“Sei lezioni di economia”: un libro per capire la crisi dell’Europa

per Gabriella
Autore originale del testo: Vladimiro Giacché
Fonte: micromega
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di Vladimiro Giacché 13 dicembre 2016

Giunti al termine delle “Sei lezioni di economia” di Sergio Cesaratto si hanno due certezze. La prima è che il testo di Cesaratto è molto di più di un libro di lezioni di economia: è senz’altro un compendio delle principali teorie economiche tra Otto e Novecento, ma anche una storia economica d’Italia dagli anni Settanta in poi, una ricostruzione molto accurata della crisi europea dal 2010 a oggi, e anche – aspetto quest’ultimo da leggersi un po’ in filigrana, ma importante – una ragionata e al tempo stesso appassionata ricostruzione dell’itinerario intellettuale del suo autore nel contesto delle controversie economiche degli ultimi decenni. La seconda certezza è che si tratta senz’altro di uno dei più importanti contributi al dibattito economico italiano degli ultimi anni. Se la seconda certezza rende più gratificante il compito del recensore, la prima lo rende più arduo, costringendo a selezionare tra gli aspetti del libro da trattare: selezione che necessariamente sacrifica qualcosa.

In questa sede ci si occuperà della ricostruzione della crisi europea offerta da Cesaratto, e non senza rammarico: le pagine sulla rivoluzione incompiuta di Keynes e sulla conseguente successiva riconduzione di questo autore nell’alveo della teoria marginalista (riconduzione che Cesaratto considera forzata, ma fondata su alcuni limiti del suo pensiero) avrebbero meritato pari attenzione (lo stesso non si può dire purtroppo delle pagine sbrigative dedicate a Marx, e in particolare alla teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto: che, a differenza di quanto sembra pensare l’autore, non è una spiegazione delle singole crisi, ma un’interpretazione delle tendenze di lungo periodo del modo di produzione capitalistico).

Ma veniamo quindi alla storia della crisi europea, esplosa nel 2010 e non ancora finita. Cesaratto mostra molto bene come non si sia trattato di una crisi del debito pubblico, ma di una crisi del debito (nei confronti dell’)estero, privato prima ancora che pubblico: in ultima analisi, di una crisi da squilibri delle bilance commerciali. Dopo l’avvio della moneta unica, questi squilibri sono stati in una prima fase (sino al 2007) alimentati dalla liberalizzazione dei movimenti di capitale, nonché dalla fine del rischio di cambio e dalla convergenza dei tassi di interesse all’interno dell’eurozona. Se la fine del rischio di cambio ha determinato un incremento dei commerci transfrontalieri, la convergenza dei tassi d’interesse ha significato una politica monetaria fortemente espansiva per i paesi che avevano tradizionalmente tassi d’interesse più elevati: è quindi aumentata in questi paesi la propensione a spendere e a indebitarsi. In particolare a vantaggio della Germania, che ha sfruttato le politiche espansive altrui per espandere il mercato di sbocco dei propri prodotti. Ma attenzione: ha potuto farlo grazie al fatto di mantenere i salari ben al di sotto degli aumenti di produttività, e anzi di ridurli in termini reali. In concreto, come ha ricordato l’economista tedesco Peter Bofinger in un suo articolo, “dal 1999 al 2008, i costi unitari del lavoro nell’economia tedesca sono rimasti più o meno costanti. Nel settore manifatturiero… sono scesi di quasi il 9%”.

Il tanto decantato “modello tedesco”, come dice bene Cesaratto, è un mercantilismo monetario che ha il suo cardine in questa moderazione (o meglio deflazione) salariale e nel conseguente mantenimento di un tasso d’inflazione costantemente inferiore a quello degli altri paesi dell’eurozona. In assenza del riequilibrio rappresentato dall’aggiustamento dei rapporti di cambio (reso impossibile dall’introduzione dell’euro), tale modello ha consentito alla Germania di accumulare guadagni di competitività crescenti nei confronti degli altri soci del club dell’euro, dando un vantaggio incolmabile alle sue esportazioni. Le pagine del libro di Cesaratto che mostrano come il mercantilismo monetario della Germania rappresenti la vera invariante nello sviluppo economico di quel paese, almeno dagli anni Cinquanta, sono tra le più illuminanti del testo: la novità è ovviamente che con l’euro tale strategia non incontra più alcun ostacolo.

Prima dello scoppio della crisi, la Germania (come pure la Francia) finanziava i paesi che si indebitavano per comprare i suoi prodotti. Con il sudden stop a questi finanziamenti, avvenuto prima a causa di problemi domestici delle banche tedesche (gran parte di esse erano fallite nella “fase americana” della crisi, tra 2008 e 2009, e pur venendo risuscitate a suon di ingentissimi aiuti di Stato, hanno ovviamente dovuto ridurre le esposizioni su altri paesi), poi con l’emergere dei problemi della Grecia (il cui debito estero – osserva correttamente Cesaratto – aveva preso la forma di debito pubblico, mentre in Irlanda e Spagna quella di debito bancario), lo scenario cambia completamente. Il mancato sostegno della BCE alla Grecia, e contemporaneamente il rifiuto di ristrutturarne il debito nel 2010 (al fine di consentire alle banche tedesche e francesi di rientrare senza danni dalle forti esposizioni sul paese ellenico), rendono incontrollabile la crisi greca e determinano la cosiddetta crisi dei debiti sovrani in Europa: i mercati finanziari non danno più per scontato che il rischio sovrano sia eliminato dai paesi dell’eurozona per la sola presenza della moneta unica, ed anzi cominciano a prezzare il cosiddetto redenomination risk, ossia il rischio che i titoli di Stato possano essere ridenominati in valute nazionali che svaluterebbero e quindi ridurrebbero il valore dei titoli in mano dei creditori esteri (qui Cesaratto fa bene a osservare che il rischio di questa ridenominazione tramite il ritorno a una valuta nazionale, e non il rischio di default, è al centro dell’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato dei paesi interessati dalla crisi). Questo dà luogo a un vero e proprio effetto domino in cui sempre nuovi paesi entrano in crisi: Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e infine Italia sono presi nel vortice di impennate dei rendimenti dei titoli di Stato. Esse peggiorano la situazione debitoria dei paesi interessati e quindi alimentano un circolo vizioso. Vi si risponde con interventi di “salvataggio”: in realtà nuovi prestiti, concessi a fronte di politiche di austerity inique e fortemente depressive della crescita (in Italia, come noto, abbiamo avuto soltanto le politiche di austerity).

Cesaratto mostra molto bene, in pagine di esemplare chiarezza (è uno dei pregi di questo libro), che tutte le politiche europee dallo scoppio della crisi greca in poi sono state condotte all’insegna della protezione dei creditori esteri. Le stesse politiche di austerity, ci dice l’autore, non sono “volte a ridurre il debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo, bensì il debito estero”. Infatti “I tagli al settore pubblico e gli aumenti delle imposte determinano il crollo della domanda aggregata e della crescita. Il Paese comincia così a importare di meno e, a parità di esportazioni, passa a un avanzo commerciale… Con un adeguato avanzo delle partite correnti il paese può cominciare a restituire il debito estero (oltre che pagare gli interessi)”. Si può aggiungere che purtroppo questa cura “lacrime e sangue” ha la non piccola controindicazione di colpire severamente chi produce solo per il mercato domestico, di aggravare la disoccupazione e impoverire il paese interessato. Ma, finché quest’ultimo potrà onorare il suo debito, la cosa non interessa troppo ai paesi creditori, ai quali anzi fa senz’altro comodo qualche concorrente locale in meno.

Il fatto è che a un certo punto i mercati finanziari, che sanno fare di conto più dei politici austeritari, osservano che il rapporto debito/pil dei paesi in crisi è peggiorato, cominciano quindi a mettere in questione la solvibilità dei paesi interessati e con essa la sostenibilità della stessa moneta unica. A questo punto, siamo nell’estate 2012, i paesi creditori cominciano a impensierirsi e – magicamente – la BCE annuncia che sosterrà la moneta unica anche tramite acquisto dei titoli di Stato dei paesi in crisi; in seguito comincerà a comprare per davvero titoli di Stato per ridurne i rendimenti. Cioè a fare quello che avrebbe dovuto fare nel 2010, e che avrebbe risparmiato all’Europa (e soprattutto ai ceti popolari dei paesi in difficoltà) l’aggravamento della crisi. Ma siccome questa politica monetaria ultraespansiva (sui cui molteplici effetti rinvio alle pagine chiarissime dell’autore) continua a coesistere con politiche economiche che deprimono la crescita, e soprattutto con squilibri crescenti tra le condizioni economiche dei diversi paesi dell’area monetaria, la crisi non è affatto risolta. Né, ci dice Cesaratto, può essere risolta. “L’euro – spiega Cesaratto – è infatti come la centrale di Chernobyl: ha dapprima portato devastazione attorno a sé, per essere poi racchiuso in un sarcofago di cemento – con Draghi capocantiere – entro cui, tuttavia, esso continua a bruciare e a essere pronto a esplodere di nuovo”.

Poi va alle radici del problema: l’unione monetaria si presenta come un’unione imperfetta, ma da almeno un punto di vista è stata un successo: in quanto “strumento disciplinante delle classi lavoratrici, in particolare nell’indisciplinato sud, Francia inclusa”. Per due motivi: in primo luogo, se le regole di ingaggio dell’eurozona prevedono che vince chi fa deflazione salariale, i giochi sono fatti. Inoltre, l’Unione Europea “svuota del tutto lo Stato nazionale dei poteri monetari e fiscali, privando le classi lavoratrici del loro terreno naturale di conflitto: il proprio Stato nazionale”.

Qui si apre una questione di grande momento per la sinistra, una buona parte della quale in questi anni è caduta in un doppio errore: quello di identificare internazionalismo ed europeismo da un lato, europeismo e Unione Europea dall’altro. È ovvio che, sulla base di tale doppia falsa equivalenza, e della conseguente speranza – non per caso sempre declinata in termini vaghi e generici – in un’“altra Europa”, la sinistra si trovi inerme e inane di fronte al processo di generalizzato rollback di ogni diritto sociale conquistato negli scorsi decenni che oggi ha luogo in Europa (nell’unica che abbiamo: quella realmente esistente e non sognata).

A questo riguardo non si può che dare ragione all’autore, quando afferma che “per la sinistra è purtroppo difficile da riapprendere l’idea che il proprio spazio nazionale coincide con lo spazio entro cui si gioca il conflitto distributivo, ovvero l’humus della democrazia. Non era così quando lotta per il socialismo e lotta per l’indipendenza nazionale coincidevano”. Come uscire da questa impasse? In realtà basterebbe riappropriarsi di due verità in fondo semplici: che la “globalizzazione” non è mai stata un processo di liberazione, se non dei capitali; e che quell’Unione Europea che dovrebbe rispondere alle “sfide della globalizzazione”, ma lo fa con trattati che erigono a principio la “forte competizione” (basata su dumping sociale e dumping fiscale) all’interno dell’Unione stessa e con una banca centrale il cui unico obiettivo è la “stabilità dei prezzi”, è parte del problema e non della soluzione. Anzi, con l’euro, come osserva giustamente Cesaratto, “si completa la globalizzazione: non solo il capitale si sottrae al conflitto delocalizzando, ma anche lo Stato si fa evanescente – di esso rimane solo il sorriso beffardo del gatto di Alice lassù da Bruxelles o Berlino”.

Il percorso di (ri)apprendimento che Cesaratto propone alla sinistra è senz’altro difficile, dopo decenni di retorica europeista. Vi è solo da sperare che esso avvenga senza perdere altro tempo, prima che i danni inferti alla nostra economia, ai diritti del lavoro, alla democrazia stessa siano irreparabili. Tra gli attrezzi di cui dotarsi per affrontare questo percorso, il libro di Cesaratto occupa senz’altro una posizione di rilievo.

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