di Nicola Boidi 7 febbraio 2016
Le Undici Tesi su Feuerbach di Marx , secondo Ernst Bloch.
Parte quinta: La parola d’ordine della Tesi 11.
«I filosofi hanno solo diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo»
Karl Marx , Tesi 11.
Ernst Bloch vede le prime dieci Tesi su Feuerbach di Marx come un unico avvicinamento e preparazione alla parola d’ordine formulata nella conclusiva Tesi 11:« I filosofi hanno solo diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo». Qual’è il senso di tale parola d’ordine? E’ doveroso premettere che le Undici tesi su Feuerbach furono scritte da Marx nel 1845 come una sorta di memorandum non destinato alla pubblicazione (furono pubblicate postume solo nel 1888 da Engels) e destinato a costituire una sorta di fonte d’ ispirazione perenne. Questo determina la loro natura di aforismi (pensieri brevi) che o abbozzano un giudizio critico, o sono icastiche, o pronunciano una parola d’ordine com’è il caso preclaro della Tesi 11.
La loro natura aforistica le predispone ad un’interpretazione ambigua, ambivalente, e ciò vale al massimo grado proprio per la Tesi finale, come ha dimostrato la storia della sua interpretazione dal momento in cui Engels pubblicò le Undici Tesi fino ad oggi . Ed è esattamente per questo motivo, per «disambiguare» il significato della Tesi 11 , e dimostrare che le precedenti dieci tesi vanno lette come un’adeguata preparazione intellettuale e filosofica alla sua parola d’ordine, che Ernst Bloch in Il principio Speranza ha svolto un’articolata e ricchissima trattazione dei temi filosofici generali sotto cui raggruppa le Tesi, come abbiamo cercato di presentare nelle« puntate» precedenti. La questione cruciale e decisiva da «sviscerare » è che teoria e prassi vanno comprese e approfondite nel loro significato, che ad ognuna di loro va assegnato il ruolo e il posto esatti nel processo dell’esperienza e della conoscenza, senza sopraffazione ideologica e strumentale di ognuna da parte dell’altra. La parola d’ordine della Tesi 11 secondo Bloch non invita alla liquidazione di ogni attività teoretica , di ogni filosofia, ma a una nuova pulsione filosofica, a una«filosofia della prassi», anzi a una dialettica tra teoria e prassi, tra soggetto e oggetto, in cui l’attività filosofica o teoretica non scompare affatto ma semmai si carica di un nuovo significato, si approfondisce, si potenzia.
Ne segue la necessità di – nel cosiddetto tema gnoseologico delle Tesi 5,1,3– cogliere la necessaria mediazione tra quello che Feuerbach considera il fondamento primo di ogni atto di pensiero e conoscenza, l’intuizione sensibile o esperienza immediata del soggetto, e un’attività intellettuale insita in essa, una stratificazione pregressa tra ricezione/passione e azione che in Hegel non è altro che la dialettica tra desiderio e lavoro, tra la sua pulsione di appagamento e il differimento o raffrenamento del suo godimento nella sua elaborazione intellettuale. Ma il fatto che Hegel ponga tale dialettica sotto il rapporto sociale e storico tra il Signore che vuole godere dell’oggetto della natura e il Servo che lo lavora e lo appresta per conto suo, già indica che si tratta tanto di una dialettica interna all’individuo che «transindividuale» , interindividuale o intersoggettiva. Se, come osserva Marx, l’insegnamento di Hegel è che «l’essere o la natura dell’uomo è il prodotto del suo proprio lavoro», allora la costituzione dell’autocoscienza o soggettività va ricondotta agli«interindividuali» rapporti sociali, in cui si va a fondo della natura storica del concetto di lavoro quale divisione sociale tra lavoro intellettuale e manuale, un portato del processo storico e delle sue successive e diverse configurazioni di società e di rapporti sociali.
A questo primo accenno all’alternativa marxiana al materialismo ancora meramente sensualistico, passivo e oggettivo formulato da Feuerbach, segue che il riconoscimento feuerbachiano che la natura umana non è data immediatamente ma si presenta «autoalienata» nelle proiezioni immaginative e fantastiche della religione,« rovesciata» e proiettata fuori di sé nel cielo trascendente della divinità, non può arrestarsi a questo stadio fenomenico e superficiale di alienazione («estraniazione») dell’individuo ma deve necessariamente approfondirsi nella rilevazione di altre alienazioni via via più fondamentali: l’alienazione nei rapporti sociali, e poi nel sistema statuale delle istituzioni politiche, per giungere infine al nucleo economico dell’ alienazione nei rapporti e processi di produzione. Questo delinea il tema « antropologico-storico» che Ernst Bloch individua nel gruppo di Tesi 4,6,7,9,10. Gruppo« gnoseologico» e Gruppo«antropologico storico» avviano il pensiero di Marx a quella nuova , inaudita filosofia che si chiamerà«materialismo storico e dialettico», attraverso un procedimento di« critica immanente» e «negazione determinata» o negazione dialettica dei principi dell’antropologia filosofica di Feuerbach, due dettami interamente in spirito hegeliano.
E’ ancora necessario un passo, urge ancora un elemento, perché un vero umanesimo, una vera antropologia filosofica si delinei compiutamente e squaderni la formulazione della Tesi 11 quale centro luminoso del pensiero. Accanto alla mediazione intuizione-attività e alla determinazione della vera fonte dell’autoalienazione, bisogna che entrambi, teoria e prassi giungano al loro punto di «equilibrio instabile», al loro luogo di « oscillazione perenne», per cui la ricerca della verità non può che darsi nella dialettica perennis tra teoria e prassi. E’ il tema filosofico «Teoria e prassi, prova e controprova» trattato nelle Tesi 2,8. Il pensiero o l’idea filosofica, intesa come «campo di forze» ( in perenne tensione tra di loro, come l’intenderebbe Theodor Adorno) intende svelare il nesso mediato ed essenziale del fenomeno, quell’intreccio che nel fenomeno è ancora imprigionato nella mera sensibilità. In tal guisa il pensiero si presenta come « concreto», (concretus,ossia quale una«concrezione»,una concentrazione e stratificazione sull’oggetto ricercato ).
Teoria e prassi«tralucono» o«scintillano» di verità solo in questa loro tensione reciproca, in cui la verità né si riduce a un rapporto interno alla teoria né coincide con una prassi subordinata a un intuizione sensibile meramente passiva, oggettiva e cieca. Nella prassi sensibile mediata e conseguita dalla teoria il pensiero invece , diventato finalmente concreto, dispiega completamente la sua funzione di attività critica e penetrante o rivelatrice in rapporto al suo oggetto. In questa oscillazione (passaggio per gli estremi) continua tra teoria e prassi la prassi presuppone la teoria e a sua volta necessita di generare da sé una nuova teoria da cui procederà una nuova prassi.
La ricapitolazione dell’itinere compiuto da Bloch nelle prime dieci Tesi non è superfluo né ridondante se immediatamente illumina il fatto che il significato della parola d’ordine della Tesi 11 – «si tratta non solo più di comprenderlo e interpretarlo, ma anche di trasformare il mondo» – allontana da sé due modelli di pragmatismo che storicamente si sono dimostrati letali per la dialettica teoria -prassi marxiana.
Il primo è il pragmatismo positivista capitalistico-borghese, di stampo anglosassone. Questo modello concepisce la verità come utilizzo «affaristico» delle idee, come loro strumentalizzazione. Qui solo se una verità è indirizzata a un successo pratico, allora essa è riconosciuta come tale. Se l’opera che inizialmente ha dato il titolo al modello – Pragmatism di Henry James – ancora intendeva un pensiero logicamente umanistico, i suoi sviluppi ulteriori però, osserva Bloch, hanno manifestato la vera anima di tale dottrina , l’ultimo agnosticismo di una società ormai priva di ogni volontà di verità (di ogni genuino spirito filosofico). A questo hanno contribuito le vicende di due guerre mondiali, per cui questo pragmatismo non si è più neppure preoccupato di sbandierare strumentalmente la ricerca della verità, e questo ha preparato il terreno al suo ultimo stadio: al totale, infame pragmatismo dei nazisti. Forgiato in questo lavacro il modello della razionalità strumentale da allora in poi ha fatto sì che le idee fluttuassero e cambiassero come le quotazioni delle azioni in borsa( potremmo dire che oggi le conseguenze ultime del pragmatismo si presentano come la verità del capitalismo finanziario e della sua ricerca del massimo profitto, la sua legge di estrazione del valore).
Questa specie di pragmatismo poté essere confuso con una teoria-prassi , mentre in realtà si trattava di una celebrazione della pura razionalità strumentale ammantata di teoria. Anche qui , osserva beffardamente Bloch,«si volle fare della prassi suprema il concreto coronamento della verità o sua riprova quale “trasformazione del mondo” ».
La seconda specie o modello di pragmatismo che ha danneggiato gravemente la teoria-prassi marxiana, è quello che si è presentato come il suo parente più prossimo, anzi come il suo erede in discendenza diretta: il pragmatismo dell’ortodossia marxista- leninista e la sua famigerata codificazione nella Diamat stalinista. Pur con maggior cautela rispetto alla condanna del pragmatismo borghese-capitalistico Bloch ugualmente lo boccia quale modello gnoseologico e conseguente prassi politica. Tale gnoseologia prende corpo nel saggio del 1908 Materialismo ed empiriocriticismo; il suo autore, Lenin, per motivi di polemica e tattica politica riduce la dialettica materialistica marxiana a mera teoria del rispecchiamento in cui la coscienza soggettiva diventa il semplice registratore passivo dei fatti oggettivi, il riproduttore delle immagini provenienti dagli oggetti della conoscenza. Come annota in modo acuto T. W. Adorno in Dialettica Negativa la gnoseologia leninista nega la necessità della riflessione critica soggettiva dell’oggettività, il fatto che se il soggetto si limita a rispecchiare l’oggetto, necessariamente lo manca, poiché questo si dischiude solo a una risposta attiva, a un di più da parte del soggetto.
Adorno evidenzia come l’oggetto della teoria non sia un immediato materiale di cui questa possa riprodurre in immagine la copia ma che invece la conoscenza pensa o« idea» i suoi oggetti mentre si media con essi, e questo a maggior ragione per oggetti radicalmente mediati quali sono quelli dei processi sociali. Nell’oggetto sociale si è trasferito, come sua legge dinamica, il fatto che la realtà moderna e contemporanea non è data intuitivamente ma è in sé funzionale , intrinsecamente astratta, e non consente una coscienza meramente rispecchiante ossia irriflessiva.
Il rovesciamento meramente materialistico della dialettica hegeliana (non corrispondente al metodo marxiano di dialettica tra soggetto e oggetto), la storicità dei principi etici subordinati alla lotta di classe e la convergenza delle «leggi dell’evoluzione» in fisica ( Helmholtz) in biologia ( Darwin) e in economia politica (Marx) corrispondono alla linea direttrice tracciata da Lenin con la sua gnoseologia del rispecchiamento. Il successivo dibattito interno alla filosofia sovietica che fa seguito a tale dottrina, tra « dialettici » e «meccanicisti », viene troncato d’imperio dal segretario del partito sovietico Stalin che nell’ opuscolo Materialismo dialettico e materialismo storico ( 1937) identifica il materialismo dialettico con il marxismo-leninismo e lo codifica in una serie di«leggi della dialettica» a fondamento delle scienze specialistiche e in particolare della scienza della storia. Tali leggi della dialettica diventano anche il garante a priori della conformità delle scienze particolari alla«concezione del mondo proletaria» – Questa dottrina leninista-stalinista viene denominata in forma abbreviata Diamat (dal russo Dialekticesky Materialzm).
La coazione e compressione del ruolo della teoria scientifica e filosofica in questo sistema di pensiero produce quel modello di pragmatismo sovietico che Bloch definisce l’istupidimento di una dialettica teoria-prassi che trascura tutta la ricchezza della teoria marxista insieme all’appropriazione critica dell’eredità culturale che vi è contenuta. Questo accade poiché quella dottrina trascura completamente il ruolo fondamentale nell’elaborazione teorica del fattore soggettivo della riflessione, del ragionamento, dell’analisi, dell’interpretazione e dell’intuizione. Osserva Bloch: «l’essenza luminosa della complicata teoria marxista viene da questi praticisti trascinata nella propria privata ignoranza e nel risentimento che a quest’ultima facilmente si accompagna».
Per far prendere le distanze alla parola d’ordine della Tesi 11 da questa «Scilla e Cariddi» del pragmatismo, tra capitalismo e sovietismo, Bloch ribadisce che per Marx un pensiero non è vero perché è utile, ma è utile perché è vero. La prassi politica concreta non può fare un passo senza avere preso informazioni economiche, giuridiche, sociologiche, psicanalitiche, scientifico-tecnologiche e culturali da una teoria che si dimostri la più progredita, che sia sul fronte più avanzato del progresso delle conoscenze.
Annota Bloch che il socialismo ha bisogno di buoni teorici e di buone teorie, non riducibili a schematizzazioni e semplificazioni della realtà con cui si confrontano. I più grandi pensatori della prassi sono nemici del pragmatismo proprio perché fedeli testimoni della verità. Il trionfo filosofico della Tesi 11 non può essere confuso con un ‘abdicazione della filosofia ( del desiderio perenne e inestinguibile della ricerca di verità e della sua connessa e continua attività di riflessione e critica della realtà). Lo sviluppo di una conoscenza attiva o viceversa di una prassi sorvegliata dalla ragione consente alla ragione stessa di vigilare sull’ umano viaggio di ritorno all’irrazionale che si manifesti come l’irrazionale barbarico della distruzione della ragione ( al modo del pensiero ontologico di Heidegger) o come l’irrazionale stupido dell’ignoranza della ragione presente nella Diamat sovietica.
Qual’è dunque, nell’interpretazione di Bloch, la distinzione tra una filosofia «viziosa » e una filosofia «virtuosa» che Marx intenderebbe affermare con quella Tesi 11, a sua volta formulazione sintetica dell’intero complesso delle Tesi? Agli occhi di Marx viziosa è quella filosofia che si limita o si è limitata ad interpretare il mondo, a contemplarlo, senza impegnarsi seriamente a volgere tale interpretazione verso un’ attività di trasformazione del mondo. Qui Marx in particolare attacca quello specifico genere di filosofia contemplativa che si accontenta di lasciare le cose così come stanno, anzi di pretendere di cambiarle solo con un libro, mentre il mondo stesso non se ne accorge per nulla. Questo tipo di pensiero così ben organizzato, che«risiede nella propria riserva», annota Bloch, sarebbe disturbato da ogni autentico passo verso la realtà esterna, così come lo sarebbe la vita privata di pensieri inventati.
Rientrano in tal novero speculativo anche quelle opere filosofiche che pur cercando un’aderenza assoluta alla realtà oggettiva, spesso si appagano e si compiacciono contemplativamente di stare nel loro circoscritto nesso raggiunto nel processo dell’opera, al punto di temere una trasformazione del mondo rappresentato derivante da esse stesse. Infatti in quel caso l’opera, anche se si pone come prodromo del futuro, non potrebbe più librarsi in modo autarchico tra le diverse epoche. Queste filosofie che si appagano di una mera contemplazione della realtà sarebbero secondo Marx inconsapevolmente spinte e condizionate a tale posizione da una barriera di classe.
Bersaglio polemico dell’argomentazione di Marx è , come già visto la volta scorsa, in particolare la scuola filosofica degli epigoni di Hegel, considerata da lui come «non filosofia». Nell’Ideologia Tedesca Marx polemizza in modo particolarmente duro con costoro: «Bisogna “mettere in disparte la filosofia” , bisogna balzarne fuori e mettersi, come uomo comune, a studiare la realtà, e per fare questo esiste un immenso materiale, anche letterario, naturalmente sconosciuto ai filosofi; se poi un bel giorno ci si ritrova dinanzi gente come Kulhmann o Stirner ci si accorge di averli lasciati da lungo tempo dietro o sotto di sé. La filosofia e lo studio del mondo reale stanno in rapporto tra di loro come l’onanismo e l’amore sessuale».
L’invettiva è dunque rivolta alle «fanfaronate filosofiche », non certo alla filosofia hegeliana o ad altre grandi filosofie del passato, per quanto contemplative potessero essere. Marx riconosce che al concreto Hegel, il più dotto enciclopedista dall’epoca di Aristotele, non può essere rinfacciata una «mancanza nello studio del mondo reale». Di questa eredità di filosofia reale e creativa Marx ne parla in maniera completamente diversa.
Da ciò che è stato detto fin’ora, in questa come nelle precedenti esposizioni, emerge in maniera evidente un rapporto complesso da parte di Marx nei confronti della tradizione filosofica, rapporto che a sua volta configura via via sempre di più i lineamenti della sua dialettica soggetto-oggetto, teoria-prassi. La giovanile Per la critica della filosofia del diritto di Hegel dà già delle indicazioni importanti in tale senso. Qui Marx assume un doppio atteggiamento nei confronti della filosofia: 1) Da una parte sostiene che la filosofia non può essere soppressa senza essere realizzata; 2) dall’altra parte la filosofia non può venire realizzata senza essere soppressa.
1 ) Il primo atteggiamento pone a bersaglio il cosiddetto «partito dei pratici» : « A ragione perciò il partito politico pratico in Germania esige la negazione della filosofia. Il suo torto non consiste in tale esigenza ma nel fermarsi ad essa senza seriamente soddisfarla né poterla soddisfare. Esso crede di compiere quella negazione voltando le spalle alla filosofia e col capo rivolto altrove, mormorando con disapprovazione contro di essa qualche frase ingiuriosa e banale. La ristrettezza del suo orizzonte non annovera la filosofia neppure nella cerchia della realtà tedesca, o addirittura vaneggia che sia al di sotto della prassi tedesca e delle teorie che la servono. Voi pretendete ci si riallacci a germi reali di vita, ma dimenticate che il germe reale di vita del popolo tedesco fino ad oggi ha germogliato solo dentro il suo cervello. In una parola : voi non potete sopprimere la filosofia senza realizzarla»
2) La seconda affermazione se la prende con il partito dei teorici: «Lo stesso torto, ma invertendo i fattori, lo ha commesso il partito politico teorico, che prende le mosse appunto dalla filosofia. Nella lotta odierna, esso ha visto unicamente la lotta critica della filosofia contro il mondo tedesco e non ha considerato che anche la filosofia sorta dopo l’inizio di quella lotta appartiene a questo mondo e ne è il completamento , sia pure ideale. Critico verso il suo avversario si è comportato acriticamente verso sé stesso, poiché è partito dalle premesse della filosofia e si è arrestato ai suoi risultati dati, ovvero ha spacciato come esigenze immediate e risultati della filosofia esigenze e risultati presi altrove, sebbene questi al contrario – posto che siano giustificati – si possono ottenere solo attraverso la negazione della filosofia avutasi finora , della filosofia in quanto filosofia : ci riserviamo una più approfondita descrizione di questo partito». (Definito da Marx sia nella Sacra Famiglia che Nell’Ideologia tedesca il partito «della contemplazione degenerata , della critica quiete della conoscenza»).Il suo difetto principale era dunque il seguente: «esso credeva di poter realizzare la filosofia senza sopprimerla». Ai pratici Marx suggerisce una maggiore realizzazione della filosofia e ai teorici un maggiore superamento della filosofia.
Osserva Bloch che qui la negazione della filosofia è un concetto eminentemente hegeliano, la«negazione determinata» della filosofia, e dunque Marx si riferisce esplicitamente alla filosofia «avutasi finora», non in generale ad ogni filosofia possibile e futura. Si nega la filosofia autarchico-contemplativa che si limita ad interpretare il mondo in maniera unicamente antiquaria, e non si nega invece la filosofia che cambi il mondo in maniera rivoluzionaria. E proprio la filosofia classica tedesca, Hegel in primis, presentando così «tanto studio del mondo reale», figura «tra le tre fonti e tre parti integranti del marxismo», e questa non è una cosa poco pratica.
Ribadisce Bloch che la novità della filosofia marxista è la trasformazione radicale del suo fondamento, il suo compito proletario-rivoluzionario; ma non nel fatto che l’unica filosofia capace e determinata alla concreta trasformazione del mondo non sia più una filosofia. Poiché essa lo è come non mai; il marxismo non sarebbe affatto una trasformazione nel senso vero se prima di esso e in esso non ci fosse un prius teorico-pratico della vera filosofia. Ossia di quella filosofia a lungo respiro, pienamente immersa nella sua eredità intellettuale e culturale (assunta criticamente, con una sua negazione determinata, come insegna Adorno) , che s’intende di luce ultra violetta , cioè delle qualità della realtà che sono portatrici di futuro ( potenziali lineamenti dello spirito dell’utopia).
Dunque non è la prassi per la prassi , una trasformazione purchessia del mondo, che può essere identificata con la dottrina marxiana, con il suo metodo dialettico. Al contrario deve essere somministrato l’antidoto all’idea che le trasformazioni delle cose, in sé e per sé, siano necessariamente portatrici dell’avvenire dell’umanità e possano tranquillamente avvenire senza concetto, in modo folle o barbarico o catastrofico, o come delirio mentale di uno scenario futuro, (l’hegeliana «riproduzione perfetta del caos»). L’assunto marxiano è invece che solo una conoscenza solida e un dominio sempre più esatto della necessità (oggi potremmo dire la conoscenza dettagliata e precisa dei processi e meccanismi dominanti del capitalismo finanziario e dei possibili antidoti e strategie politico-economiche alternative) consente di traguardare alla trasformazione seria e al regno della libertà.
Com’è da intendersi dunque la trasformazione filosofica della realtà nell’accezione marxiana? Bloch risponde che la trasformazione filosofica è una trasformazione con incessante conoscenza del contesto; la filosofia non è una scienza a parte , al di sopra delle altre, tuttavia essa è la scienza e la coscienza specifica della totalità «soggetto-oggettiva» che «traluce» da tutte le scienze (rapporto di tensione e collaborazione a un tempo tra filosofia e scienze) .
La filosofia è la coscienza in progresso della totalità progrediente( è filosofia della storia) dal momento che questa totalità non esiste come un fatto o dato oggettivo ma solo nel legame gigantesco del processo o divenire storico (un legame gigantesco dato nella funzione dinamica di legge o valore di scambio della merce e nel correlativo processo d’identificazione scientifico-tecnologico, processo d’identificazione«oggettiva» che a sua volta media l’interiorità profonda, l’inconscio, delle coscienze o psicologie, ossia la« soggettività») con ciò che non è ancora divenuto. Quindi la trasformazione filosofica è una trasformazione a misura della situazione analizzata, della tendenza dialettica, delle leggi oggettive, della possibilità reale. Essa avviene nell’orizzonte del futuro, assolutamente chiuso alla contemplazione, chiuso all’interpretazione, ma marxisticamente conoscibile.
Nello stesso luogo – Per la critica della filosofia del diritto di Hegel – in cui muove le sue critiche ai partiti dei «pratici» e dei«teorici» nella loro antitesi, Marx formula anche la seguente annotazione di sintesi dialettica : « La filosofia non può realizzarsi senza la soppressione del proletariato, il proletariato non può sopprimersi senza la realizzazione della filosofia». E se il proletariato viene inteso, come fa Marx, non solo come una classe sociale, ma anche e sopratutto come il «sintomo più acuto» dell’ autoalienazione umana, è indubbiamente un atto lungo: la piena soppressione così intesa coincide con l’ultimo atto del comunismo.
Questo estremo eschaton filosofico prevede la società del futuro come un realizzato naturalismo dell’esistenza umana e un realizzato umanesimo della natura (Manoscritti economico-filosofici del 1844) . Questa prospettiva ultima della trasformazione del mondo diventa il punto archimedeo intorno a cui deve ruotare il pensiero che fa uscire la filosofia dalla sua dimensione contemplativa «antiquaria», con lo sguardo rivolto unicamente al passato, e la volge al presente e ai lineamenti dell’orizzonte del futuro in esso impliciti o potenziali. Qui Ernst Bloch, il fenomenologo delle passioni di attesa – tra cui rileva come la più potente di tutte la speranza– il filosofo dello spirito dell’utopia concreta, «torna a casa», come vedremo la prossima volta.