Fonte: Il Manifesto
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Società dei consumi. La bocca è una delle porte dell’anima, dicevano gli antichi. Ma se da lì passa solo cibo spazzatura, la vita è ridotta a un insieme infinito di acquisti di merci usa e getta. E lo struscio domenicale nel centro delle città è sostituito dal pellegrinaggio negli shopping mall che accerchiano le periferie
di Eduardo Galeano, 18 dicembre 2014
L’esplosione del consumo nel mondo di oggi fa più rumore della guerra e più baccano del carnevale. Come dice un antico proverbio turco, chi beve a credito si ubriaca due volte. La bisboccia ottunde e obnubila lo sguardo; e quest’enorme sbronza universale sembra non conoscere limiti di spazio e di tempo. Ma la cultura del consumo risuona molto, come il tamburo, perché è vuota; all’ora della verità, quando gli strepiti si calmano e la festa finisce, l’ubriaco di sveglia solo, con l’unica compagnia della sua ombra e dei piatti rotti che dovrà pagare. L’espandersi della domanda cozza con i limiti imposti dallo stesso sistema che la genera. Il sistema ha bisogno di mercati sempre più aperti e ampi, come i polmoni hanno bisogno dell’aria, e al tempo stesso ha bisogno che si riducano sempre più, come in effetti accade, i prezzi delle materie prime e il costo della forza lavoro umana. Il sistema parla in nome di tutti, a tutti dà l’imperioso ordine di consumare, fra tutti diffonde la febbre degli acquisti; ma niente da fare: per quasi tutti quest’avventura inizia e finisce davanti allo schermo del televisore. La maggioranza, che fa debiti per ottenere delle cose, finisce per avere solo più debiti, contratti per pagare debiti che ne producono altri, e si limita a consumare fantasie che talvolta poi diventano realtà con il ricorso ad attività delittuose.
Il diritto allo spreco, privilegio di pochi, proclama di essere la libertà per tutti. Dimmi quanto consumi e ti dirò quando vali. Questa civiltà non lascia dormire i fiori, le galline, la gente. Nelle serre, i fiori sono sottoposti a illuminazione continua, perché crescano più velocemente. E la notte è proibita anche alle galline, nelle fabbriche di uova.
È un modo di vivere che non è buono per le persone, ma è ottimo per l’industria farmaceutica. Gli Stati Uniti consumano la metà dei sedativi, degli ansiolitici e delle altre droghe chimiche vendute legalmente nel mondo, e oltre la metà delle droghe proibite, quelle vendute illegalmente. Non è cosa di poco conto, visto che gli statunitensi sono appena il 5% della popolazione mondiale.
«Gente infelice, che vive in competizione», dice una donna nel barrio del Buceo, a Montevideo. Il dolore di non essere, un tempo cantato nel tango, ha ceduto il posto alla vergogna di non avere. Un uomo povero è un pover’uomo. «quando non hai niente pensi di non valere niente», dice un tipo nel barrio Villa Fiorito, a Buenos Aires. Confermano altri, nella città dominicana di San Francisco de Macorís: «I miei fratelli lavorano per le marche. Vivono comprando cose firmate, e buttano sangue per pagare le rate».
Invisibile violenza del mercato: la diversità è nemica del profitto, e l’uniformità comanda. La produzione in serie, su scala gigantesca, impone ovunque i propri obbligatori modelli di consumo. La dittatura dell’uniformizzazione è più devastante di qualunque dittatura del partito unico: impone, nel mondo intero, un modo di vita che fa degli esseri umani fotocopie del consumatore esemplare.
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La dittatura del sapore unico
Il consumatore esemplare è l’uomo tranquillo. Questa civiltà, che confonde la quantità con la qualità, confonde la grassezza con la buona alimentazione. Secondo la rivista scientifica «The Lancet», negli ultimi dieci anni l’«obesità severa» è cresciuta di quasi il 30% fra la popolazione giovane dei paesi più sviluppati. Fra i bambini nordamericani, negli ultimi 16 anni l’obesità è cresciuta del 40%, secondo uno studio recente del Centro scienze della salute presso l’università di Colorado. Il paese che ha inventato i cibi e le bevande light, il diet food e gli alimenti fat free, ha la maggior quantità di grassi del mondo. Il consumatore esemplare scende dall’automobile solo per lavorare e guardare la tivù. Quattro ore al giorno le passa davanti allo schermo, divorando cibi di plastica.
Trionfa la spazzatura travestita da cibo: quest’industria sta conquistando i palati del mondo e fa a pezzi le tradizioni culinarie locali. Le buone antiche abitudini a tavola, che si sono raffinate e diversificate magari in migliaia di anni, sono un patrimonio collettivo accessibile a tutti e non solo alle mense dei ricchi. Queste tradizioni, questi segni di identità culturale, queste feste della vita, vengono schiacciate dall’imposizione del sapere chimico e unico: la globalizzazione degli hamburger, la dittatura del fast-food. La plastificazione del cibo su scala mondiale, opera di McDonald’s, Burger King e altre catene, viola con successo il diritto all’autodeterminazione dei popoli in cucina: un diritto sacro, perché la bocca è una delle porte dell’anima.
Il campionato mondiale di calcio del 1998 ci ha confermato, fra l’altro, che la MasterCard tonifica i muscoli, la Coca-Cola porta l’eterna giovinezza e che il menù di McDonald’s non può mancare nella pancia di un buon atleta. L’immenso esercito di McDonald’s spara hamburger nella bocca di bambini e adulti del mondo intero. Il doppio arco di questa M è servito da standard, nella recente conquista dei paesi dell’Europa dell’Est. Le code davanti alla McDonald’s di Mosca, inaugurata in pompa magna nel 1990, hanno simboleggiato la vittoria dell’Occidente con altrettanta eloquenza della demolizione del Muro di Berlino. Segno dei tempi: quest’azienda, che incarna le virtù del mondo libero, nega ai suoi dipendenti la libertà di organizzarsi in sindacato. McDonald’s viola in tal modo un diritto legalmente riconosciuto nei molti paesi nei quali opera. Nel 1997, alcuni suoi lavoratori, membri di quella che l’azienda chiama la Macfamiglia, cercarono di sindacalizzarsi in un ristorante di Montreal in Canada: il ristorante chiuse. Ma nel 1998, altri dipendenti di McDonald’s in una piccola città presso Vancouver, riuscirono nell’impresa, degna del Guinness dei primati.
Gli universali della pubblicità
Le masse consumatrici ricevono ordini in un linguaggio universale: la pubblicità è riuscita là dove l’esperanto ha fallito. Tutti capiscono, ovunque, i messaggi trasmessi dalla tivù. Nell’ultimo quarto di secolo, grazie al fatto che nel mondo le spese per la pubblicità si sono decuplicate, i bambini poveri bevono sempre più Coca-Cola e sempre meno latte, e il tempo prima dedicato all’ozio sta diventando tempo di consumo obbligatorio. Tempo libero, tempo prigioniero: le case molto povere non hanno letti, ma hanno il televisore, ed è questo a dettar legge. Comprato a rate, questo piccolo animale prova la vocazione democratica del progresso: non ascolta nessuno, ma parla per tutti. Poveri e ricchi conoscono, in tal modo, le virtù dell’ultimo modello di automobili, e poveri e ricchi si informano sui vantaggiosi tassi di interessi offerti da questa o quella banca.
Gli esperti sanno convertire le merci in strumenti magici contro la solitudine. Le cose hanno attributi umani: accarezzano, accompagnano, capiscono, aiutano, il profumo ti bacia e l’auto è un amico che non tradisce mai. La cultura del consumo ha fatto della solitudine il più lucroso dei mercati. Le ferite del cuore si risanano riempiendole di cose, o sognando di farlo. E le cose non possono solo abbracciare: possono anche essere simboli di ascesa sociale, salvacondotti per attraversare le dogane della società classista, chiavi che aprono le porte proibite.
Quanto più sono esclusive, tanto meglio è: le cose esclusive ti scelgono e ti salvano dall’anonimato della folla. La pubblicità non ci informa sul prodotto che vende, o lo fa poche volte. Quello è il meno. La sua funzione principale consiste nel compensare frustrazioni e alimentare fantasie: in chi ti vuoi trasformare comprando questa crema da barba?
Il criminologo Anthony Platt ha osservato che i delitti nelle strade non sono solo frutto della povertà estrema, ma anche dell’etica individualista. L’ossessione sociale del successo, dice Platt, incide in modo decisivo sull’appropriazione illegale delle cose altrui. Ho sempre sentito dire che il denaro non fa la felicità; ma qualunque teledipendente ha motivo di credere che il denaro produca qualcosa di tanto simile alla felicità, che fare la differenza è cosa da specialisti.
Secondo lo storico Eric Hobsbawm, il XX secolo ha messo fine a settemila anni di vita umana centrata sull’agricoltura, da quando nel paleolitico apparvero le prime forme di coltivazione. La popolazione mondiale si concentra nelle città, i contadini diventano cittadini. In America latina abbiamo campi senza persone ed enormi formicai umani urbani: le più grandi città del mondo, e le più ingiuste. Espulsi dalla moderna agricoltura per l’export, e dal degrado dei suoli, i contadini invadono le periferie. Credono che Dio sia ovunque, ma per esperienza sanno che abita nei grandi centri. Le città promettono lavoro, prosperità, un avvenire per i loro figli. Nei campi, si guarda la vita passare e si muore sbadigliando; nelle città la vita scorre, e chiama. Poi, la prima cosa che i nuovi arrivati scoprono, ammucchiati nelle catapecchie, è che manca il lavoro e le braccia sono troppe, che niente è gratis e che gli articoli di lusso più cari sono l’aria e il silenzio.
Agli inizi del secolo XIV, frate Giordano da Rivalta pronunciò a Firenze un elogio delle città. Disse che crescevano «perché le persone amano stare insieme». Stare insieme, incontrarsi. Ma adesso, chi si incontra con chi? E la speranza, si incontra con la realtà? Il desiderio, si incontra con il mondo? E la gente, si incontra con la gente? Se i rapporti umani si sono ridotti a rapporti fra le cose, quanta gente si incontra con le cose?
La minoranza compradora
Il mondo intero tende a diventare un grande schermo televisivo, dal quale le cose si guardano ma non si toccano. Le mercanzie in offerta invadono e privatizzano gli spazi pubblici. Le stazioni di pullman e treni, che fino a poco tempo fa erano spazi di incontro fra le persone, si stanno trasformando in spazi commerciali.
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Lo shopping center, o shopping mall, vetrina di tutte le vetrine, impone la sua abbagliante presenza. Le masse accorrono, in pellegrinaggio, a questo grande tempio della messa del consumo. La maggioranza dei devoti contempla, in estasi, oggetti che il portafoglio non può pagare, mentre la minoranza compradora risponde al bombardamento incessante ed estenuante dell’offerta. La folla che sale e scende dalle scale mobili viaggia nel mondo: i manichini sono vestiti come a Milano o Parigi e le automobili hanno lo stesso suono che a Chicago, e per vedere e ascoltare non occorre pagare il biglietto. I turisti che vengono dai villaggi dell’interno, o dalle città che non hanno ancora meritato queste benedizioni della moderna felicità, posano per una foto, davanti alle marche internazionali più famose, come un tempo posavano ai piedi della statua a cavallo nella piazza. Beatriz Solano ha osservato che gli abitanti delle periferie vanno allo shopping center come prima andavano in centro. Il tradizionale struscio di fine settimana al centro della città tende a essere sostituito dalle escursioni a questi centri. Lavati e pettinati, con indosso gli abiti migliori, i visitatori vengono a una festa dove non sono invitati, ma dove possono essere spettatori. Intere famiglie fanno il viaggio nella navicella spaziale che percorre l’universo del consumo, nel quale l’estetica del mercato ha disegnato un paesaggio allucinante di modelli, marche ed etichette.
La cultura del consumo, cultura dell’effimero, condanna tutto alla desuetudine mediatica. Tutto cambia al ritmo vertiginoso della moda, messa al servizio della necessità di vendere. Le cose invecchiano in un baleno, per essere sostituite da altre che avranno una vita altrettanto fugace. L’unica cosa che permane è l’insicurezza; le merci, fabbricate perché durino poco, sono volatili quanto il capitale che le finanzia e il lavoro che le produce. Il denaro vola alla velocità della luce; ieri era là, adesso è qua, domani chissà, e ogni lavoratore è un potenziale disoccupato. Paradossalmente, gli shopping centers, sovrani della fugacità, offrono l’illusione di sicurezza più efficace. Resistono infatti fuori dal tempo, senza età né radici, senza notte né giorno né memoria, ed esistono fuori dallo spazio, al di là delle turbolenze della perigliosa realtà del mondo.
I nuovi idoli
I padroni del mondo lo usano come se fosse un usa e getta: una merce dalla vita effimera, che si esaurisce come si esauriscono, quasi appena nate, le immagini sparate dalla mitragliatrice della tivù e le mode e gli idoli che la pubblicità lancia incessantemente sul mercato. Ma in quale altro mondo potremmo andare? Siamo tutti obbligati a credere che Dio abbia venduto il pianeta a un certo numero di imprese, perché essendo di cattivo umano ha deciso di privatizzare l’universo?
La società dei consumi è una trappola esplosiva. Chi ne ha le redini fa finta di ignorarlo, ma chiunque abbia gli occhi può vedere che la grande maggioranza delle persone consuma poco, poco o niente necessariamente, così da garantire l’esistenza della poca natura che ci rimane. L’ingiustizia sociale non è considerata un errore da correggere, né un difetto da superare: è una necessità essenziale. Non c’è natura capace di alimentare uno shopping center delle dimensioni del pianeta.
da il manifesto del 18 dicembre 2014
* Tratto dal sito www.aporrea.org – Trad. di Marinella Correggia