Lettera a un figlio su Mani pulite

per Gabriella
Autore originale del testo: PIERO COLAPRICO
Fonte: La Repubblica
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 LETTERA A UN FIGLIO SU MANI PULITE – di GHERARDO COLOMBO – ed. GARZANTI

intervista a Gherardo Colombo di Piero Colaprico

GHERARDO Colombo, 68 anni, magistrato al centro di indagini famose anche per la storia italiana, poi “insegnante”, a suo modo, di costituzione, regole, criteri di comportamento. “Quando sono uscito dalla magistratura, tra adulti e minori, per cinque anni ho fatto 400 incontri all’anno, mentre adesso per vari motivi ho ridotto a un’ottantina. Ma ad alcuni, realizzati in collegamento satellitare con duecento cinema, partecipano anche 25 mila persone, tra studenti ed insegnanti”. Ha appena scritto Lettera a un figlio su Mani pulite ( Garzanti, pagg. 94, euro 10).

Permetta una battuta. Perché regalare a un figlio una “lettera su Mani pulite”? Non era meglio un viaggio, o un iPad?
“Non sono alternativi, è importante che i giovani sappiano anche che cosa è successo prima della loro nascita, o quando erano piccoli e non avevano consapevolezza di quel “presente”. Per vivere compiutamente l’oggi, per poter fare delle scelte, bisogna conoscere il passato”.

Quando parla di regole, crede di essere ascoltato dai giovani?
“I giovani sono creatori di regole continuamente. Magari inconsapevolmente, e sono abituati a gestirle. Anche un videogame è pieno di regole, no? È importante capire che le regole della vita sociale non hanno un senso diverso, servono  –  se sono giuste  –  a far vivere meglio le persone insieme. Non ho fretta, so che i cambiamenti sono lenti. Né mi aspetto che un incontro o un libro facciano la differenza, ma penso che possano senz’altro far riflettere. Non tanto sull’inchiesta Mani pulite, quanto sul modo di organizzare i rapporti sociali e di interpretare il senso della funzione pubblica che attraverso quell’inchiesta è emerso. E magari si riesce a capire che, tra i tanti modi possibili di stare insieme, quello di Tangentopoli non è stato e non è in grado di farci stare meglio”.

Oggi la corruzione prosegue. Perché dunque leggere storie di un quarto di secolo fa?
“Noi facciamo esperienza in due modi. O direttamente o usufruendo dell’esperienza altrui. E la lettura è uno degli strumenti di fruizione dell’altrui, un’esperienza più coinvolgente perché il lettore entra nel racconto, ne fa parte. Ripercorrendo Mani pulite si coglie, così almeno a me è successo, che se si vuole ottenere un risultato non si può delegare l’impegno ad altri. Invece in Italia è stato  –  e tuttora è, a mio parere  –  come se gli altri poteri avessero detto alla magistratura “Pensateci voi”, invece di impegnarsi direttamente per il bene comune. E così credo abbiano fatto molti cittadini, che hanno pensato  –  e anche oggi pensano  –  che la tutela del “bene comune”, fosse compito di qualcun altro”.

Vede ancora qualcuno del pool?
“Tutti, anche se il rapporto è meno frequente. Solo Di Pietro l’ho perso di vista, ha preso un’altra strada”.

La formula della “Lettera a…” si usa di più in letteratura che nei saggi.
“Il titolo dovrebbe esprimere l’intenzione: avrebbe anche potuto essere “Mani pulite spiegato ai ragazzi”, ma mi è sembrato che scrivere una lettera non mi avrebbe messo “in cattedra”. Mi interessa che i destinatari non pensino di dover imparare, ma di essere interlocutori in un confronto. Che è poi ciò che cerco di fare anche quando incontro i giovani nelle scuole”.

Nelle quasi cento pagine, lei usa un tono da testimone, di chi dice “Io c’ero e vi dico le cose come stanno”, come mai?
“Appunto, di testimone che narra ciò cui ha assistito evitando di sovrapporre un punto di vista alla realtà. Penso di esserci riuscito, anche se della prospettiva soggettiva non ci si libera mai completamente “.

Si percepisce infatti l’arrabbiatura per l’inchiesta P2, quando lei e Giuliano Turone scopriste le liste della Loggia massonica ben inserita dentro la fragile democrazia italiana, ma l’inchiesta vi fu portata via…
“Mi ha turbato di più la fine di un’altra inchiesta, quella sui fondi neri dell’Iri. Nel caso della P2 era la prima volta, e ho creduto fosse un infortunio che potesse succedere. Ma la volta successiva ero sul punto di dimettermi. Mandai per decisione della Cassazione le carte a Roma nel 1985, erano trenta anni fa. Nel giro di poco tempo fu chiusa un’inchiesta che aveva permesso di scoprire fondi neri per 360 miliardi di allora, che, se coltivata, avrebbe probabilmente anticipato l’emersione di quel sistema diffuso di corruzione poi portato alla luce nel corso di Mani pulite. La delusione fu cocente. E anche in seguito fu deludente constatare che l’evidenza di un sistema di corruttela capillare era servita, dopo una prima fase di sconcerto, più a far cambiare le leggi che a far cambiare il sistema”.

Cos’è cambiato da allora?
“Non molto. Sono convinto che scoprire i reati sia necessario per ristabilire le regole e restituire dignità a chi ne ha patito gli effetti. Ma non è attraverso il processo penale che cambia la cultura di una comunità. Il perno decisivo del cambiamento, della crescita civile per me è diventato quello dell’educazione, del capire e far capire che è importante non guardare solo alla possibile corruzione degli altri, ma anche alla propria disponibilità ad accettare o tollerare comportamenti corruttivi, o, in genere, non rispettosi dei diritti degli altri”.

Frase che fa pensare alla sofferenza per quello che nel libro lei chiama “tradimento” da parte di alcuni ufficiali della finanza…
“Ho nella guardia di finanza amici, che stimo moltissimo, ma il fatto che durante Mani pulite ci fossero persone che investigavano su altri, e nello stesso tempo si erano fatte e si facevano corrompere anche loro, è ancora oggi difficile da mandar giù”.

Nel libro lei ricorda Giovanni Falcone, si spiega come mai per i giovani resta un mito?
“Sono stati tanti i morti ammazzati, l’elenco è lungo, però la particolarità di Falcone e poco dopo di Borsellino non sta solo negli attacchi così clamorosi che hanno subito, quanto nel fatto che sono stati colpiti in un periodo speciale. Forse i ragazzi non possono fare distinzione, ma dagli adulti quella tragedia dev’essere stata tramandata come un “attentato alla speranza”. C’era il giudice Caponnetto che aveva detto: “È finita”. Poi, per fortuna, non è stato così”.

Conosceva Caponnetto?
“È stato Nino Caponnetto, il “capo” di Falcone e Borsellino durante le indagini più incisive sulla mafia, a iniziarmi all’importanza di coinvolgere i giovani. Ho cominciato a girare nelle scuole con lui, e potuto vedere il loro coinvolgimento sul senso delle regole e la loro disponibilità a rifletterci insieme. Così, finiti i processi di Mani pulite, dopo un paio d’anni in cassazione, ho deciso di lasciare la magistratura con quattordici anni di anticipo e di immergermi nel mondo dell’educazione”.

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