Fonte: Lucia Del Grosso
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di Lucia Del Grosso – 22 aprile 2017
Riprendo la mia penna arrugginita da una fastidiosa convalescenza per mettere giù qualche pensiero minimale, o meglio qualche malumore, su un tema in cui non se ne viene a capo, né a destra, né a sinistra, né al centro, né “oltre” (un giorno sapremo se esiste questo “oltre” o se è solo un centro che ne ha le tasche piene di essere moderato): la selezione delle classi dirigenti nei partiti. O l’organizzazione dei partiti, se volete.
C’erano una volta i partiti di massa, quelli in cui sono cresciuti alcuni di noi, caratterizzati da un impianto ideologico, dalla rappresentanza di pezzi di società e da una solida organizzazione.
Poi venne Tangentopoli che secondo una mezza verità spazzò via i suddetti partiti di massa. L’altra mezza verità è che il sistema era già pericolante, come ebbe a dire in tempi no sospetti Berlinguer, rivolgendo uno sguardo severo agli altri partiti e uno preoccupato al proprio.
Partiti pericolanti non in termini di efficienza: prima del ciclone Tangentopoli riuscivano ancora bene o male a produrre una qualche sintesi, ad avere modi condivisi di adozione delle decisioni, a selezionare una classe dirigente normodotata.
Il problema era di efficacia della politica: quali passioni e militanza attiva possono mobilitare i partiti se viene meno il conflitto tra diverse visioni di società e il mondo da trasformabile diventa al massimo riformabile, ma solo all’interno di un tracciato definito?
E’ evidente che se l’unica operabilità politica è garantita dalla mera gestione dell’esistente i partiti si popolano di leader, mezzi leader, leadericchi e leaderquaquà sgomitanti per accaparrarsi gli unici posti che danno l’illusione di poter determinare processi politici, ossia le poltrone istituzionali.
Culi tanti pesanti e però capaci di spostare solo le virgole di una storia già scritta da vincoli esterni e agenzie di rating.
Gli altri leaderquaquà si agitano a supportare i culi pesanti e a ricercare visibilità e like.
E ogni sinistra è figlia del suo tempo, fino a quando non si decide a uccidere il genitore, cioè fino a quando non rompe gli schemi, e nel frattempo dovrà rassegnarsi a questo festival di falliti votati a proporre suggestive visioni di rilancio della lotta che prendono sempre gli stessi like, all’interno della stessa cerchia di relazioni, salottini mediatici che si insultano in rete.
E che si smontano e ricompongono a seconda delle ansie di protagonismo, di vicende personali, isterismi e paturnie di leaderini che saltano da un gruppo all’altro a seconda dei riflettori che si accendono.
E però emerge la consapevolezza, chiarissima in una parte di Sinistra Italiana, per quanto anche lì i vizi non manchino, che la dimensione globale conduce inevitabilmente la politica e la sinistra all’inconcludenza, imbrigliata dai vincoli esterni che fulminano appena si osa proporre uno zero virgola in più di investimenti, capirai se si vogliono cambiare o modi di produzione e distribuzione della ricchezza, neanche a pensarci. Anticaglia da Novecento, quando c’erano gli Stati nazionali.
Che però permettevano di misurare i rapporti di forza e ottenere progressi per i lavoratori.
In uno Stato a livello più avanzato, in un altro meno, a seconda, appunto, dei rapporti di forza, ma comunque ce la potevamo giocare.
Ora immagino che la sinistra cosmopolita più convinta aspiri ad una rivoluzione mondiale per risolvere in un colpo solo le iniquità planetarie: vaste programme!
Nel frattempo leader, mezzi leader, leadericchi e leaderquaquà si esercitano a scrivere ricette una diversa dall’altra (poi però pretendono di fare sintesi internazionale senza riuscire a farla nemmeno a casa propria) sulla sinistra che verrà.
Io continuo la convalescenza e spero nella parte di sinistra consapevole.