L’impresa responsabile

per Gabriella
Autore originale del testo: Luciano Gallino
Fonte: einaudi
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L’IMPRESA RESPONSABILE – di LUCIANO GALLINO – ed. EINAUDI

Un’impresa capace di creare profitto non solo per gratificare i suoi azionisti, ma anche per produrre benessere, sicurezza e bellezza, per chi vi lavora come per la comunità che la ospita: Olivetti è stato un imprenditore e un uomo di cultura in straordinario anticipo sui propri tempi. A piú di cinquant’anni dalla sua morte, le idee di Olivetti – sul ruolo dell’industria, sulle funzioni dello stato sociale, sul rapporto tra impresa e territorio – continuano a sembrare in aperto contrasto con quanto si pratica e si scrive. Per cercare di comprendere (e di colmare) tale discrepanza, Luciano Gallino riflette su quell’idea di «impresa responsabile» che Olivetti cercava, giorno per giorno, di mettere in pratica negli stabilimenti e negli uffici di Ivrea. Gallino è stato assunto da Olivetti nel 1955 e ha potuto cosí conoscere da vicino, a Ivrea, come questi pensava e operava nel quotidiano impegno di capo d’industria, e al tempo stesso, di pensatore politico, editore, promotore di piani territoriali. Questa intervista, pubblicata da Edizioni Comunità nel 2001, viene presentata qui riveduta, e con l’aggiunta di una nuova Prefazione. Gallino, abilmente sollecitato da Paolo Ceri, ricostruisce, senza alcun intento agiografico, la storia di un percorso umano, filosofico ed economico che continua a sfidare, per modernità e lungimiranza, il nostro presente.

Prefazione di Luciano Gallino

 Il titolo di questo libro rimanda al concetto di «responsabilità sociale dell’impresa» e al posto di eccellenza che in questo campo ebbe la Olivetti di Ivrea sotto la direzione di Adriano Olivetti; un posto, è giusto riconoscere, che l’impresa mantenne poi per almeno un decennio dopo la prematura scomparsa dell’ingegnere, avvenuta nel 1960. Si considera socialmente responsabile un’impresa che nel decidere le strategie produttive e finanziarie tiene nel massimo conto le condizioni di lavoro che offre ai suoi dipendenti, come la stabilità dell’occupazione, i livelli retributivi, gli orari, i ritmi richiesti, la sicurezza sul lavoro e l’ambiente di questo. È vero che l’idea di responsabilità sociale dell’impresa comprende vari altri elementi, che vanno dai rapporti con i fornitori all’impiego dei fondi che le hanno affidato i piccoli risparmiatori sotto forma di azioni e obbligazioni; dalle misure adottate per salvaguardare l’ambiente ai rapporti con la comunità locale. Nondimeno appare arduo considerare socialmente responsabile un’impresa che opera senza porre in primo piano le condizioni di lavoro.

Da questo punto di vista può dirsi che a cominciare dagli anni Ottanta la maggior parte delle imprese italiane, in piena sintonia con la massa delle imprese europee e americane, ma con oneri ancora piú pesanti per gli interessati, abbia operato in modo socialmente irresponsabile, considerato che le loro strategie appaiono aver perseguito assiduamente lo scopo di peggiorare i salari, le condizioni di lavoro e le prospettive occupazionali dei lavoratori dipendenti. I risultati di simili strategie affollano le cronache: i disoccupati ufficialmente censiti dalle rilevazioni Istat hanno superato i tre milioni; altri quattro milioni di persone non figurano come disoccupate solo perché non hanno piú il coraggio di cercare attivamente un’occupazione; piú di quattro milioni appaiono condannate al girone infernale dei contratti di breve durata, sinonimo di occupazione precaria.

Non che da tali politiche regressive le imprese italiane abbiano tratto grandi vantaggi. Infatti la produttività del lavoro appare stagnante da quasi vent’anni; gli investimenti in ricerca e sviluppo figurano al fondo delle classifiche Ocse; molti settori produttivi sono scomparsi perché le sue imprese hanno chiuso o hanno delocalizzato la produzione in qualche paese emergente. E la crisi ha ridotto la struttura industriale del paese del 25 per cento – un poco ambito primato europeo.

In altre parole le imprese italiane, fatte salve poche eccezioni, hanno agito sí in modo socialmente irresponsabile nei confronti del mondo del lavoro, recando gravi danni a quest’ultimo, ottenendo però il risultato controproducente di danneggiare pure se stesse e l’insieme dell’economia e della società italiana. Al loro confronto, la Olivetti degli anni Cinquanta, che sotto la direzione dell’ingegner Adriano conobbe in quel decennio uno sviluppo straordinario, appare oggi piú che mai come un caso singolare di impresa responsabile: un’impresa che esercitava il suo senso di responsabilità in varie direzioni, ma attribuendo sempre la massima attenzione al mondo del lavoro, ovvero ai suoi dipendenti, ovunque operassero.

Quando chi scrive propone un simile confronto, quale che sia il pubblico egli riceve obiezioni standardizzate, volte tutte a concludere che al giorno d’oggi è impossibile creare e gestire un’impresa capace di mostrare nella pratica il senso di responsabilità sociale che caratterizzò la fabbrica di Ivrea. Questo perché il mondo è cambiato, mi si fa notare (sebbene io abbia informato poco prima i presenti che non sono vissuto su Marte). La globalizzazione, sottolineano gli obiettori, impone vincoli al governo dell’impresa, in termini di competitività, che allora non esistevano. I lavoratori hanno accumulato nel trentennio del dopoguerra dei privilegi (questa è l’obiezione che preferisco, in quanto è la piú scopertamente politica), sotto forma di salari elevati, occupazione stabile, riduzioni d’orario, generose prestazioni dello stato sociale, che oggi né le imprese né lo Stato possono piú permettersi. Infine i sindacati hanno insistito troppo affinché fosse assegnata ai lavoratori una fetta piú grossa della torta; bisogna andare oltre e puntare a ingrandire la torta, di modo che tutti ne traggano beneficio.

Ora, è vero che qualcosa è realmente cambiato nelle imprese e attorno a esse dai tempi dell’ingegner Adriano; però si tratta di qualcosa che le obiezioni citate, e altre cento consimili, non sfiorano nemmeno. Ciò che è cambiato è la concezione stessa dell’impresa, le ragioni sociali della sua esistenza. Senza dimenticare che per un’impresa capitalistica la finalità ultima è la valorizzazione del capitale, va riconosciuto che per buona parte del Novecento, e per almeno trent’anni dopo la Seconda guerra mondiale, non mancarono le imprese che tra i loro scopi principali collocavano la produzione di beni e servizi innovativi; l’aumento del fatturato e del numero dei dipendenti; l’offerta di buoni salari e condizioni di lavoro, insieme con il mantenimento di relazioni industriali soddisfacenti per le due parti. E mentre agivano in tal modo, conseguivano pure elevati profitti. Negli anni Ottanta tale concezione dell’impresa venne rimpiazzata da un’altra, che vedeva nella massimizzazione del valore per gli azionisti l’unico scopo che un’impresa aveva il dovere di perseguire a scapito di ogni altro. È famosa al riguardo la battuta di Milton Friedman, il piú noto degli economisti neoliberali dell’epoca: «L’unico compito di un’impresa è quello di fare buoni affari».

L’irresistibile ascesa della nuova concezione fu sospinta da diversi fattori. Ma uno fu determinante; la crescita del patrimonio gestito in complesso dai cosiddetti «investitori istituzionali»: fondi comuni di investimento, fondi pensione, compagnie di assicurazione e altri tipi di fondi, gran parte del quale è costituito da azioni e obbligazioni emesse da imprese medie e grandi (tra parentesi: definire «investitori» tali attori economici è del tutto scorretto. Un investitore è uno che anticipa capitali al fine di creare un’attività che senza tale anticipazione non vedrebbe la luce. I movimenti di capitale dei suddetti fondi ecc. non perseguono alcun fine del genere: mirano quasi soltanto a realizzare plusvalenze speculative). Nel 1990 il patrimonio di tali cosiddetti investitori toccava i 10 trilioni di dollari; nel 2000 era triplicato; dieci anni dopo superava il Pil del mondo: oltre 60 trilioni di dollari.

Quali gestori di tale colossale patrimonio finanziario, gli investitori istituzionali perseguono, come s’è detto, un unico scopo: far rendere al massimo i capitali loro affidati da chi acquista le loro quote, a prescindere dalle modalità mediante le quali il rendimento viene conseguito. A tale scopo acquistano in genere una quota limitata – di rado superiore al 4-5 per cento – del pacchetto azionario di gran numero di differenti imprese, e da ciascuna pretendono un rendimento pari o superiore al 15 per cento annuo. Un cda di un’impresa può ignorare le pressioni in tal senso di uno o due investitori in possesso delle relative quote; tuttavia se essi cominciano a essere quattro o cinque, accade che o esso si adopera al piú presto per soddisfarle, oppure il suo destino, se non anzi quello dell’intera impresa, è segnato.

Le conseguenze sul governo delle imprese sono state micidiali, non solo a causa delle pressioni esercitate dai «proprietari globali» – come sono stati chiamati gli investitori istituzionali, visto che posseggono la metà del capitale azionario complessivo del mondo – ma ancor piú dell’urgenza a esse sottesa. Se un’impresa consegue profitti del 10 per cento, e gli investitori pretendono che essi salgano al 15 per cento a breve termine – cioè entro pochi mesi al piú tardi – non esistono mezzi strutturali per soddisfare la richiesta, quali sarebbero aumentare l’investimento in ricerca e sviluppo, accrescere le vendite con nuove strategie commerciali, tentare di espandersi in nuovi paesi, e simili. I mezzi atti a conseguire con rapidità notevoli aumenti del capitale azionario sono altri. Consistono nel riacquisto di azioni proprie, il che fa salire di colpo il loro prezzo o valore in quanto le rende piú scarse sul mercato; in qualche sorta di fusione o acquisizione con altre società, eventualmente effettuata con un massiccio ricorso al debito, un’operazione che spinge gli analisti a mirabolanti previsioni sull’aumento del valore borsistico della nuova società, anche se in genere ciò si realizza solo per breve tempo dopo l’operazione; nel brusco licenziamento di alcune centinaia o meglio ancora migliaia di dipendenti, il che fa salire immediatamente il valore del titolo. Non da ultimo, consistono nella compressione sistematica e prolungata dei salari e delle condizioni di lavoro dei dipendenti, che include ogni mezzo possibile per ridurre il peso dei sindacati.

Un altro effetto perverso di simile «finanziarizzazione» del governo dell’impresa è stato sia l’astronomico aumento delle retribuzioni complessive degli alti dirigenti, sia la scomparsa del criterio della competenza e dell’esperienza nel reclutamento dei medesimi. Una volta stabilito che nel governo di un’impresa la priorità massima deve essere assegnata all’aumento del suo valore azionario in borsa, ne segue che per scegliere un manager il requisito primo deve essere la sua capacità di far crescere tale valore, non già la sua competenza nel produrre un determinato complesso di beni o servizi. Con il volenteroso aiuto dei manager, sempre ben disposti a votare nei comitati aziendali istituiti per stabilire il compenso degli alti dirigenti l’aumento del medesimo a favore di qualche collega, con il sottinteso di ricevere al momento giusto lo stesso favore, i relativi compensi sono schizzati alle stelle. Mentre verso il 1980 la remunerazione totale di un ad (amministratore delegato) o un presidente o un direttore finanziario di una grande impresa – ivi compresi stipendio, gratifiche, opzioni sulle azioni, azioni concesse gratis ecc. – poteva in media arrivare a 40 volte un salario medio, dai primi anni Duemila in avanti sono diventate comuni remunerazioni equivalenti a 300-400 volte un salario medio.

Al tempo stesso è diventata irrilevante la competenza di un manager nel produrre un determinato bene o servizio. Si sono cosí visti, in Italia forse piú che in altri paesi, noti ad e presidenti passare come nulla fosse, per dire, dalle telecomunicazioni all’industria chimica, dalla grande distribuzione alla meccanica, dalle ferrovie al trasporto aereo. Con risultati, per le società chiamati a dirigere, sovente modesti, in buon numero di casi negativi, qualche volta disastrosi. Senza tuttavia che venisse quasi mai meno l’impegno del dirigente in parola a comprimere diritti dei lavoratori e condizioni di lavoro, a emarginare i sindacati, a delocalizzare produzioni all’estero al fine, piú ancora che di conseguire economie di produzione, di disciplinare i lavoratori ancora occupati in patria – nessuno sa fino a quando. Numerosi saggi pubblicati dal 2008 a oggi documentano con innumeri dati l’irresistibile marcia parallela della massimizzazione del valore per gli azionisti e la minimizzazione delle condizioni di lavoro dei dipendenti.

Per tornare alla Olivetti di Ivrea negli anni Cinquanta. La sua responsabilità sociale si esprimeva in salari elevati, un’organizzazione del lavoro rispettosa della persona sulle linee di produzione e montaggio, significative riduzioni d’orario (la Olivetti fu la prima impresa italiana a introdurre, nel 1957, il sabato interamente festivo), massima libertà di espressione e movimento per i sindacati (anche se l’ingegner Adriano non amava la Cgil, che lo considerava un padrone come gli altri), e un’assoluta stabilità dell’occupazione, anche durante la mezza crisi del 1952-53. A ciò si aggiungevano prestazioni da stato sociale scandinavo: scuole interne di formazione per i giovani, case per i dipendenti, ambulatori, asili e colonie per i loro figli, assistenza sociale in caso di bisogno, biblioteche. Che cosa dunque impedisce a un’impresa del presente di riprodurre almeno in parte quella situazione cosí socialmente responsabile?

A conti fatti, non ci vorrebbe nemmeno molto. L’impresa potrebbe, ad esempio, aumentare la spesa in ricerca e sviluppo, che è quella da cui provengono gli utili veri, visto che a tale riguardo le imprese italiane figurano in coda a tutte le classifiche internazionali. La Olivetti di allora contava, in Italia, un addetto alla R&S ogni dieci dipendenti – un coefficiente assai elevato. Buona idea, si obietterà, ma dove si prendono i soldi? Un rozzo calcolo sul retro di una busta usata porterebbe a dire, al riguardo, che se il presidente, l’ad e pochi altri si accontentassero di una remunerazione complessiva pari a 40-50 volte il salario medio, invece di quella pari a 300-400 volte che oggi percepiscono, con la sola differenza si potrebbe pagare un buon salario a un paio di centinaia di ricercatori. Dopotutto, i massimi dirigenti della Olivetti non guadagnavano piú di venti o trenta volte lo stipendio dei loro impiegati.

In secondo luogo si potrebbe pensare di attribuire le piú alte cariche dell’impresa a persone che in un determinato settore vantano fior di competenze ed esperienze. Anche qui un’occhiata alla Olivetti di allora avrebbe qualcosa da insegnare. L’ad e presidente della società per primo era un ingegnere con una solida preparazione nel campo dell’organizzazione scientifica del lavoro. In effetti tra i suoi capolavori va collocata l’organizzazione aziendale, che consentiva di produrre milioni di pezzi al mese, che diventavano decine di migliaia di macchine per ufficio pronte per essere spedite in mezzo mondo.

Ma anche il direttore di produzione, il direttore commerciale, il responsabile della R&S erano persone ferratissime nei loro rispettivi campi. L’abbandono della competenza specifica nella selezione dei manager, a favore di una generica competenza finanziaria, è uno dei fattori che piú hanno nuociuto al decadimento generale del capitalismo italiano, intanto che contribuiva alla crescita delle disuguaglianze e al peggioramento delle condizioni di lavoro.

In terzo luogo il cda potrebbe esaminare i tanti rapporti internazionali indicanti che nel settore industriale come in quello dei servizi all’industria le imprese che da lungo tempo vanno meglio, in tutta Europa, sono quelle che hanno mantenuto un buon rapporto con i loro dipendenti. Per contro l’occupazione precaria, i salari stagnanti, il clima aziendale repressivo, l’assenza pressoché generale di cicli di formazione in azienda, ostacolano in tanti modi lo sviluppo di un personale professionalmente qualificato, motivato a lavorar bene, interessato alle sorti dell’azienda in cui lavora. L’operaio inesperto, perché privo di adeguata formazione, nel caso che sulla linea di montaggio passi un componente difettoso non se ne accorge. L’operaio esperto (ma lo stesso vale per ogni genere di lavoratore) e però demotivato perché ha un contratto di tre mesi che non sa se gli verrà rinnovato, scorge il difetto, ma si gira dall’altra parte.

Molto bene, direbbe a questo punto un raro ad convinto a metà dagli argomenti di cui sopra: resta il fatto che il passaggio a un governo dell’impresa orientato a una maggior responsabilità sociale sarebbe comunque ostacolato dal fatto di avere sempre addosso la pressione della proprietà, in specie degli investitori istituzionali. È un’osservazione di peso. Tuttavia anche in questo caso la storia della «fabbrica» di Adriano Olivetti suggerisce forse qualcosa su cui riflettere. Se la proprietà ha il diritto di appropriarsi totalmente del valore aggiunto dell’impresa, compreso quello fittizio derivante da un aumento del valore delle azioni artificiosamente provocato, e nel contempo di disinteressarsi non meno totalmente di quello che succede ai dipendenti, ciò non è dovuto a qualche ferrea legge dell’economia. Avviene perché sta scritto in varie forme nella legge sulle società in vigore. Per introdurre un minimo di uguaglianza tra le due parti sarebbe necessario che la legge sulle società prevedesse esplicitamente che una quota del valore aggiunto prodotto in qualsiasi modo dall’impresa compete di diritto anche ai lavoratori, e che comunque sui modi di produrre quella quota, industriali o finanziari che siano, essi hanno diritto di parola e di decisione.

È vero: una simile legge non esisteva nella Olivetti di Adriano. Ma era «come se» esistesse. E non perché l’ingegner Adriano fosse un imprenditore cosiddetto illuminato. Avveniva perché tutto ciò che faceva al fine di rendere la sua fabbrica un luogo dove la dignità del lavoratore venisse al primo posto rientrava in un disegno politico. Quel disegno che ha esposto in opere quali nessun altro imprenditore si è mai sognato di scrivere (e nemmeno di leggere, temo): ricorderò, ad esempio, L’ordine politico delle comunità.

La sorte gli ha impedito di sviluppare il suo disegno affinché la legge che aveva concepito e informalmente applicato per quindici anni all’azienda di Ivrea prendesse una appropriata forma giuridica. Ma la sua lezione rimane, caso mai qualcuno volesse accoglierla: la superiorità di coloro che tutto dispongono e mantengono la loro posizione qualunque cosa accada, e l’inferiorità di coloro che al minimo fremito dell’economia sono buttati nel fosso, per decisione dei primi e con l’aiuto comprensivo del governo, non ha niente a che fare con l’economia. Nel fondo si tratta di una questione essenzialmente politica. Entro la quale va collocata pure l’intera questione della responsabilità sociale dell’impresa.

 Torino, 15 giugno 2014.

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