di Alfredo Morganti – 5 giugno 2019
Quella che fu detta (ed è ancora oggi ritenuta) l’età dei governi, in realtà è un bluff spaziale. Esecutivi forti sulla carta ma debolissimi sul piano politico si succedono ormai senza sosta. Forse, al contrario, questa è l’epoca delle rabbiose opposizioni antisistema o di protesta, l’esatto contrario. Raggruppamenti che poi, quando salgono al governo, dimostrano in modo sontuoso la loro effettiva e recondita debolezza, nonché incapacità a metter mano nelle cose pubbliche. Tant’è vero che sembrano stare all’opposizione anche quando sono seduti su poltrone altissime: è l’inevitabile strategia di chi deve dissimulare il proprio ruolo di governo dopo averlo prima coperto di fango dinanzi all’opinione pubblica. Fare opposizione a se stessi è l’ultimo funambolismo.
Il fatto incontestabile è che, per quanto si aneli al maggioritario, ai premi, al doping delle percentuali, il vuoto politico alla fin fine ha la meglio, spingendo alla soglia di Palazzo Chigi forze comunque deboli, anche se forti nel possesso di molti seggi parlamentari. La crisi della rappresentanza, che è poi la tendenza di questa epoca, è anche crisi di sfiducia e legittimità, e non basta occupare tanti scranni se poi nel Paese quegli stessi scranni non hanno effettiva solidità e stabilità tra i cittadini. La forza dei numeri quasi mai corrisponde a una solida forza politica, almeno in questa fase così complicata. Il risultato è quello di cicli sempre più brevi, leader che vanno presto all’ammasso dopo periodi di (mai vera) gloria, parvenu e outsider che assurgono al soglio con la strafottenza e restano in perenne precarietà. È storia di oggi. Storia di ansia e di incertezze.
Che si dovrebbe fare in questi casi? Io dico che si deve tornare allo spirito (e non solo) della rappresentanza e del proporzionale, che vorrebbe dire ricompattare le forze politiche senza illuderle che, in questi momenti di vuoto, si possa davvero ‘vincere’ alcunché. Col ‘vuoto’ non vince nessuno, mai. Senza la politica manca il brodo di cultura entro cui le forze politiche possano muoversi liberamente: oggi sono pesci fuor d’acqua. Sembrano pubblicitari (con tutto il rispetto). Solo un Parlamento rigenerato nel ruolo, capace di ri-addentellarsi mediante il proporzionale alla carne viva del Paese, potrebbe tornare a giocare un ruolo positivo. Non è che pensando l’Aula come una scatoletta di tonno, successivamente se ne possa fare buon uso. Ormai agli occhi dei cittadini quella resta una scatoletta di tonno. E poi, il mito della ‘vittoria’ ne incarna un altro, quello della ‘potenza’, per il quale ‘chi vince può decidere’: falso. La decisione politica poggia sempre su basi sode, solide, basi proporzionali, sulla fiducia e la legittimità. Su tempi lunghi altro che brevissimi. Non c’è nulla di più lungo di una decisione vera. Di veloce ci sono solo le dichiarazioni stampa, i post, le dirette facebook, le comparsate in tv: tutte cose che non c’entrano nulla con la politica ma solo con una strategia di sopravvivenza comunicativa sempre più affannata e disperata.
Alla sinistra umilmente dico: fermi tutti, uscite dalla virtualità dei media o dei social. Non è riempendo (o assecondando la tendenza al riempimento) del vuoto politico con le chiacchiere comunicative che ci salviamo. Al contrario. Chi fa politica dovrebbe sapere che davanti deve avere i cittadini in carne e ossa, non i loro profili fake. È a questo livello che la comunicazione diventa lingua, dialogo, comunità, partito, istituzioni, e quindi riforma generale della società e dello Stato. Fermarsi alla soglia della comunicazione, vuol dire scegliere di mettere tra sé e i cittadini e le figure sociali un diaframma che ci illude di una vicinanza ma, in realtà, innalza l’ennesimo muro. Non vuol dire che si debba cessare di comunicare (perché la politica è sempre stata comunicazione, sennò sarebbe rimasta vaniloquio), ma si deve cessare di concepire l’azione politica in termini di puro vassallaggio ai media, concedendo il bastone del comando ai guru, agli spin, ai like, ai gruppi di fuoco social, ai troll, ai faccioni tv. Se dalle stanze dei partiti (ove ne esistessero o ne esisteranno in futuro) fosse estromesso (proprio così estromesso) l’omino ben pagato che dispensa consigli (“oggi si parla di barconi, domani mettiamo sui post le foto dei gattini o il cibo”) sarebbe già molto, diciamo una buona ripartenza. E al suo posto tornare a ritessere una lingua comune, riallestendo una koinè di parole e di pensieri con il Paese reale, invitandolo alla reciiprocità. “Comunicare” è prima di tutto mettere-in-comune.
(PS, come vedete non ho mai pronunciato la parola ‘popolo’. Si può parlare di politica anche astenendosi da farlo, anzi meglio)