Fonte: Limes
Amici,
Vi scrivo dalla mia dimora nei dintorni di Kiev sotto il diluvio del fuoco con cui, a Mosca, Vladimir Putin conta di forgiare il sudario dell’Ucraina. Vi scrivo in francese, la lingua nella quale ho insegnato con amore la filosofia a Parigi nei cinque anni in cui sono stato invitato come professore dall’Istituto di alti studi in scienze sociali, accanto a Saint-Germain-des-Près, dove ho tessuto tanti rapporti che tengo nel cuore. Vi scrivo sul ritorno della guerra, che devasta il mio paese, che tuona ai vostri confini, spettro che ingenuamente pensavamo di aver esorcizzato, almeno nel Vecchio Continente. Vi scrivo sull’urgenza della pace per il mio popolo, abbandonato a un’aggressione omicida, gettato sulla strada dell’esilio, a piangere ogni giorno che passa più morti, a resistere con tutte le sue forze alla barbarie. Vi scrivo sul nostro destino più che mai comune, l’Europa libera.
Il regno del terrore
Il 24 febbraio, alle 5 del mattino, eccomi svegliato, assieme ai miei vicini, dal fracasso dei bombardamenti. Da molte settimane il capo del Cremlino stava accerchiando il nostro paese con manovre massicce e minacciose. Ma avevamo voluto credere nella nostra sicurezza, del tutto relativa. Ancora alla vigilia, pensavo che la prospettiva dell’invasione russa non fosse che un brutto incubo e che in fin dei conti non sarebbe avvenuta. Che la ragione avrebbe prevalso. Mentre l’alba è ancora appena un accenno, i colpi sono così forti da far vacillare il cielo e tremare la terra: niente può più nasconderci la cruda realtà. Mi sono sbagliato. La guerra è qua, virulenta, folle, assassina. Impietosa. Che la lezione della nostra delusione vi serva: i discorsi dei dittatori bellicisti vanno presi alla lettera.
Certo, dopo Natale ci eravamo preparati al peggio. La vertigine ha preceduto e preparato il terrore. In famiglia, tra amici, per caso sulle reti sociali, gli ucraini si sono scambiati sempre più consigli sul contenuto del bagaglio da fuga in caso di attacco. Documenti d’identità e medicinali di prima necessità? Certo. Abiti, viveri? Sì, ma in quantità minima. Non dimenticate le difficoltà delle strade sbarrate, l’obbligo di prendere la via dei campi, dei sentieri forestali. Lo zaino meglio del trolley. Valutate bene il peso che può portare un bambino per non sovraccaricarlo e rallentargli il passo.
È bene che lo sappiate: ai nostri bambini non abbiamo potuto risparmiare la coscienza del pericolo. Nel corso del mese di gennaio, ai quattro angoli d’Ucraina, più di mille scuole sono state oggetto di allarmi bomba, provocando l’evacuazione di centinaia di migliaia di studenti e gettando nell’angoscia i loro genitori che correvano a cercarli. A Kiev, gli stessi allarmi anonimi si sono moltiplicati nella metro e nei luoghi pubblici, aggravando il sentimento di paura nella società civile.
Ancor prima che i carri armati iniziassero a penetrare nel nostro territorio, la guerra era cominciata nella forma ibrida che ha inventato e a cui è affezionato l’ex tenente colonnello del Kgb che si sogna autocrate di «tutte le Russie». Vladimir Putin non ha smesso di propagare la logica del terrore alla quale soggioga il suo paese e che conta di imprimere al resto del mondo. È bastato che scoppiassero i primi combattimenti per togliersi anche il minimo dubbio. Da noi e poi da voi. L’Ucraina è oggi l’avamposto di una lotta planetaria.
Il sistema dell’amnesia
Dopo il 2014 e gli eventi di Jevromajdan, si è diffusa nel mondo l’usanza di evocare, spesso in modo confuso, quella che passava come «crisi ucraina». Oggi, nessuno può più ignorare che tale crisi è in realtà una «crisi russa», intrinsecamente legata alla natura del regime putiniano.
Perché Kiev resta un nodo strozzato nella gola del Cremlino? Perché questa accelerazione deleteria? Perché questa offensiva apparentemente irrazionale? I fantasmi pseudo-storici che aleggiano nel cervello di Vladimir Putin mal nascondono le minacce, reali e gravissime, che incombono sul suo sistema. La verità è che esiste un legame profondo tra la chiusura in Russia dell’associazione Memorial e l’apertura delle ostilità contro l’Ucraina. Questo legame, raramente colto in Europa, vi sembrerà forse paradossale, ma a me sembra cruciale. E lo è.
Tra il divieto a un’associazione di raccogliere i dati sui milioni di vittime dello stalinismo da un lato e l’invasione di un paese indipendente dall’altro non c’è dopotutto, mi direte, una sproporzione? Tutt’altro! Il Cremlino ritiene un tabù il libero accesso alle informazioni sui crimini commessi nel periodo comunista. Grazie a Putin, Stalin il rosso, coperto del sangue innocente che ha versato senza remore, è ridiventato il candido zar che era nel 1945, il vincitore della Germania nazista nella Grande guerra patriottica, l’edificatore dell’impero sovietico fino all’Elba, il padre dei popoli signori dell’universo.
Di recente, Juri Dmitriev, uno dei membri di Memorial, ha rivelato la verità sulla Katyn di Carelia, iniziando a riesumare i morti delle fosse comuni di Sandarmokh, giustiziati in massa dall’Nkvd nel 1937-38. Così facendo, ha definitivamente compromesso la versione dei revisionisti vicini al Cremlino che volevano continuare ad attribuire quei massacri ai finlandesi. Soggetto a ogni sorta di vessazione e persecuzione, Dmitriev ha finito per essere coperto d’infamia e portato in tribunale con la falsa accusa di pedofilia.
Il suo vero crimine imperdonabile è aver osato esporre i panni sporchi dell’Unione Sovietica e di aver svelato le menzogne su cui è costruita la Russia di Putin. Ma in Ucraina, lo sterminio mediante carestia di 2-5 milioni di persone tra il 1932 e il 1933 non è lasciato ai falsificatori del passato e gli storici non sono passibili di incarcerazione per i loro lavori scientifici sugli abissi del passato.
Kiev, il capro espiatorio
Da tempo ormai gli archivi del Kgb a Mosca e a Minsk sono tornati a chiudersi. A Kiev restano aperti a tutti i ricercatori. La memoria del male radicale non è però ristretta alla cerchia dei sapienti. I 45 milioni di cittadini che popolano l’Ucraina costituiscono oggi un’autentica forza lavoro per il memoriale planetario alle innumerevoli vittime del totalitarismo.
L’Ucraina porta i crimini sovietici alla conoscenza del tribunale universale. È per questo che il Cremlino tenta di annientarla e di seppellirla in una terra di nessuno. Essa si premura di ricordare all’umanità il destino di chi ha vissuto sulle «terre del sangue» tra il Mar Baltico e il Mar Nero, tra il Mar di Bering e il Mar d’Azov, dove fra il 1933 e il 1945 sono morti 14 milioni di civili per mano della persecuzione organizzata, della carestia programmata, dell’incuria militare.
L’Ucraina ha così allargato il campo della responsabilità per tutto ciò che è successo all’epoca. Non le è stato perdonato. La Russia di Putin cerca di ridurla a ostaggio e l’accusa di ogni peccato. L’iniqua propaganda che Mosca diffonde incrimina il nostro paese, che ha eletto un presidente ebreo e russofono, sostenendo che quest’ultimo è nelle mani dei neonazisti e dei fanatici nazionalisti. I malintenzionati e i raggirati che in Europa rilanciano queste visioni devono sapere una cosa: si associano al negazionismo.
La sovranità del nostro paese è per noi intimamente legata all’irriducibile dignità di ogni essere umano. La nostra integrità territoriale e la nostra integrità morale sono un tutt’uno. Pertanto non bisogna derubricare la riapertura dell’associazione russa Memoriale fintanto che dureranno i combattimenti per la libertà dell’Ucraina. Questo paese non dimentica i tempi disumani e ne porta testimonianza al mondo intero. Ma attesta pure che quel male non è ancora finito.
Nello specchio bielorusso
Per il regime putiniano, la contabilità degli orrori staliniani deve restare un affare strettamente interno alla Russia. Non vanno giudicati dunque i crimini contro l’umanità, bensì i crimini contro «i nostri»: i numeri, le circostanze, i meccanismi sono materia della propaganda, non della storia. Il sistema dittatoriale instaurato da Vladimir Putin esige che siano trattati come «questioni locali», estranei a ogni competenza fuor che la sua. Ha un grande interesse in tutto ciò. Essendo i crimini di Stato dell’Urss condannabili soltanto in funzione di un criterio di aggiustamento ideologico, i sicari che a Mosca hanno assassinato Anna Politkovskaja e Boris Nemcov sono a piede libero. L’impunità dei criminali di oggi va a braccetto con la politica di amnesia nazionale sui crimini del passato.
Il timore di dover comparire davanti a un tribunale internazionale spiega perché, consciamente o meno, questo regime dimostra tanta inerzia ossessiva. La retorica maniacale del Cremlino sull’Alleanza Atlantica sembra insensata finché non vediamo che dietro la sigla Nato si profila la possibilità di una nuova Norimberga.
È ciò che segnala, a suo modo, lo specchio del complice di Vladimir Putin, Aljaksandr Lukašenka. Che cosa importa al dittatore di Minsk del tribunale dell’Aia se i suoi crimini sono un «affare interno» alla Bielorussia? L’autocrate sottrae alla giurisdizione del mondo civilizzato il paese di cui si è impadronito. Sottrae dallo spazio dell’umanità il territorio che terrorizza. Grazie all’isolamento del regime neosovietico da lui messo in piedi, si fregia del diritto esclusivo di compiere impunemente il male dentro le sue frontiere.
È evidente che questo male cresce all’ombra della stoltezza dei commentatori stranieri che chiudono gli occhi su quanto accade «laggiù» come se non riguardasse «qua». Non bastano i malfattori per minimizzare l’unità del genere umano, la negano anche gli stolti: Dietrich Bonhoeffer, pastore e teologo martire del nazismo, spiegava che questi ultimi sono più pericolosi dei loro compari perché il loro sentimento di autosufficienza inclina all’autodistruzione.
Aljaksandar Lukašenka non ha certo la stoffa dell’eroe; per raffreddarne l’ardore repressivo, sarebbe sufficiente ricordargli l’esempio del serbo Slobodan Milošević, arrestato e sottoposto a giudizio dopo le guerre di Jugoslavia, e minacciarlo di subire la stessa sorte. Nell’attesa, i dirigenti europei dovrebbero spiegare al satrapo di Minsk che il conflitto scatenato contro Kiev non lo riguarda e che inviare i suoi miliziani al fianco degli invasori russi gli sarà fatale.
Quale modello di relazione propone all’Ucraina chi, in Russia e in Bielorussia, si prepara a celebrare nel dicembre 2022 il centenario della creazione dell’Unione Sovietica? Il dominio della violenza, della costrizione e dell’oppressione illimitata, sin dagli inizi cuore del sistema totalitario comunista. Quello che il regime di Putin esercita sul regime di Lukašenka con la collaborazione di quest’ultimo. Quello che l’Ucraina rifiuta sforzandosi di smascherare la glorificazione del male che lo fonda.
Strumentalizzare la storia
La griglia con cui Vladimir Putin legge il mondo è l’Unione Sovietica di un tempo. Sua ambizione è ricrearla. Quanto di altro scritto su di lui è letteratura. Il suo progetto non sta in piedi, è ovvio. Ma, per dimostrare il contrario, si dedica a un montaggio di fatti storici come si montano le sequenze cinematografiche. I suoi personaggi preferiti sono Lenin e Stalin, gli architetti del sistema, ai quali fa dire ciò che gli conviene. Il suo sforzo di ricostruzione finisce per uccidere le ultime illusioni su quell’epoca, poiché mostra che la colonna vertebrale dell’Urss non era il proletariato, non il Partito e ancor meno il popolo, bensì il Kgb.
È questo marchingegno che vuole rimettere in pista. La sua biografia glielo ordina. Mentre cadeva il Muro di Berlino, era un agente in Germania Est e quando chiedeva ai suoi superiori come reagire non otteneva risposta. Quell’esperienza è stata per lui uno shock esistenziale. La trama del suo programma punta alla rivincita dell’Unione Sovietica e a tal fine ogni mezzo è valido. Ricostruendo la storia, lascia da parte interi pezzi che contraddirebbero la sua versione.
Anche per giustificare l’atteggiamento della Russia verso l’Ucraina Putin gioca sulla storia. Manipola la medievale Rus’ di Kiev, entità esistita dal IX al XIII secolo, per farne un principato russo. Snatura la diversità dell’odierna nazione ucraina per farne un ammasso sgangherato di russofoni che guardano a est e di ucrainofoni che guardano a ovest. Non sono argomenti, sono pretesti. Chi in Europa ascolterebbe un potente che voglia ridisegnare la frontiera tra Francia e Germania invocando Carlomagno?
Ma i fatti sono testardi. Io stesso provengo da un’antica famiglia di Kiev dove abbiamo sempre sentito parlare russo in casa, benché l’ucraino ci fosse familiare. Odessa, città russofona, ha respinto con astio i carri che volevano entrarci col pretesto di difendere la lingua e la cultura russe. In grande maggioranza, i russofoni d’Ucraina sono orripilati quando si assimila la loro particolarità a una qualche forma di sostegno alle politiche del Cremlino. Nell’Est del paese, si rifiutano di servire da marionette dell’aggressore.
In Russia, malgrado l’arresto degli oppositori, l’imbavagliamento dei media, la marea della propaganda, si continua a manifestare contro questa guerra ingiusta. In seno alla Chiesa ortodossa di cui il capo del Cremlino ha putinizzato la gerarchia, i miei amici credenti cominciano a insorgere. Fra i giovani si assiste a una forte spinta anticlericale. Gli intellettuali, gli artisti e gli attivisti ancora in libertà lasciano Mosca e San Pietroburgo per l’estero. Putin ha voluto strumentalizzare la storia per attizzare inimicizia e ostilità, ma sta fallendo.
Putin, mito e realtà
Da un discorso elaborato per giustificare degli atti illegittimi, Putin sembra passato a un monologo allucinato. Già otto anni fa Angela Merkel lo giudicava «sconnesso dalla realtà». Da allora questo distacco è stato accentuato dal suo stretto isolamento in un bunker durante l’epidemia. Vivendo nella sua bolla, gli è difficile distinguere fra le sue invenzioni e la sua idiosincrasia.
Rivedete il suo intervento televisivo del 21 febbraio 2022, ritrasmissione orchestrata da pseudo-riunione del Consiglio di sicurezza russo: siamo al puro delirio. Quando afferma che la Russia è stata derubata di una parte del suo territorio sembra di trovarsi in una novella satirica di Gogol’. Quando il capo del controspionaggio Sergei Naryškin si dichiara «favorevole a che le due repubbliche di Donec’k e Luhans’k entrino nella Federazione Russa», Putin lo interrompe grossolanamente e gli intima come a una marionetta di smetterla: «Che stai dicendo? Stiamo riconoscendo la loro indipendenza!». Chiaramente Putin ha deciso che questa scena di pubblica umiliazione dei suoi schiavi sia filmata e diffusa al fine di darla in pasto al mondo intero. Nel loro formidabile fumetto La morte di Stalin, meravigliosamente adattata al cinema da Armando Iannucci nel 2017, Thierry Robin e Fabien Nury hanno mostrato che ricorrere al grottesco era l’ideale per descrivere gli ingranaggi, l’ambiente e la psicologia che regnano da un secolo al Cremlino. Tale stilismo è clamorosamente esploso in questi giorni negli attori che pretendono di decidere il destino di 150 milioni di russi, dei loro vicini e, più latamente, dell’Europa.
Questa forma di degradazione mentale e verbale colpisce apparentemente tutto il Cremlino. Che il ministro degli Esteri russo cominci a usare delle parolacce tratte dal gergo dei galeotti è inedito anche in rapporto all’èra staliniana. Siamo alla rottura con le tradizioni diplomatiche stabilite. Gli elementi semantici di comunicazione e di comportamento sono cambiati, anche tra i dirigenti russi. Assistiamo a un’accelerazione. Eppure era prevedibile.
Bombardando il centro storico di Kiev, ben più antico di quello di Mosca che lui non ha mai smesso di celebrare come «la culla della Russia», il dittatore sovietizzante si rivela quell’uomo senza limiti e senza scrupoli che effettivamente è. Quando nel 2015 avvertivo i miei amici parigini di questo pericolo, alcuni di loro mi giudicavano eccessivo. Pensavano che la tensione sarebbe stata passeggera. Purtroppo è dimostrato che non esageravo: Vladimir Putin vuol rompere con il sistema internazionale come si è costituito dopo il 1945. Ovvero basandolo sul primato dei diritti dell’uomo.
Vertigini nucleari
Ciò che ci accade è peggio della catastrofe di Černobyl’ del 1986. All’epoca la menzogna del regime era talmente flagrante che milioni di persone diventarono dissidenti. Oggi i potentati che ci governano non rispondono più ad alcuna ideologia. Eppure – ecco un mistero terribile – il cadavere mostruoso del sovietismo ha ripreso vita a Mosca.
Ciò che ci accade è peggio di Černobyl’ perché è evidente che il padrone del Cremlino sta perdendo la ragione. È Nerone che fa bruciare il suo stesso paese, il suo stesso popolo e il popolo vicino. La sua arroganza non conosce freno, il futuro dei suoi concittadini gli è del tutto indifferente. Il disinteresse che mostra per la sorte dei suoi fanti, trattati come carne da cannone, è abissale. A maggior ragione, che oggi muoiano degli ucraini, domani dei moldavi o dei francesi, non gli fa né caldo né freddo. Sentendosi accerchiato da innumerevoli nemici, il suo unico problema è stabilire come eliminarne di più.
Ormai la sua maschera è caduta e gli europei, anche i più ciechi, non possono più mostrarsi compiacenti. Vladimir Putin ha mentito a Emmanuel Macron fissandolo negli occhi durante una conversazione di cinque o sei ore. Poiché disprezza gli esseri umani, disistima i dirigenti europei, che considera incapaci o impotenti. Eppure è solo all’ultimo minuto che costoro hanno capito di avere a che fare con un gangster il cui discorso non intende accordarsi con la realtà ma torcerla ai propri fini. Per questo mentitore irredimibile la verità non esiste. Conta solo il potere.
Niente garantisce dunque che Putin, dal suo bunker del Cremlino – soprattutto se la sua offensiva terrestre e aerea si arenasse – non ordini un attacco nucleare tattico contro Kiev. Non si può escludere questa terribile eventualità dato che l’Ucraina resiste e gli risponde colpo su colpo. Per lui si tratterà di sostituire un’arma con un’altra.
Ma se Putin sapesse per certo, com’è pienamente confermato, che in tal caso le potenze nucleari l’annienterebbero a sua volta, allora ci ripenserà. Bisogna che l’Occidente parli in modo deciso, che davanti a una simile prospettiva non ceda alla paura, che affermi la convinzione che noi siamo i più forti. Insomma, che respinga il ricatto. Perché se mai Kiev fosse vittima di un attacco nucleare, qualsiasi altra città europea potrebbe esserlo, prima o poi.
Oggi la maggior parte degli europei non è assolutamente preparata a una guerra ad alta intensità, anche convenzionale. Gli europei non immaginano che potrebbero dormire in una cantina o vivere in una stazione della metropolitana. Questi ultimi giorni, guardando i dibattiti alla televisione francese avevo l’impressione che i partecipanti si credessero abitanti d’un altro pianeta.
Sfuggiva loro che, qualora sotto il fuoco russo una delle numerose centrali nucleari ucraine fosse colpita, la catastrofe ecologica non si fermerebbe alle nostre frontiere. Ciò che si è confermato ineluttabile nel 1986 lo sarebbe altrettanto nel 2022. A parte sostenere che la catastrofe sarebbe stata provocata da un tiro d’artiglieria ucraina, la Russia non ha alcun bisogno di un attacco atomico per scatenare un panico nucleare. La verità è che il sentimento di fiducia che gli europei hanno a lungo coltivato riguardo al loro avvenire non ha più ragion d’essere.
La prova della guerra
Non c’è da aspettarsi alcun tratto di umanità da un esercito che, temendo lo spettro dell’epidemia, ha ricevuto l’ordine di lasciare i corpi dei suoi morti decomporsi nel fango per poi gettarli nelle fosse comuni. Sul lato ucraino prevale invece un atteggiamento dignitoso. Nessun assalto ai negozi, niente risse nelle stazioni. A Kiev ci sono più persone che fanno la fila davanti agli ospedali per donare il sangue che dai benzinai per fare rifornimento. Non ho notato alcuna isteria – né nel mio ambiente né fra la folla. E nemmeno sui media e sui social.
È difficile trovare la parola giusta perché non voglio apparire né esaltato né patetico. Non c’è serenità dappertutto, ma le vecchie diatribe, le emozioni passeggere sono state messe da parte. Ognuno sa che ogni gesto deve tendere ad aiutare l’altro. Ciò risveglia in me il ricordo del 2014: a piazza Majdan la gente era diventata subito più attenta al nuovo venuto. Come durante quella «Rivoluzione della dignità», di quella preoccupazione superiore a tutto di mostrarsi civile e coraggioso, come nelle barricate di ieri oggi gli ucraini cercano di restare in piedi. Salvo che stavolta il fronte non si estende più su qualche quartiere della capitale. Attraversa il paese intero.
Abbiamo capito che è questione di vita o di morte, che impone atteggiamenti chiari e gesti semplici. Ho visto carri russi sfilare a cinque metri da me. Certo sui volti dei passanti si leggeva l’emozione. Ma non l’esaltazione guerriera né l’ubriacatura d’odio. Semplicemente c’era un fuoco, bisognava spegnere l’incendio e sì – è la metafora più giusta – dovevamo andare insieme a cercare acqua dovunque.
Di questa calma sovrana, ecco un esempio concreto. Un blindato russo si avvicina a un paesotto di campagna. Dei contadini propongono ai soldati che hanno fame – perché l’intendenza non segue – di ristorarli. Mentre mangiano, un abitante del villaggio versa con discrezione zucchero nel serbatoio del mezzo. Non andrà più lontano. È così che si può fermare una macchina da guerra. Solo le decisioni concrete e sobrie possono aiutare a superare la paura. Vale dappertutto, in Francia come in Ucraina.
Resistere
Con il ferro e con il fuoco Putin vuol vedere la bandiera russa sventolare sul municipio di Kiev, su viale Kreščatyk, su piazza Majdan. Negli edifici di quel quartiere (dove le cantine ancora ricordano le torture del Kgb) gli agenti dell’Fsb sottoporranno gli oppositori al supplizio degli interrogatori, i passanti saranno rastrellati per dare l’esempio. Senza dimenticare i russi e altri ex sovietici che hanno scelto la libertà installandosi in Ucraina e di cui gli organismi putiniani hanno già compilato le liste degli arresti. Da Kharkiv a Odessa, le forze di occupazione faranno quel che fanno da sette anni a Donec’k.
Il filosofo ucraino Igor Kozlovski ha passato così 700 giorni e 700 notti nelle carceri dei miliziani dell’Est. Nel nostro dialogo registrato mi ha confessato gli innumerevoli supplizi, fisici e psicologici, che ha subìto. I suoi boia cercavano di costringerlo a rinunciare alla sua dignità umana. La sua linea di difesa è stata di affermare il suo diritto inalienabile a restare un uomo.
Durante le sedute di tortura, Igor Kozlovski s’è ricordato che lo psichiatra austriaco Viktor Frankl, vittima del nazismo, aveva a suo tempo qualificato la coscienza «Dio intimo». Porsi sotto lo sguardo di un tale testimone dà la possibilità di vedere per così dire da fuori ciò che accade, anche nel cuore del peggio. «Ti si massacra di botte», diceva Kozlovski, «tu sanguini, ma all’improvviso sorridi. E ti dici che non temi più la morte. Non ti potranno più spezzare. Non sei più in loro potere, sei passato dall’altra parte e non hai più paura. Tu ti sei visto».
La risorsa fondamentale, l’energia essenziale, il fermento della resistenza consiste nel coraggio individuale e collettivo. E se il coraggio può fondere come neve al sole, di fronte alla prova può anche crescere. La guerra è un lavoro molto difficile e noi ucraini oggi ce ne rendiamo conto. La pressione fisica e psichica è per tutti estrema. Ma da Kharkiv a Leopoli passando per Kiev, e fino a Parigi, dobbiamo affrontare questo compito, consacrarvi tutte le nostre forze, morali e fisiche. In qualsiasi momento il sipario delle illusioni che ci fa credere che si tratti solo di conflitti lontani può essere strappato. La violenza può entrare in ogni nazione come in ogni casa. Perché questa fatalità non accada, non bisogna negarne la possibilità. Non bisogna scoraggiarsi. Noi ma anche fra noi, gli uni e gli altri.
Domani è oggi
Noialtri ucraini abbiamo acquisito la convinzione che ormai non ci resta altra scelta che batterci. E non solo qui, a Kiev, ma anche al vostro fianco, a Parigi e a Bruxelles. Perché? Perché tutti noi abbiamo di fronte il medesimo temibile avversario, pronto a tutto. La domanda ucraina di adesione all’Unione Europea è stata registrata, ma bisogna far presto. D’altronde, l’Ucraina e l’Unione sono già insieme. È la convinzione dell’appartenenza effettiva di tutti gli ucraini all’Europa e alla sua civiltà che deve ora entrare nella coscienza di tutti gli europei.
Questo avversario temibile conosce perfettamente i timori degli occidentali e sa far leva sulle risorse che minacciano di spaventarli di più. Come quando agita l’eventuale sostegno che gli verrebbe da Pechino. Putin, da giocatore di poker qual è, ama bleffare. La verità è che il ministro degli Esteri cinese ha affermato a più riprese che il suo paese riconosce la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina. È questa la posizione ufficiale, ed è chiara.
L’Europa ha appuntamento con sé stessa. Nel suo seno ora dipende tutto dalla mobilitazione dei popoli che la formano. Vi sono situazioni che comandano agli anonimi di presentare ai loro dirigenti il messaggio della storia. Se in Francia l’opinione si piazza all’avanguardia della solidarietà, il potere si vorrà meno pusillanime. Ciò che darà alla Francia più coraggio per affrontare gli altri suoi problemi, economici, politici, migratori. In effetti, in quest’ora grave molto dipende da ciascuno di noi.
O questa guerra rinnova la Francia e l’Europa, oppure ci rigetta nel duro passato. O l’Ucraina, la Francia e tutti i paesi d’Europa incarnano un nuovo ethos – cioè un nuovo comportamento segnato da più coraggio – oppure finiremo trasformati in animali da basso cortile.
L’ideologia del Cremlino vuole convincerci che la bassezza è sempre preferibile alla guerra. Ma quando Chamberlain nel 1938 tornò da Monaco dopo aver ceduto, con Daladier, la Cecoslovacchia a Hitler, Churchill gli dichiarò: «Lei aveva la scelta fra la guerra e il disonore. Ha scelto il disonore e avrà la guerra». Se ciascuno di noi, dovunque sia, diventasse un nuovo Churchill, allora sarà la Francia intera che aiuterà Macron a diventare lui stesso un nuovo Churchill.
Il nostro paese, l’Ucraina, difende i valori della democrazia, della libertà e della giustizia, che sono i valori dell’Europa. Se l’Europa resta unita in questa crisi, vedrà crescere la propria autostima. È in gioco la dignità della persona. E se l’Europa è in pericolo, è perché non ne ha un’idea abbastanza giusta e forte.
Ecco, cari amici, quel che tenevo a dirvi. È tempo per me, questo 15 marzo 2022, di chiudere questa lettera ora che cala il tramonto e attendo mio figlio Roman: mia moglie e mia figlia hanno trovato rifugio in Italia, lui è rimasto qui per fare da interprete ai giornalisti stranieri che continuano coraggiosamente a investigare e a testimoniare. Ogni mattina, quando esce di casa, lo abbraccio perché non sono sicuro che tornerà la sera.
Una delle principali vie d’accesso a Kiev passa non lontano di qui e i carri di Vladimir Putin l’imboccheranno dopo averci distrutto con gli obici. Quei carri sono contrassegnati da una misteriosa Z in alfabeto latino, come per annunciare qualche soluzione finale o un’apocalisse definitiva. Respingiamo insieme questa profezia del male radicale proiettata sul mondo.
Per la sua forma e sostanza, questa lettera mi offre la possibilità unica di guardare l’altro negli occhi e dirgli «tu». Gli parlo nella sua bella lingua materna, nella lingua di un’umanità che non ci hanno ancora portato via, dove ciò che risponde a una parola è una parola, non un colpo di fucile. Quando ti tagliano l’elettricità, Internet e ogni legame col mondo, sei privato della semplice possibilità, del gesto essenziale di spedire una lettera. Per alcuni, si tratta di descrivere delle immagini, dei soggetti; per noi, è la vita, tutta la vita. Si vuol fare di noi una massa d’umanità che sarà chiamata «loro». E nient’altro. Un po’ con compassione, un po’ con odio. Ma alle città assediate, alle città prese in ostaggio, senza luce né mezzi per comunicare, bisognerà che qualcuno dica «tu» invece che definirle «quelle». Tu, Mariupol’. Tu, Černihiv. Tu, Kharkiv. Tu, Kiev. Quale che sia il nostro numero, noialtri kievani, ucraini, esseri umani, noi possiamo liberarci dalla servitù finché fra noi ci sarà qualcuno che possiamo chiamare in modo umano, qualcuno che prenda le tue righe fra le mani, che ascolti la tua voce e attraverso questa ascolti il tuo paese. Forse per questo è così importante per me stamattina uscire dalla cantina dove passo tutte le mie notti da quando la guerra e i bombardamenti sono cominciati. Voglio uscire e mettere questa lettera nelle tue mani. Il passaggio del testimone della resistenza può paradossalmente unirci, qui e ora. La voce che, fra le righe, scappa verso la libertà e la tua voce, che ora è così importante sentire.
C.S.
(traduzione di Federico Petroni e Gianni Nela)