L’ignoranza della storia e la stoltezza che dilaga

per stefano01

di Stefano Casarino, 17 dicembre 2017

Chiesa parrocchiale di Casella, piccolo comune in periferia di Genova, ottobre 2017: una coppia di quarantenni interrompe la funzione religiosa facendo il saluto romano e inneggiando al Duce.

Sulla pagina Facebook dell’uomo si legge, come ha rivelato Repubblica, “Fascista fino dalla nascita e fascista sino alla morte”.

Facciamo due conti. “Fascista fino dalla nascita”: il “signore” in questione dovrebbe essere nato negli anni Settanta del secolo scorso.

Il fascismo nacque ufficialmente nel 1919 – a proposito, tra due anni ricorrerà il centenario e sarà il caso di pensarci per tempo, a giudicare dall’aria che si sta respirando ora – e morì, a piacere, o il 25 luglio 1943 (con la destituzione e l’arresto di Benito Mussolini) o nell’aprile 1945 (anche qui si può scegliere – ma solo se si conosce un po’ di storia!: o il 25 aprile o il 28 aprile, quando fu fucilato Mussolini, o il 29 aprile con la resa delle ultimi forze della Repubblica di Salò). 

Non dovrebbe poi essere dimenticata – come invece hanno tranquillamente fatto i due coniugi summenzionati – la legge 645 del 1952 (Legge Scelba), che sanziona la ricostituzione del disciolto partito fascista e contempla anche il reato di “apologia del fascismo”. E invece…

E invece, un quarantenne (non un giovincello) nato trent’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale si dichiara, più o meno impunemente, “nato fascista” e interrompe, col consueto garbo littorio, una cerimonia di culto.

E invece, qualcuno discetta con sicumera sul fatto che è troppo sottile il confine tra libera manifestazione del pensiero e reato d’opinione.

E invece, qualcun altro dice che “ben altri” sono i problemi (ad esempio, l’invasione barbarica degli immigrati, lo scempio dello “ius soli”, e via farneticando) rispetto, ad esempio,  alle intemperanze comasche di qualche ragazzaccio dalla testa rasata.

Parlare oggi del pericolo fascista dà fastidio, sa di vecchiume, provoca alzate di spalle, sbuffi infastiditi… Insomma, non è più quel tempo e quell’età!

Davvero?

Non stiamo invece colpevolmente, stoltamente, assurdamente sottovalutando il crescere di un fenomeno che è ogni giorno più evidente, in Italia e in Europa? Non stiamo abbassando sempre più le difese – culturali ed etiche, per me l’una il rovescio della medaglia dell’altra – di fronte ad episodi di intolleranza, di razzismo, di violenza che sono sempre e comunque parenti prossimi, ingredienti essenziali di quel “fascismo” dal quale è bene non credere di essersi liberati per sempre?

Chi scrive fu studente in un tempo in cui la Resistenza veniva idolatrata.

Poi venne il tempo dell’analisi più attenta e rigorosa, si passò dalla mitizzazione ai distinguo, si scoprì che non tutti i partigiani furono eroi.

Ma non bastò, non ci si fermò a questo.

Si arrivò a dire che in fondo moltissimi erano solo dei ragazzi, che fu più o meno casuale che qualcuno avesse preso la strada dei monti e qualcun altro avesse militato tra i repubblichini.

Si parlò, e non senza ragione, del “sangue dei vinti” e si finì per disonorare i vincitori.

Si liquidò come vieta retorica ogni riflessione sulla libertà, un valore che oggi certamente non fa mercato né audience.

Si arrivò a dire tranquillamente che durante il Ventennio si stava meglio di ora, che i treni arrivavano in orario e altre amenità, più o meno criminali, del genere.

E, soprattutto, si ridusse il tempo da dedicare e l’importanza della Storia come materia a scuola.

E, soprattutto, in molte case i nonni smisero di raccontare ai nipoti cosa era successo durante la guerra, quali meravigliose sorti di benessere avesse garantito l’Uomo della Provvidenza, come fosse salutare la dieta autarchica imposta dal regime, e che bello non andare a scuola per i bombardamenti e vedere case e strade saltare allegramente davanti agli occhi…

Dopo l’esaltazione, la rimozione della Resistenza.

Dopo l’esecrazione per il fascismo, il “ma in fondo non fu così male”.

E siamo arrivati ad oggi, al nostro presente in cui non riusciamo più nemmeno ad indignarci per i fatti genovesi sopra ricordati e in cui riaccogliamo in Italia, in un posto stupendo come il Santuario di Vicoforte a Cuneo, la salma di chi ha dato il 29 ottobre 1922 l’incarico di formare il governo a Benito Mussolini a seguito della farlocca Marcia su Roma – che il “Duce” si guardò bene dal guidare di persona, restandosene a Milano,  pronto a varcare il confine con la Svizzera, prevedendone il sostanziale fallimento – e firmò nel 1938 le abominevoli leggi razziali, indelebile macchia d’infamia della nostra storia e, infine, fuggì nella notte tra l’8 e il 9 settembre 1943 ignominiosamente da Roma a Brindisi, rinunciando di fatto al suo ruolo di supremo capo delle forze armate e lasciando senza guida e nella massima confusione i nostri soldati: diserzione e tradimento, secondo il Codice Militare.

E tutto questo fatto alla chetichella, all’insaputa della pubblica opinione che si trova di fronte al fatto avvenuto e che però magari in maggioranza può pensare che, in fondo, ben altre sono le cose che ci preoccupano, non certo la traslazione della salma di un antico sovrano dimenticato da tutti: la crisi che non finisce, il lavoro che non c’è, lo Stato che non funziona.

C’è troppa confusione in giro, dobbiamo tornare all’ordine e magari a i tempi in cui:

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari,

 e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei,

e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,

 e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti,

e io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me,

e non c’era rimasto nessuno a protestare.  (Martin Niemöller).


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