provocare un’inflazione difficile da controllare: è la motivazione con cui è stato imposto quel “divorzio”. Ma non più, comunque, di quanto la possa provocare una spesa pubblica o privata sostenuta da istituzioni finanziarie non soggette ad alcun controllo.
Oggi tutti e quattro quei livelli della circolazione monetaria – i pagamenti quotidiani delle famiglie; i fidi e gli anticipi di cassa delle imprese; i deficit della spesa pubblica e gli investimenti speculativi sempre più invadenti e consistenti – sono in mano all’alta finanza: una entità anonima, anche se governata da persone in carne e ossa, con nome, cognome e patrimonio personale di varia entità.
Persone dalle cui decisioni, o dalle cui operazioni, spesso condotte senza alcuna considerazione delle possibili conseguenze, discendono le condizioni di tutti gli altri livelli della vita economica. È la privatizzazione totale, nelle mani di un numero sempre più ristretto di “operatori” o di beneficiari, di tutto ciò che facciamo, di tutto ciò che abbiamo, e anche di tutto ciò che siamo: delle attività dello Stato a tutti i livelli dell’ordinamento giuridico (Governo, Regioni, Comuni); delle attività delle aziende, sottoposte agli alti e bassi del credito, che rispondono assai più agli andamenti dei mercati finanziari che alle prospettive di rendimento delle imprese produttive; ma anche delle attività di ogni comune cittadino che, indipendentemente dai suoi più o meno lauti guadagni e dal suo più o meno ampio indebitamento personale (mutui, acquisti a rate, prestiti d’onore, scoperti bancari) è comunque titolare della sua quota di debito pubblico (su cui non ha mai avuto la minima possibilità di decidere). Un indebitamento che, oltre alle tasse destinate al finanziamento dei servizi più o meno efficienti erogati dallo Stato, gli impone un prelievo annuale per pagare gli interessi sul debito. Sono interessi che vanno ad accumularsi anno dopo anno, secondo la legge dell’interesse composto, rendendolo sempre più elevato e sempre più insostenibile. Come vi spiegherà meglio Francuccio Gesualdi, tutto l’ammontare del gigantesco debito pubblico italiano non raggiunge la somma degli interessi su di esso che sono stati pagati dall’epoca del “divorzio” tra Governo e Banca centrale in poi. È come se il poco o tanto denaro di cui disponiamo e che abbiamo guadagnato lavorando, non fosse in realtà che un prestito fattoci dall’alta finanza, di cui siamo in realtà debitori: quel debito infatti ammonta a circa 40mila euro per ogni cittadino italiano, neonati compresi, equivalenti a 160mila euro per una famiglia di quattro persone.
Come si esce da questo circolo vizioso? La maggior parte degli economisti non si pone nemmeno il problema: per loro bisogna pagare, rimborsare un po’ per volta quel debito, o per lo meno una parte di esso, fino a riportarlo a un livello che renda credibile la prospettiva di poter rimborsare anche il resto. Senza mai tener conto del fatto che mai – o quasi – nella storia, i debiti pubblici degli Stati sono stati rimborsati: per lo più sono stati riassorbiti in tutto o in gran parte dall’inflazione, che ne ha ridotto drasticamente il valore, e dalla crescita del PIL, che ne ha ridotto il peso percentuale; oppure sono stati condonati (è il caso di molti debiti per danni di guerra, compresi quelli che pure avevano scatenato l’avvento del nazismo; di alcuni debiti di paesi cosiddetti in via di sviluppo; ma non solo); o, ancora, quei debiti sono stati azzerati con un default: evento molto più frequente di quanto gli economisti mainstream vogliano far credere. Certamente in un’economia globalizzata un default è molto più difficile da sostenere di un tempo, perché oggi i creditori degli Stati sono ubiqui (cioè non stanno in nessun luogo particolare, ma possono palesarsi ovunque) come ubiqua è la loro quasi certa ritorsione (che può essere attivata da qualsiasi parte del mondo). Ma questa è anche la prima volta che in condizioni di (apparente) pace un accordo come il fiscal compact impone la restituzione di una quota consistente di debito entro una scadenza predeterminata e indipendentemente dalla evoluzione del contesto economico.
Anche qui il caso della Grecia ci rivela la vera natura di quel debito: in realtà non è alla sua restituzione, che è impossibile, che si punta, ma ad usarlo per procedere all’appropriazione – cioè all’esproprio – di tutto ciò che di pubblico o comune presenta un qualche interesse economico. Basta dire che oggi il ricavato dalla vendita di tutte le imprese pubbliche controllate in tutto o in parte dallo Stato italiano non basterebbe a coprire l’importo degli interessi pagati ogni anno ai detentori del suo debito pubblico. L’anno successivo quegli interessi tornerebbero però a dover essere pagati nuovamente, mentre quelle imprese pubbliche e i loro proventi non ci sarebbero più.
Meno che mai quel circolo vizioso potrebbe essere sciolto, come molti propongono, con l’uscita dall’euro o addirittura dall’Unione europea. Che l’ingresso nell’euro alle condizioni date sia stato un errore è oggi condiviso da molti; e che l’Unione europea non abbia corrisposto a quelle che erano le premesse sulla cui base era stata creata, ma che anzi le abbia non solo tradite, ma si sia trasformata in un meccanismo di oppressione, di impoverimento e di discriminazione per buona parte dei cittadini europei è indubbio. Ma né l’euro né l’Unione europea sono “porte girevoli” dalle quali si possa uscire con la stessa facilità con cui vi si è entrati: uscirne finirebbe per costare molto ma molto di più. Coloro che lo negano sposano in realtà, anche quando non se ne rendono conto, la quintessenza del pensiero liberista: quello che affida le sorti dell’economia a degli astratti meccanismi automatici del mercato. Cioè proprio quella dottrina che il cosiddetto “pensiero unico”, spesso presentato come neo-liberismo, professa ma non pratica assolutamente. Perché il cosiddetto “neoliberismo” non è che un processo generalizzato di privatizzazione di tutto l’esistente da parte di un pugno di uomini e di istituzioni dell’alta finanza a spese della maggioranza (il famoso 99 per cento) della popolazione; un processo in cui lo Stato, lungi dal “ritirarsi” dal campo, gioca un ruolo insostituibile nel determinare i rapporti di forza, che è poi quello che conta. L’idea dei fautori dell’uscita dall’euro è che con il ritorno ai cambi flessibili, e con una massiccia svalutazione, l’economia italiana tornerebbe a essere competitiva sui mercati internazionali, riprenderebbe la strada della crescita e potrebbe anche ripagare i suoi debiti. Quello di cui non tengono conto i fautori di questa visione è che nell’economia globalizzata i rapporti di forza politici e militari contano molto di più delle regole astratte di un mercato puro che in quanto tale nemmeno esiste. Contano oggi più ancora che all’epoca del colonialismo che, nella versione della scienza economica mainstream, rappresenta l’epoca d’oro del “libero mercato”.
Inoltre, i fautori dell’uscita dall’euro non tengono conto del fatto che una competizione basata sulla svalutazione non farebbe che innescare, in una Unione europea in cui i vincoli dell’euro verrebbero meno per tutti, una rincorsa alle svalutazioni competitive che non potrebbe comportare alcun vantaggio per il nostro Paese.
Infine non tengono conto del fatto che se la cosiddetta “sovranità monetaria” appare oggi sequestrata dalla BCE, che non risponde ad alcun organo politico, quel sequestro si era in realtà già consumato con il divorzio della Banca d’Italia dal governo. È la BCE ad aver ripreso il modello introdotto precedentemente in Italia e in molti altri paesi, e non viceversa.
Naturalmente si potrebbe anche revocare quel divorzio e restituire al governo la sua sovranità sulla Banca centrale. Ma non sarebbe così facile. La Banca d’Italia è il punto di raccordo di tutto il sistema bancario italiano, che peraltro ne è l’azionista e il proprietario. Ma prima di quel divorzio il sistema bancario italiano era dominato da tre Banche di interesse nazionale che erano pubbliche (come molte altre) e aveva un suo pilastro nella Cassa Depositi e Prestiti.
Oggi quelle banche sono tutte private e una è anche interamente in mani estere. E sono quelle banche, oltre alla BCE, ad avere il potere di “creare il denaro” dal nulla. Pertanto il ritorno a una valuta nazionale non comporterebbe di per sé alcun recupero di sovranità.
Infine, la svalutazione della nuova valuta non libererebbe il paese dal debito accumulato, ormai contabilizzato in euro o in valute estere. Di fronte a una nuova valuta nazionale fortemente svaluta, esso risulterebbe anzi ancora più elevato; a meno di un default deciso unilateralmente, con tutte le conseguenze già indicate.
La riflessione sulle vicende greche, invece di indurre molti a demonizzare le scelte con cui il governo Tsipras ha cercato di attraversarle in attesa che una parte almeno dell’Europa lo affiancasse, volente o nolente, nell’opposizione alle politiche della Trojka, dovrebbe sforzarsi di ripercorrere all’inverso il filo di molte delle scelte fatte, a partire da quelle che hanno preceduto il suo accesso al governo. Questa ricostruzione non può non confrontarsi con una opzione di fondo che non è stata assunta: la necessità di costruire, dentro il contesto sociale, circuiti di autonomia monetaria e finanziaria che restituiscano al denaro, o a una parte di esso, la natura di “bene comune” o, per dirla con Karl Polanyi, “merce fittizia”. Si tratta infatti di un bene che, insieme al lavoro e alla terra (oggi diremmo all’ambiente), non può essere comprato e venduto come una qualsiasi altra merce, pena la dissoluzione dei legami che tengono insieme la convivenza e la società.
Si tratta cioè, nel mentre che lo si combatte, di erodere a tutti i livelli praticabili, il potere della finanza moltiplicando circuiti monetari il più possibile autonomi e autogestiti: a livello locale, con monete locali – ormai largamente sperimentate in diversi contesti, e con maggior successo dove hanno ricevuto una qualche forma di sostegno o di avallo dai governi locali; a livello interaziendale, con una moneta specifica che ha corso solo nell’interscambio tra imprese: ovviamente con una garanzia di Stato. È il sistema con cui Hitler aveva risollevato l’economia tedesca stremata dalla Grande depressione e dai vincoli Esteri. A livello di spesa pubblica, tale strada sarebbe percorribile con qualche soluzione analoga a quella dei certificati fiscali proposti da tempo da Luciano Gallino e da Enrico Grazzini. Secondo loro, questa alternativa potrebbe permettere uno sforamento del deficit, e addirittura il trasferimento di un potere di acquisto aggiuntivo alle piccole imprese e alle fasce più povere della popolazione, senza incorrere nella violazione dei vincoli imposti dalle regole europee. Certo, l’euro, o la nuova valuta convertibile a cui lo Stato italiano sarebbe costretto a tornare da una eventuale dissoluzione dell’euro, rimarrebbero probabilmente il mezzo di pagamento principale, e quello esclusivo nelle transazioni internazionali. Ma intanto una buona dose di autonomia – e non sovranità – monetaria sarebbe conquistata, in vista di successive trasformazioni.
È evidente che un progetto del genere non potrebbe che accompagnarsi a quella che appare sempre più l’unica alternativa praticabile agli attuali processi di globalizzazione fondati sulla corsa al ribasso di salari, servizi pubblici, tutele ambientali e solidarietà: cioè la riterritorializzazione o rilocalizzazione di una quota crescente dei processi produttivi, delle relazioni di mercato, dei rapporti di lavoro. Una componente essenziale della conversione ecologica.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 25 di Settembre-Ottobre 2016 “Chi è in debito con chi?“