di Lillo Colaleo, 2 giugno 2017
“A cattivo principio, cattiva fine“, scriveva lo storico Tito Livio. Perché, come insegnano le massime di esperienza dell’umanità, le cose che iniziano male non possono mai finire bene. E tra queste cose ci sta certamente un’avventura, che ha affascinato ed intasato la fantasia dell’opinione pubblica degli ultimi anni. Il Renzismo, che prende il nome dal suo fondatore, che è ormai giunto alla sua completa e totale maturazione. E di cui è possibile, adesso, fare una parziale e momentanea analisi.
Questo storia ebbe le luci della ribalta nel Dicembre del 2010, quando il giovane sindaco di Firenze del Partito Democratico, centrosinistra, già Presidente della Provincia e nato in una famiglia proveniente dal ceto politico toscano democristiano, Matteo Renzi, incontrò a Villa San Martino ad Arcore l’allora Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, del Popolo delle Libertà, l’imprenditore divenuto 16 anni prima il leader indiscusso del centrodestra. Quell’incontro, immediatamente colto dalla stampa nazionale, da sempre più attenta ai gossip che ai fenomeni politici, diede a Renzi immediatamente una fama nazionale: “Per Firenze ad Arcore vado anche tutti i giorni se serve”, si schermì il Sindaco. Una frase profetica: ulteriori incontri, d’altra parte, sebbene poi svoltisi altrove, non sarebbero mancati.
Dal 2010 al 2017 sono passati 7 anni, lunghi e vorticosi. Ed è interessante comprenderne la psicologia: ovvere come sia stato possibile a quest’uomo di travolgere ogni schema e condurre una spericolata “scalata” – l’espressione, tratta significativamente dal linguaggio delle società, oltre ad non essere del tutto casuale e pure di suo conio – verso il Potere, abbattendo prima le gerarchie interne al suo Partito, che ha brutalmente conquistato, e successivamente acquisendo alla sua causa rumorose masse di elettori confusi, esponenti disorientati del ceto politico di qualsiasi colore ed appartenenti alle elitès economiche e sociali di questo paese.
Tutti indistinguibilmente affascinati dalla semplicità, dalla felicità e dalla spregiudicatezza di questo carismatico capitano. Se una lode, cavalleresca, va concessa all’uomo, va detto che la sua è stata una cavalcata senza pari: il paese, negli anni che sono andati dal post elezioni del 2014 al 4 Dicembre del 2016, data della disfatta al referendum costituzionale, è sembrato, letteralmente, nelle sue mani. L’opinione pubblica clemente, se non esaltata, le comunità ed il notabilato locale dietro la porta, il ceto politico, economico, sociale di ogni livello messosi a disposizione, gli intellettuali compiacenti, l’elettorato elettrizzato. Il tutto ottenuto grazie ad un’abile comunicazione e capacità narrativa, una grande campagna di trasformismo politico e di inclusione delle intellighenzie più disparate del paese. E ciò accompagnato ad una certa disinvoltura piaciona e ad una sfrontatezza accattivante, che gli hanno permesso di agire in maniera solitaria ed indisturbata – “finora ho deciso da solo”, sempre sue le parole – muovendosi con una libertà sconosciuta a qualsivoglia leader in Italia e che in nessun modo sarebbe stato pensabile – o tollerabile – in un esponente del centro sinistra italiano.
Travolgenti anni, che hanno molto, moltissimo modificato l’aspetto ed il senso della politica italiana. Se il Berlusconismo era entrato nella scena per cercare di coprire il vuoto della politica a seguito di Tangentopoli, offrendo una risposta alla paura dei ceti imprenditoriali ed allo smarrimento dell’elettorato moderato, rimasto orfano della Democrazia Cristiana ed ormai nauseato dalle cerimonie e dagli eccessi dell’ultima fase della Prima Repubblica; se il Movimento 5 Stelle era entrato nella scena nel 2012 con una forza dirompente ponendosi come risposta irrazionale alla fortissima crisi di moralità della politica, alla crisi della rappresentanza causata dall’introduzione di leggi elettorali distorsive a tutti i livelli, alla crisi dell’offerta politica, causato dalla semplificazione del quadro politico, presentando una incredibile capacità di riuscire ad offrire nuove risposte ai disagi di una società profondamente diseguale, lasciata senza protezione e senza rappresentazione dinnanzi alle proprie difficoltà; il Renzismo è risultato, in conclusione, essere operazione più fine, che ha, con forza, ricostruito un quadro di tenuta del ceto politico, delle elitè del paese e dei ceti medi, minacciati dal pericolo imminente del declassamento sociale. Dinnanzi a questo terrore, il Renzismo si è presentato come l’Argine alle barbarie della società contemporanea: ove finalmente il sistema esistente si è erto in piedi per difendere sè stesso, superando ideologismi e divisioni politiche, al fine di costruire un unico soggetto interclassista, trasformisma e fortemente eterogeneo, ma unito dal carisma, dirompente, dell’Uomo Forte alla guida del Paese. Con saldi riferimenti rassicuramenti: l’Europeismo acritico, la morale benpensante, la narrativa del cambiamento, specie in tema di diritti civili, la retorica dell’ottimismo e della meritocrazia, la degradazione dei diritti sociali (altrui) in privilegi, il conformismo ai modelli culturali dominanti. Il tutto inquadrato in uno scenario strategico dall’aspetto saldamente solido, incentrato da un lato sulle politiche dei benefici mirati, dei bonus e degli interventi diretti ad ogni livello e lotitudine, e dall’altro sulla logica della costruzione di un consenso stabile laddove il consenso risultasse necessario che ci fosse. Ed in tutto ciò, va detto, Matteo Renzi, tra alti e bassi, è riuscito perfettamente: Alfredo Reichlin la definì, in uno dei suoi ultimi articoli, una “tentazione oligarchica“.
“Chi semina vento, raccoglie tempesta”, dice il proverbio popolare. Perché, sebbene legato a questo sentimento di riunire tutto il ceto politico in un’unica bandiera, di offrire alla società dei riferimenti rassicuranti ed all’opinione pubblica una politica di cambiamento conformistica ed ottimistica a buon mercato – come d‘altra parte non ha mai nascosto un esponente di rilievio come Dario Franceschini durante le direzioni del Partito Democratico, quando parla della necessità di dividere il mondo in “sistemici ed antisistemici”, superando la dicotomia destra sinistra – tuttavia, il Renzismo vive, di contro, di una certa irrazionalità bipolare. Una schezofrenia che nasce nella sua natura intrinseca, risultando tanto favorito quanto soggogiogato agli uomori del proprio capo e fautore, che non cessa mai di oscillare, quasi fosse un pendolo, nelle proprie valutazioni e nei propri obiettivi. Matteo Renzi appare tormentato da una sorta di sindrome di Napoleone, dove il desiderio di auto emulazione spinge “Renzi” continuamente contro “Renzi”, ponendo il giocatore dinnanzi ad una continua sfida che lo porta a perseverare nel suo alzare continuamente la posta verso un obiettivo successivo. E ciò fa sì che definisca un risultato inatteso: la destabilizzazione di quel medesimo sistema politico di cui egli stesso si erge a Custode politico. Ed anche in questo sta il paragone col Còrso: non si diceva già su di lui, non so invero in che il libro, che il conquistatore non può mai fermarsi, desistendo dal conquistare, altrimenti è perduto? Così l’incredibile talento di Matteo Renzi si tramuta nella sua più profonda debolezza. Delizie e croci di un’ambizione tanto irrefrenabile quanto disastrosa.
Perché in tutta questa incredibile calvacata, in questo sgomitare per il potere, cinico, senza passione, delirante, in questa boria ed in questa ostentazione di potenza, c’è quel retrogusto amaro che è quello tipico dell’occasione perduta. Infatti, nonostante le sirene del Renzismo innalzino alte e mirabolanti lodi, ciò che resterà di questa stagione sarà molto diverso da quello che si poteva sperare. C’è sempre nella politica, come nella vita, un momento in cui la magia si rompe e la magia di Renzi è finita: non se ne illudano gli alfieri, la vittoria delle primarie è stata soltanto una breve parentesi di una prospettiva già di per sé asfissiata, che non vedrà innanzi strade migliori. In quanto, se si confermano le voci dei percorsi già intrapresi, le consolazioni future consisteranno o im piccole vendette personali, o nella poco appettibile prospettiva di poter, magari, un domani tornare al governo in sodalizio con l’antico amico e rivale, Silvio Berlusconi. Col quale, infatti, pare ritrovata l’intesa dei tempi migliori, quando il fiorentino mandava nel 2010 gli autocompattatori a Napoli per sostenere il governo di centrodestra e Berlusconi offriva il suo soccorso nel 2014 in parlamento contro le imboscate degli odiosi dissidenti. Un obiettivo addirittura difficile, ma sperato e non negato, che qualora si avveri si consumerà quale vittoria di una singola stagione: perché è evidente che le rinnovate Larghe Intesa consentiranno la riacquisizione del poter per qualche tempo, ma non apriranno una stagione delle riforme e saranno infine l’anticamera del governo a 5 Stelle.
“E tu mentre parlando il tempo spendi, | occupato da molti pensier vani, | già non t’avvedi, lasso, e non comprendi | com’io ti son fuggita dalle mani!”, scriveva parlando della “Occasione” Niccolò Machiavelli, il noto autore del Principe, in un suo meno conosciuto testo poetico. E l’occasione, quella, per Matteo Renzi, di una straordinaria stagione di riforme strutturali per il paese è definitivamente e irreversibilmente sfumata. Rimarranno diverse buone leggi, qualora la fine rovinosa ed irresponsabile della legislatura non ne porti diverse via con sè, che incideranno, si spera, nella vita degli Italiani. Rimarrà la straordinarietà dell’impegno svolto, l’immenso lavoro compiuto in diversi ambiti della regolamentazione settoriale di questo paese. Ma per il resto, tolti i colori vivaci di quello che per certi aspetti è stato un buon governo, non rimarrà nulla di Grande: le più grandi riforme del Renzismo si sono rovinate su sé stesse, risultando o sgradite, come quella dell’Istruzione, o colpite, come quella della Pubblica Amministrazione, o respinte, come quella Costituzionale. Altre, come quella del lavoro, hanno fatto vie più tortuose: ma non c’è stato nulla di Grande, di realmente Grande in questa stagione, se non la continuazione delle politiche meno lodevoli degli anni precedenti ed una vistosa mancanza di coraggio, che faranno sì che il giudizio storico su questa fase, avendo dinnanzi o buone leggi o riforme irrilevanti, si baserà su altri punti e non sarà, suo malgrado, positivo. Perché della propaganda la Storia non tiene mai conto.
Peserà sul giudizio finale, infatti, altro: peseranno l’avventurismo, il trasformismo, gli scandali, l’arroganza, gli strappi che questa stagione politica hanno partorito, favorendo la formazione di profonde divisioni nella società italiana. Peseranno il disprezzo verso i corpi intermedi, i ceti intellettuali, ancora una volta la magistratura, il sindacato, ampi pezzi del mondo del lavoro, che consegneranno al populismo più becero le istanze di disagio e di riforma della società. Peseranno l’uso spregiudicato delle istituzioni, l’antipolitica di Stato, l’uso muscolare delle cariche, la mancanza di rispetto per i ruoli, la narrazione propagandistica dell’azione di governo, col risultato di aver ridotto ai minimi termini il senso di Stato presso la cittadinanza, anche laddove, come nell’elettorato del centrosinistra, se ne era conservata una forte tradizione. Peseranno, oltre al trasformismo, il definitivo sfracellamento dei partiti, l’aver riportato l’Italia in epoca giolittiana, dividendo il mondo tra ministeriali ed antiministeriali, l’aver seppellito la dicotomia destra – sinistra, distrutto le coalizioni, cancellato definitamente le ideologie e suscitato passioni febbrili nei ceti medio alti del paese.Di questo, infine, pagherà la politica e la società, e la stessa Democrazia, indebolita in quello che ne è il pane quotidiano: il pluralismo culturale.
Il Renzismo ha finito per incattivire il paese. Se il Berlusconismo lo aveva privato di dignità ed il Grillismo gli aveva tolto profondità di pensiero, il Renzismo lo ha al fine incattivito: la tifoseria, l’insulto, la derisione ed irrisione dell’avversario sono divenuti la pratica di una società chiusa a scompartimenti stagni, indisponibile al dialogo ed all’incontro e strutturalmente inidonea alla contaminazione culturale, ideale, politica. L’unico flusso comunicante rimarrà il Potere: capace di unire e dividere destini, di far sostenere il tutto ed il contrario del tutto, in una logica della sopravvivenza giunta alle sue estreme teorizzazioni ideologiche, la macellazione definitiva dei grandi costrutti del pensiero ci consegnerà un paese che, incapace di differenziarsi nel pluralismo culturale e politico, risulterà appiattito e capace di dividersi solo sulle questioni personali. Un paese fondato su un unico valore universale, su un unico principio unificante: l’ambizione, come metro di valutazione personale e sociale delle azioni umane.
Cos’ha, d’altra parte, fatto Matteo Renzi? Non ha esitato ad incitare l’odio nella sua comunità politica, dividendola, creando un nemico interno per garantirsi prima la scalata e poi il mantenimento del potere, portandola infine alla scissione. Ha abbattuto due governi del suo Partito e sta per abbatterne il terzo, riuscendo a strappare tanto a sinistra quanto al centro, rompendo sia con la tradizione del centro sinistra, ormai avvertito con distacco e nervosismo, più come un avversario che come un interlocutore, sia con i moderati governisti, ridotti ormai da tempo a lacché ed avvertiti più come campo di conquista che come cultori e rappresentati possibili di un pensiero politico. Ha diviso le sue strade coi ceti popolari, con gli insegnanti, con diverse categorie di lavoratori, col sindacato, con gli intellettuali. Ha stretto e strappato accordi, acquisito amici e creato nemici, alimentato populismi e distrutto simboli, sacrificato comunità ed umiliato avversari. E tutto questo al servizio di una grandissima ambizione che abbiamo già primo definito tanto irrefrenabile quanto ambiziosa.
Ed è qui l’ultimo passaggio. Nonostante la grandezza, più o meno condivisibile, del disegno politico, il bipolarismo irrazionale del Renzismo ha ridotto la più straordinaria delle stagioni politiche italiane del nuovo millennio in un’occasione mancata ed in un ammasso di rancori, divisioni ed antagonismi. Oltre che in un proseguirsi di inutili vittorie o di pesanti sconfitte, che hanno pesantemente provato la società italiana e che rischiano di costituire la causa prima di una rinnovata stagione di instabilità politica. Sorgono alcune domande, dopo un tutto questo tumultare.
La prima è se tutto questo fosse necessario alla Repubblica, al Paese, alle Istituzioni, all’Italia, se tutto questo continuo rovinare non sia stato più negativo o più positivo rispetto ad una Nazione emotivamente provata da 20 anni di continue transizioni. La risposta è difficile: probabilmente no. Oppure probabilmente era il finale necessario, già scritto, di questo ventennio, le cui ragioni non è possibile affrontare in questo già fin troppo lungo articolo, e che solo dopo la conclusione di questa parentesi potrà finalmente permetterci di archiviare il cataclisma politico aperto con Tangentopoli nel 1994. La seconda domanda è se tutto questo non fosse già, in un certo senso, posto nelle stesse premesse del nome che più di ogni altro ha dato corpo vivivo al Renzismo ovvero “Rottamazione”. Se nell’ambizione, sfrenata, di quel talentuoso capitano, che si recava da Berlusconi nel 2010, non ci fosse già in sè il seme delle future contraddizioni che avrebbero caratterizzato la futura azione politca. A mio parere, sì: ho provato, con difficoltà, ad esprimerlo in questo lungo articolo. Il bipolarismo irrazionale nel renzismo, la sua eterna necessità di guerra, la sua stessa ambizione, è fonte tanto della sua fortuna, che della sua sfortuna.
Non sappiamo quando, né come accadrà, che questa parentesi giungerà a fine, sebbene vi è evidenza che si avvii alla Viale del Tramonto. Il Renzismo ha spazzato, come un vento, il paese, portando da un lato con sè enormi venti di freschezza, di movimento e di dinamismo, incattivendolo tuttavia dall’altro, rendendolo più cinico, più tifoso, più tentato dalla svolta oligarchica, e sempre più succube della retorica conformistica e neoliberista degli ultimi anni.
Ma alla fine il Renzismo, come un vorace animale che consuma tutto ciò che lo circonda, finirà a causa della sua natura per autoconsumarsi, divorando le sue stesse carni. Questo sarà, a mio parere, l’epilogo di tutto questo: la Rottamazione finirà, alla fine, per Rottomare sé stessa