Lettera tra il santuario andaluso del Rocìo, la leggendaria Shangri-La e l’ospedale di Madonna Beatrice Portinari

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Franco Cardini
Fonte: Minima cardiniana

di Franco Cardini – 23 settembre 2018

A chi vorrà leggere, salute.

Lo Zuanglin Tòng è una torre-mulino-di-preghiera alta 21 metri, che gira incessantemente su sé stessa e contiene 100.000 piccole ruote di preghiera. Esso svetta sull’acropoli di Shangri-La, accanto alla sequenza dei templi dai tetti d’oro che ne costituiscono il centro e l’aspetto più impressionante. Il moto perpetuo dello Zuanglin Tòng è, dicono, simbolo e al tempo stesso garanzia dell’equilibrio dell’Universo: finché il suo volgersi su sé stesso, che è preghiera, continua, l’ordine cosmico rimane stabile.

Shangri-La, un tempo chiamata Zhongdian e dal 2001 chiamata così in omaggio alla costruzione fantastica occidentale che si è imposta anche in Cina, è la città dello Yunnàn più prossima al Tibet e in gran parte tibetana essa stessa. È alta 3200 metri sul livello del mare. Poiché era in gran parte costruita in legno, fu distrutta da un furioso incendio nel gennaio del 2014: è in corso di ricostruzione con grande rapidità e il governo cinese vi s’impegna senza risparmio di mezzi. La parte già ricostruita, ancora una volta in legno ma impiegando gli accorgimenti antincendio più sofisticati, ne sta facendo una specie di “città delle fate” filologicamente attenta sul piano analitico ai particolari del centro demico che non c’è più, con le sue pagode e i suoi canali, ma il risultato sintetico della quale crea un’immagine fantastica del tutto adatta al nome della città: la Shangri-La del mito appunto, l’ingresso al Paradiso nascosto himalayano.

Sarà forse bene a questo punto dir qualcosa di un po’ meno vago sul “mito” (o sulla “leggenda”?) di Shangri-La: un nome che moltissimi conoscono e che molti giurano si trovi nel Milione di Marco Polo, mentre altri lo avvicinano all’Agharttha, a Shambalah o a Xanadoo in un bel fritto misto esoterico-misterico nel quale navigano Verne, Kipling, Ossendowsky, Guénon e l’infinita pletora dei Viaggiatori nei Luoghi Inesistenti e degli Scopritori del Nulla. Negli Anni Trenta, quando furoreggiavano romanzi come l’Atlantide di Pierre Benoit, James Hilton scrisse un best seller dal titolo Lost Horizons, nel quale si narrava di quattro viaggiatori occidentali fuggiti dal solito Afghanistan in rivolta che, a bordo di un misterioso aereo, finivano per trovarsi nella regione inaccessibile di Shangri-La, in Tibet: un luogo altissimo e isolato, in mezzo a valli fertilissime e ricche di fiumi dalle sabbie aurifere. Là, ad accoglierli, si apriva loro un monastero non segnato su alcuna mappa e popolato di saggi ospitali lama. Shangri-La è un paradiso sul tetto del mondo, un’intatta oasi di pace e di serenità dove non ci sono leggi perché la gente naturalmente buona, ospitale e pacifica non ne ha bisogno. Il romanzo, scritto nel 1933, s’ispirava fra l’altro agli scritti di Joseph Rock, un linguista e botanico austriaco effettivamente vissuto nello Yunnàn che ci ha lasciato studi importanti. Shangri-La si presenta in effetti come un avatardel “paradiso terrestre” di Shambalah ed è evocata nel Srikalacakramulatantra, libro che rinvia al Buddha primordiale (Adibuddha) nel suo aspetto di Vajrasattva, “dall’essenza adamantina”). Si tratta del testo, dai tratti che noi definiremmo apocalittici – la battaglia del Bene contro il Male –, che, come “Libro del Grande Yoga”, venne introdotto in Tibet verso il 965 d.C. come proveniente appunto da Shambalah. Il racconto di James Hilton, vincitore del prestigioso premio britannico Hawtornden, fu tradotto in mole lingue e venduto a milioni di copie. Nel 1937 Frank Capra ne trasse un film, a sua volta di nome Lost Horizon, protagonista Ronald Colman, nel quale cinque persone in fuga dalla Cina invasa dai giapponesi precipitano col loro piccolo aereo appunto in una misteriosa e inaccessibile valle tibetana retta da un saggio Grande Lama, dove albergano felicità ed eterna giovinezza. Il film ricevette due Oscar; nel 1972, Charles Harrot ne tentò un remaking in chiave di musical che però, nonostante la presenza di Liv Ullman e di Charles Boyer, non ebbe successo.

Per colpa del romanzo di Hilton e del film di Capra, restaurato a cura dell’America Film Institute, ho sognato Shangri-La per anni. Già da ragazzo avevo peraltro letto il famoso Ancient Nakhi Kingdom of Southwest Chinadi Joseph Rock, che fu pubblicato nel 1947; allora, la mia “orientalite”, una forma morbosa di orientalismo, si alimentava dei libri di Emilio Salgari e di certi films hollywoodiani: letture ulteriori sarebbero giunte più tardi. In anni successivi, altre letture – da Giuseppe Tucci ad Heinrich Harrer –, ma soprattutto l’amicizia contratta nell’Università di Firenze dove insegnavo con due personaggi straordinari come Tiziano Terzani e Fosco Maraini mi erano state di sprone per mettere a punto un programma di viaggi che per lunghi anni è rimasto accantonato e che adesso, passata ormai la settantina, posso permettermi di tradurre in pratica almeno in parte.

Da quando poi ho cominciato a occuparmi a livello di ricerca del tema del pellegrinaggio, vale a dire dai primi Anni Sessanta, mi sono sentito non solo uno studioso – sia pure modestissimo – di tale materia, ma anche e soprattutto un “pellegrino”. La mia carriera come tale si avviò già verso il 1956, quando percorsi a piedi con un amico la strada tra Firenze e la Verna per rendere omaggio a Francesco d’Assisi; e poi nel 1962, quando assolsi il compito di brancardier (barelliere volontario) su un “Treno Rosa” che trasportava a Lourdes gli ammalati.  Mi avventuravo, frattanto, sul Camino de Santiago e, qualche anno dopo, su quello di Gerusalemme che fu e ancora rimane oggetto di gran parte delle mie ricerche medievistiche; non trascuravo frattanto altri pellegrinaggi, da Loreto a San Michele del Gargano a Saint-Miche-au-Péril de-la-Mer a Rocamadour fino ai santuari mariani di  Chestochova in Polonia, di Kazan in Russia, di Guadalupe in Messico.

Tra la primavera e l’estate del 2018, infine, al termine di un impegno editoriale molto intenso – un vero e proprio “lavoro forzato” che aveva richiesto giornate e spesso nottate intere di lavoro –, ho potuto approfittare della mia condizione di “emerito” (cioè di pensionato) sfruttando appieno, finalmente, un lungo momento di libertà, che ho consacrato a tre pellegrinaggi. Nel periodo della Pentecoste ho partecipato alla romería della Hermandad de Nuestra Señora de la Esperanza di Triana, il quartiere marinaro occidentale di Siviglia, sino al santuario della Madonna del Rocío nella marisma presso Cadice e Huelva, in Andalusia. Ho quindi guidato, in giugno, un viaggio di cultura a Gerusalemme, occasione che per me è stata una volta di più (è stata più o meno la ventesima) di pellegrinaggio e che mi ha permesso di vedere l’edificio del Santo Sepolcro dopo i recenti restauri. Infine, in agosto, mi sono “regalato” un lungo, costoso, faticoso, perfino imprudente (almeno per un settantottenne ampiamente sovrappeso, con la sciatica e la pressione alta, viste le altitudini da raggiungere e le frequenti ascensioni montane che ciò ha comportato) pellegrinaggio tra i santuari buddhisti e taoisti dello Yunnàn, autentiche “Montagne Sacre”. Lì, la mia guida e driver, il tibetano trentenne Tashi, cittadino cinese che fino all’età di dodici anni, faceva isolato e analfabeta il pastore di yak e non conosceva una parola di cinese né d’inglese – li ha imparati rapidamente con uno sforzo titanico, frutto anche del benefico rigore del sistema scolastico cinese (aveva vinto una borsa di studio e non si parlava nemmeno della possibilità che non ce la facesse) –, mi ha iniziato per circa un mese alla vita del popolo più gentile, più discreto, più ospitale e più generoso del mondo.

Quest’ultima esperienza ha messo a dura prova non solo il mio fisico e il modestissimo patrimonio di conoscenze antropologico-religiose che negli ultimi sessant’anni sono riuscito a mettere insieme, ma anche la mia coscienza di credente. Sono intimamente convinto che ci si debba rimettere di continuo in discussione. In vita mia, sono stato sostanzialmente sempre fedele alla mia condizione di cattolico credente e praticante: ho avuto senza dubbio crisi anche gravi, periodi di obnubilamento e di smarrimento, prove esistenziali che mi hanno indotto all’errore e al peccato e che ho cercato umilmente di superare e di correggere. In ciò, grazie a Dio (e a parte il Suo aiuto), ho potuto avvalermi del consiglio e del sostegno di amici carissimi e di direttori di coscienza esperti e caritatevoli: tutta la responsabilità di errori e peccati, tutto il male che ho fatto o che ho provocato, appartiene a me, ma quel po’ di bene che ho cercato, forse talvolta riuscendovi, di seminare, è stato merito di altri.

Da molti mesi ho avviato con amici e corrispondenti (non sempre amichevoli, questi secondi: ma molti di loro preziosi per le critiche formulate e gli errori constatati, e sono quindi loro grato) quella serie di corrispondenze sotto forma di blog che ha assunto il titolo di Minima Cardiniana. Nella primavera scorsa ho sospeso i miei appuntamenti settimanali, in quanto come ho già detto ero obbligato a concludere una serie di lavori urgenti e pesanti dopo i quali sentivo il bisogno di un periodo di ripensamento. Ho pertanto congedato i miei interlocutori, dando loro appuntamento all’equinozio d’autunno. Ed eccomi qui puntuale, fedele alla promessa.

Ma questa pausa ha avuto ed ha per me un valore fondamentale, anche perché – dopo l’Andalusia, Gerusalemme e la Cina sudoccidentale – ho affrontato un’altra prova. Ai primi di questo mese, rientrato felicissimamente attraverso Parigi a Firenze, un drammatico e preoccupante malore notturno mi ha portato con urgenza, la mattina di sabato (nel giorno della Natività della Vergine Maria), al pronto soccorso dello storico ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova, fondato alla fine del Duecento attorno alla chiesa di Sant’Egidio da messer Folco Portinari, il padre della Beatrice dantesca. La cosa avrebbe potuto cogliermi altrove, in una città lontana, magari in una località disagiata: ho avuto, invece, la fortuna di venir benissimo curato nella sede ospitaliera della quale il dottor Alfonso Lagi, mio amico carissimo da più o meno sessant’anni e medico curante “da sempre”, è stato a lungo primario. Ho, quindi, la coscienza d’essere stato trattato con tutta l’attenzione della quale medici e infermieri erano capaci. In dieci giorni, da sabato 8 a lunedì 17, una cura intensiva e continua di flebo, d’iniezioni e di antibiotici ha avuto ragione del mio problema, sulle prime difficile da individuare: una broncopolmonite bilaterale originata da un embolo arterioso, “regalo” di un viaggio di ritorno di 12 ore d’aereo passate quasi immobile in una disgraziatissima posizione. Ovviamente l’età, il sovrappeso, una cistifellea piena di calcoli (che però, sulle prime ingiustamente accusata, in realtà non si è fatta sentire) e un bel disordine tanto bronchiale quanto gastrointestinale hanno fatto il resto.

Entrando in ospedale, mi sono rimesso in tutto alla volontà del Signore, confidando nella mediazione della Vergine Maria. Non posso dire né di essere stato né impaurito né rassegnato: umanamente preoccupato questo sì, è umano, ma senza drammi. Uno che ha vissuto 78 anni in piena salute, vivendo viaggiando mangiando e bevendo sempre come ha voluto, qualunque cosa gli accada può solo sinceramente e umilmente ringraziare Iddio. È quanto ho fatto. Ora mi trovo a casa, con la prospettiva di lasciar perdere per almeno un mese i viaggi troppo lunghi e le trasferte pesanti e una ferrea dieta da sopportare: ma posso serenamente affrontare il cumulo immane di ritardi nel lavoro che si è intanto andato accumulando. Ringrazio il Signore per questa prova, sia perché è stata tutto sommato lieve, sia perché mi ha insegnato quel che di solito si apprende negli ospedali quando si decide di far tesoro dell’occasione offerta: l’ospedale è una grande scuola di umiltà e di pazienza, che c’insegna a valutare meno noi stessi e molto di più altri, che ci mostra bene come tutti noi siamo soggetti a una condizione umana comune e come il proprio dolore acquisti un senso se specchiato in quello del prossimo.

Ma quest’esperienza mi ha insegnato ancora qualcosa di più. Passate le settantotto primavere, ho il dovere di avviare – sia pure con calma e serenità – un consuntivo riguardante la mia testimonianza su questa terra, nel secolo che è stato il “mio” (il Novecento) e in quella parte di quello attuale che mi sarà dato ancora di vedere. Consuntivo quindi che, appunto riguardo a tale parte, deve presentarsi anche come un preventivo. E diciamolo chiaro, a costo di servirsi di un sostantivo ormai purtroppo abusato: tutto ciò mi pone ancora una volta (è già più volte accaduto, forse accade ogni giorno) un problema d’identità. Chi sono, quali sono i miei doveri e i miei compiti, a che cosa è valsa – se è valsa a qualcosa – la mia testimonianza, come fare per utilizzare al meglio per me e per gli altri il futuro tempo concessomi, sia quant’esso sia?

Le prossime settimane, con gli appuntamenti dei Minima Cardiniana che mi auguro non siate in pochissimi a tornar a onorare di attenzione, saranno per me occasione per dar prova di quanto ho appreso facendo un piccolo passo avanti sulla strada della conoscenza della vita e di me stesso.

 
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