Fonte: il manifesto
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LIBERI SERVI – di GUSTAVO ZAGREBELSKY – ed. EINAUDI
La trappola della servitù volontaria
Il più inquietante ed oscuro giallo della vicenda umana ha come trama fondamentale il potere. Un giallo che per troppo tempo, e forse ancora oggi, ci si è illusi di svelare concentrando l’attenzione principalmente (quando non soltanto) su quelli che Tacito chiamava i misteri del potere (arcana imperii). Come se questi disegni misteriosi dovessero provenire, ipso facto, da una realtà già costituita che si avvale di quella sua forza per sottomettere delle vittime ignare e impotenti.
Eppure il vero meccanismo segreto che costituisce il potere e lo rende sovrano, avviene quando esso non è ancora tale (almeno non in forma compiuta), grazie a una sorprendente alleanza con quello che si rivela il complice più formidabile, impensabile ed efficace del potere stesso. Quello che, in un giallo perfetto, si rivela essere il vero colpevole che abbiamo avuto sempre sotto gli occhi senza riuscire a scorgerlo mai. Perché come sapevano bene gli antichi, a partire da Omero e dal suo Tiresia, coloro che sanno vedere oltre e lontano, in un mondo oscurato dai bagliori del potere e dei suoi corifei, sono proprio i ciechi. Mentre invece i nostri occhi sono abbacinati da fin troppe luci fastose e spettacolari, ed è in questa orgia di immagini velanti che, lo dimentichiamo volentieri, gli occhi diventano orbi anche per la troppa luce, oltre che per il buio (Platone, mito della caverna).
In nome della sicurezza
È in quella felice dimenticanza che un esperto lettore di gialli individuerebbe l’indizio fondamentale per scorgere il misterioso colpevole. Già, ma allora chi è questo segreto, impensabile, controverso complice del Potere, che lo aiuta a costituirsi a guisa di un idolo i cui dogmi diventano indiscutibili e impenetrabili? La vittima. Noi stessi. L’essere umano, che stando all’insegnamento di Freud rinuncia presto e volentieri a quella che è una delle cause maggiori della sua angustia ed inquietudine. La libertà. A cui l’uomo rinuncia in cambio della sicurezza. Di una tutela superiore che gli può essere fornita da un potere vissuto come onnisciente e onnipotente proprio perché siamo stati noi a concedergli le chiavi tanto della nostra anima quanto del nostro corpo. Una vicenda che affonda le sue radici nella notte dei tempi, quella del potere a cui l’uomo si sottomette per scelta consapevole e agognata. Ma che raggiunge la sua apoteosi concettuale e letteraria nella Leggenda del Grande Inquisitore, narrata da Dostoevskij in un capitolo memorabile e controverso del suo I fratelli Karamazov.
A ricostruire tale vicenda della miseria umana di fronte al potere, incentrandola sul dialogo dell’Inquisitore con Gesù, declinato al tempo stesso a guisa di costante termine di paragone e apoteosi della vicenda stessa, è Gustavo Zagrebelsky in un sapiente e denso volume come Liberi servi. Il Grande Inquisitore e l’enigma del potere (Einaudi, pp. 292, euro 30). Volume, sia detto per inciso, il cui difetto più grande e forse unico è attribuibile all’editore, che lo ha stampato senza indice tematico né dei nomi, spoglio di quella cura editoriale che sarebbe necessaria (e anche redditizia) per un testo così importante.
Che l’uomo si sia sempre sottomesso al potere in seguito a una scelta ragionata, è un fatto che l’autore ricostruisce con innegabile maestria. Ma a sorprendere è l’inquietante salto qualitativo che avvertiamo tra le pagine del grande scrittore russo. Sì, perché in lui non leggiamo più di un uomo la cui aspirazione massima è la libertà, di cui pure è disposto a sacrificarne una parte in favore di un potere che gli garantisca anche protezione. Bensì la storia, inenarrabile, inconcepibile, perfettamente capace di negare integralmente l’immagine illuministica che vogliamo avere dell’essere umano, è quella di un uomo che per natura è portato a rifuggire la libertà. Il suo è un vero e proprio anelito all’addomesticamento, alla servitù volontaria e dispensatrice di ogni insidiosa e disagevole responsabilità.
Il palazzo di cristallo
Da queste fondamenta sotterranee e per troppo tempo tenute all’oscuro, si erge il grande «palazzo di cristallo» del vero potere. Quello che togliendo agli uomini la libertà si mostra loro (e viene da essi rispettato) a guisa di un benefattore che esegue i dettami della natura. A differenza di quel Cristo che invece, col suo lottare per la libertà dell’uomo e in generale per affermare i valori dell’umanità, si rivela il vero nemico del genere umano, colui che lo grava del peso più tragico e insostenibile.
Quella di Dostoevskij si rivela a tutti gli effetti come una potente e oscena tras-valutazione di tutti i valori in forma letteraria (su fondamenti molto simili rispetto a quella che Nietzsche stava compiendo in forma filosofica).
Al Cristo che si presentava come «la Verità» («ego sum veritas») il Pilato ammirato da Nietzsche rispondeva in maniera beffarda: «Quid est veritas?» (che cosa è verità?). Al Cristo silente di Dostoevskij, invece, l’Inquisitore tormentato (perché è lui a farsi carico della tragica verità del genere umano) imputa una colpa originaria e inemendabile: aver condannato l’umanità a quella libertà da cui lui, per il bene dell’umanità stessa, si è dato il compito di liberarla.
In questo modo, secondo Zagrebelsky, Dostoevskij mette in scena il momento fondativo e originario del potere come lo conosciamo oggi. Ossia un potere (che Michel Foucault avrebbe definito «governamentale») tecno-finanziario, che si fa amare dalle sue stesse vittime perché regala loro il grande spettacolo della finzione illusoria ma rassicurante. Perché non governa contro la libertà, ma per mezzo di quella stessa libertà che gli uomini non vogliono e che quindi li spinge a conformarsi autonomamente a determinate norme.
In cui essi, alla stregua di «negri bianchi», si sottomettono totalmente ai dogmi del «potere pastorale» in cambio della «carità organizzata», cioè della possibilità di consumare i frutti del proprio lavoro nei grandi «palazzi di cristallo» che oggi sono i centri commerciali. Oppure di divertirsi tra le maglie isolanti e massificanti al tempo stesso della grande Rete virtuale.
Quello di Zagrebelsky è un libro che, con densità di riferimenti, sapienza e chiarezza di linguaggio, racconta lo scandalo indicibile del mondo umano. Segretamente desideroso di vendere al Diavolo la propria figlia primogenita. Libertà.
da einaudi.it
Dostoevskij tornò da un viaggio a Londra profondamente turbato: invece di cogliervi il brivido luminoso del progresso – erano i giorni della prima Esposizione universale – aveva scoperto che in quella città regnava l’irrimediabile solitudine e la rassegnata disperazione di un’umanità sottomessa. Aveva sperimentato il trauma immedicabile della profezia: affacciatosi sul futuro, aveva passeggiato nel cantiere del mondo d’oggi per ritrarsene spaventato. Questa illuminazione mediante le tenebre avrebbe trovato felice compimento nel capitolo dei Fratelli Karamazov dedicato al Grande Inquisitore. In esso Dostoevskij affronta temi cruciali che riguardano la filosofia morale, la politica, la filosofia della storia e della religione: pagine taglienti di grande letteratura, in grado di scavare nell’animo umano senza schermi o mediazioni. Con lucida passione, questo libro coglie ogni aspetto del celebre testo, inquadrandolo dapprima all’interno dell’opera e della poetica dello scrittore russo, per metterlo poi in relazione con il pensiero politico della modernità, approfondendo infine le tante riflessioni che da esso scaturiscono. All’autore interessano soprattutto gli aspetti legati alla teoria del potere; e nel monologare dell’Inquisitore di fronte al Cristo silenzioso – fino all’enigmatico bacio finale – ritrova numerosi e sbalorditivi agganci con il nostro tempo presente, che per molti aspetti sembra dare compimento al cinico nichilismo dell’Inquisitore: su tutti, la tendenza degli uomini ad accettare di vedersi sottrarre la vera libertà scambiandola per quella misera e obbediente di un apatico conformismo.
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«Nel punto in cui, con l’annuncio di propositi suicidi, culmina il disgusto di Ivàn Karamazov per il male assurdo e ingiustificato del mondo, illustrato con brevi e sconvolgenti quadri della malvagità umana tratti non dalla fantasia ma dall’osservazione, Dostoevskij introduce l’atto d’accusa contro il Cristo, responsabile di tanta afflizione. L’Inquisitore propone l’inquisizione come rimedio, come medicina efficace per estirpare la causa del male che affligge l’umanità. La causa è la libertà. “Sei venuto a portare nel mondo la libertà. Ma la libertà, per le tue creature, è solo impazienza e sofferenza. È un dono, ma avvelenato”. Si può restare indifferenti di fronte a una tale sentenza? No, non si può. Essa contiene, sí, una condanna del Cristo ma la condanna presuppone una concezione della natura umana. L’Inquisitore e, con lui, gli inquisitori di ogni tempo e di ogni specie dicono di noi che, per la nostra costituzione psichica, siamo refrattari alla libertà e cosí giustificano – per il nostro bene – l’inquisizione. Per l’Inquisitore, questa è una constatazione. Per noi che leggiamo le sue parole, è una provocazione all’acquiescenza o alla resistenza. Per questo siamo messi di fronte a una scelta che presuppone un’opera di autocoscienza».