Fonte: huffingtonpost
di Alessandro De Angelis – 12 gennaio 2018
Alla fine, quando si consumerà il rituale degli appelli dei padri nobili, dei giochi tattici (meno nobili) perché, si sa, ognuno tende a lasciare il cerino nella mani dell’altro, e delle successive recriminazioni, alla fine, dicevamo, accadrà, con molta probabilità, questo: la sinistra di Liberi e Uguali sosterrà la candidatura di Nicola Zingaretti nel Lazio, mentre in Lombardia non sosterrà quella di Giorgio Gori.
Formalmente la scelta è affidata alle assemblee regionali di Leu che si riuniranno nella giornata di domani, ma l’esito è pressoché scontato tanto che, a quella di Cinisinello Balsamo, parteciperà Nicola Fratonianni, presenza che certo non è sinonimo di accordo col Pd. Pesa in Lombardia la “rivolta” della base e anche dei dirigenti che considerano il renzianissimo Gori “un uomo di destra”, ostile alla sinistra anche nel corso della sua esperienza amministrativa a Bergamo. Pesa, in tutta questa storia, l’intreccio dei due livelli, nazionale e locale, perché in una giornata di election day c’è un inevitabile effetto traino che alimenta, attraverso il voto sui presidenti, il voto utile per il partito maggiore, il Pd. Pesano anche, però, le contraddizioni all’interno del nuovo soggetto nato a sinistra del Pd. Dice un big di Mdp: “La situazione è questa. Fratoianni vorrebbe rompere ovunque e intercetta anche un umore della base. C’è il grosso di Mdp che farebbe l’alleanza col Pd, a partire da Enrico Rossi. Civati invece dice: facciamo la stessa cosa nelle due regioni, purché sia la stessa, e invoca una linearità”. E Pietro Grasso non ha la forza, la libertà, la fantasia di un leader capace di una mossa del cavallo, che spiazzi, stupisca, faccia discutere.
La soluzione, al termine di un pomeriggio di riunioni “franche e schiette”, come si sarebbe detto una volta, è di alleanze a macchia di leopardo. Certo, il profilo dei candidati non è lo stesso: Zingaretti, uomo di sinistra, governatore uscente sostenuto da Liberi e Uguali, ha rifiutato l’alleanza con i centristi della Lorenzin, e ha dato più di un segnale alla sinistra, diversamente da Gori. E per Bersani, Speranza e gli altri sarebbe stato assai complicato sostenere il candidato della sinistra-sinistra, il verde Paolo Cento, il simpatico “Er Piotta”, come lo chiamano a Roma, contro un governatore sostenuto finora. Insomma, tra specificità locali e logica nazionale, questa posizione – Zingaretti sì, Gori no – consente di dire: “Non siamo i signor no, ma non siamo neanche appiattiti sul Pd”.
Ecco: “Non siamo i signor no, ma neanche appiattiti sul Pd”. Un compromesso che ripropone la contraddizione di fondo di questo progetto, e cioè proprio il “chi siamo”, perché il tema delle alleanze qualifica una forza politica. Perché, sin dall’inizio, convivono due anime. C’è chi immagina una forza più radicale, alla Corbyn, che mira al ribaltamento delle politiche economiche di questi anni, considerando il Pd un anello della catena liberista che ha imprigionato il paese. E che dunque si definisce nel suo essere alternativa al Pd, nella politica e nelle alleanze, come unico modo per rompere questa catena. E c’è chi, come gli ex Pd, si muove ancora nel campo di un “centrosinistra senza Renzi”, rappresentandone l’ala più rigorosa nel programma e nella moralità.
Il problema è che nessuno, ancora, ha formulato un’idea di partito, robusta culturalmente e solida politicamente, capace di far attraversare questo “guado” identitario mentre la leadership di Grasso, moderata e istituzionale, suggerisce l’opzione a favore della seconda “riva”, quella di un nuovo centro-sinistra di governo (senza Renzi). E non è un caso che, in parecchi a partire da Giorgio Gori, hanno avuto la sensazione che, se fosse stato per il presidente del Senato, l’alleanza si sarebbe fatta anche in Lombardia. Perché è tradizione della sinistra riformista e di governo separare il piano locale e piano nazionale, come ai tempi in cui Pci e Psi governavano assieme importanti città italiane anche mentre lottavano aspramente sulla scala mobile, per dirne una. In mancanza di un’idea comune di partito invece, cozzano le logiche dei soci fondatori. Tra chi sta ancora dentro il Pd, aspettando solo il minuto in cui, se mai arriverà, Renzi toglierà il disturbo. E una certa mentalità gruppettare che porta, eccone un’altra, a mettere il veto sulla candidatura di Bassolino a Napoli, che pur fu accolto come una star alla festa nazionale di Mpd.
Insomma, questa vicenda della “macchia di leopardo” racconta di un rapporto ancora tutto irrisolto tra Pd e Liberi e Uguali, ennesimo strascico di una “scissione”, ancora non consumata ed elaborata fino in fondo, ma non solo da chi dal Pd se ne è andato. Perché le alleanze, o le non alleanze, o le alleanze a metà, si fanno in due e neanche dal Nazareno sono arrivati tutti questi segnali per trovare un filo comune di buon senso, da parte di un leader preoccupato, e non da oggi, più dalla ricerca di una rivincita sulla sinistra che dalla costruzione di una prospettiva comune con la sinistra. Come prima della rottura del Pd, come ai tempi in cui si discuteva di alleanze, anche sulle regionali cadono nel vuoto gli appelli dei padri nobili, da Prodi e Veltroni, perché – dopo l’appello – nessuno si fa carico di tradurlo in politica: contenuti, programmi, incontri comuni, telefonate e non solo interviste per dimostrare che è colpa dell’altro, riproponendo il vecchio mantra del “così vince destra”, ma senza tentarle tutte, ma proprio tutte, affinché questo non accada.