Le scelte economiche dell’Italia hanno un senso, sono le regole dell’eurozona ad essere assurde

per Giacomo
Autore originale del testo: Larry Elliott
Fonte: The Guardian
Url fonte: https:/www.theguardian.com

di Larry Elliott – 25 maggio 2018

Traduzione di Giacomo Piacentini

Le scelte economiche dell’Italia hanno un senso, sono piuttosto le regole dell’eurozona ad essere assurde

William Hague descrisse una volta l’euro come un edificio in fiamme senza uscite e l’esperienza italiana degli ultimi venti anni ha provato che l’allora leader del partito Conservatore aveva assolutamente ragione.

Entrare a far parte della moneta unica fu reso piuttosto facile alla fine degli anni ’90. In quanto parte di quegli originali firmatari del trattato di Roma, l’Italia voleva disperatamente entrare a far parte del nuovo progetto europeo.

Tuttavia, non ci fu alcun esame preliminare per capire se uno Stato come l’Italia – con la sua tendenza all’elevata inflazione – potesse davvero affermarsi come membro di un’organizzazione basata sui rigori della moneta unica. Non ci fu nessun equivalente a quei cinque test di Gordon Brown che l’allora cancelliere disse che bisognava passare prima di poter discutere di un ingresso del Regno Unito.

Al contrario, quando divenne chiaro che l’Italia non avrebbe mai rispettato i criteri previsti, le regole vennero modificate per permettere che ci riuscisse comunque. Il risultato è chiaro: due decenni in cui la qualità della vita ha ristagnato, il che è il principale motivo per cui l’elettorato italiano ha in gran parte abbandonato la politica tradizionale. Una coalizione dei due partiti populisti ed euroscettici – la Lega e il Movimento Cinque Stelle – sembra imminente.

Anche se nessuna delle due ali della coalizione ha mai mostrato un vero amore nei confronti dell’euro, entrambe hanno già scoperto la verità delle parole di Hague. La loro bozza di accordo politico includeva la richiesta che l’UE concedesse ai Paesi delle procedure per poter lasciare l’euro laddove vi fosse la “volontà popolare” di fare ciò, ma tutto ciò ora è stato abbandonato.

Non è di certo difficile capire perché: se i mercati finanziari dovessero pensare che il nuovo governo populista stesse parlando seriamente riguardo all’uscita dalla moneta unica, i titoli del governo italiano diventerebbero più rischiosi. Gli investitori richiederebbero un ritorno maggiore per mantenerne il possesso e questo farebbe schizzare alle stelle i tassi di interesse sul mercato. La Banca Centrale Europea potrebbe essere d’ausilio comprando i titoli italiani, ma avrebbe ben pochi incentivi ad aiutare un governo a Roma intento a sminuire – se non a distruggere – l’unione monetaria.

Una crisi finanziaria intrappolerebbe il nuovo governo: il malfermo sistema bancario italiano collasserebbe e il Paese vivrebbe una rapida e dura recessione. La disoccupazione aumenterebbe e i Cinque Stelle e la Lega ne assumerebbero la colpa. I populisti diventerebbero molto presto impopolari.

Dunque, il governo italiano si trova nella medesima posizione in cui si sono trovati tutti i governi del Paese negli ultimi venti anni: essere membri della moneta unica è una maledizione, ma uscire sarebbe ancora peggio. Come la Grecia, l’Italia sta scoprendo che è un po’ troppo tardi per dire che sarebbe stato meglio costruire l’euro con qualche uscita d’emergenza. A tutti gli effetti, è più facile per il Regno Unito – che ha una propria Banca Centrale e una propria moneta – uscire dall’UE che per l’Italia uscire dall’euro.

Ma anche se l’Italia dovesse scartare l’idea dell’indipendenza monetaria, il nuovo governo ha previsto pianificazione sul tema delle tasse e sul tema della spesa che pongono una sfida al modo in cui l’eurozona è stata regolata fino ad ora. Tutto ciò implica una nuova sorta di reddito di cittadinanza, pensioni più generose e tasse più basse. Le stime suggeriscono che simili programmi potrebbero costare intorno ai 60 miliardi l’anno – il 3,5% circa del PIL italiano.

Questo potrebbe portare scompiglio nelle regole fiscali dell’eurozona, che impone stretti limiti all’espansione del debito nel budget di una Nazione. Tutto ciò, inoltre, farebbe innalzare il tasso del debito dell’Italia – ovvero il valore del debito pubblico italiano in relazione all’economia dello Stato – dal 130% del PIL al 150%.

La prospettiva di un mutamento così marcato della politica economica spaventa i mercati finanziari e non sarà ben accolta nemmeno nelle altre capitali europee. Tuttavia, le scelte fiscali della coalizione potrebbero avere un senso, mentre i veri problemi risiedono nelle assurde politiche di deflazione dell’Unione Europea.

Come Dhaval Joshi di BCA Research ha fatto notare, sotto certi aspetti l’Italia è simile al Giappone: entrambi i Paesi hanno affrontato serie difficoltà perché le loro banche morenti si sono dimostrate incapaci di concedere prestiti al settore privato. Il Giappone ha risolto il problema incaricando il settore pubblico di occuparsi dei finanziamenti e dei prestiti, anche se questo ha voluto dire un forte aumento del debito pubblico. L’Italia si trova in una situazione peggiore perché le regole fiscali dell’eurozona non le hanno permesso di aumentare ulteriormente il proprio debito pubblico.

Se si combina il debito pubblico e quello privato, l’Italia ha un debito inferiore rispetto a quello del Regno Unito, della Francia e della Spagna, ma finché le regole fiscali dell’UE considerano soltanto quello pubblico, ciò poco importa. Joshi infatti afferma: “Per questo, al governo italiano è stato impedito di ricapitalizzare il proprio sistema bancario e l’economia italiana è ristagnata per un decennio”.

Quanti sono a capo della singola moneta sanno che, così com’è, l’euro è un progetto incompleto. Potrebbe essere completato dal pacchetto di riforme proposto dal presidente francese Emmanuel Macron che vorrebbe un’unione fiscale oltre che un’unione monetaria, il tutto con un ministro delle finanze dell’eurozona.

Tuttavia, non c’è nemmeno la più remota possibilità che Macron possa ottenere consensi su questo progetto da parte del prossimo governo che si insidierà a Roma, nemmeno se il presidente francese riuscisse ad assicurarsi il pieno appoggio della Germania.

Un’alternativa allo schema di Macron è quello di lasciare ai membri dell’eurozona una maggiore libertà nello scegliere le politiche fiscali che meglio rispondono alla situazione del singolo Paese, il che è ciò che la coalizione populista italiana sta domandando. Al momento, le regole vigenti permettono soltanto ad un Paese in difficoltà di rendersi più competitivo attraverso la deflazione interna – dunque austerità e taglio delle spese.

Un’altra alternativa, poi, è quella di lasciare le cose come sono e sperare per il meglio. Questo metodo ha visto l’euro uscire indenne da una crisi, ma non accadrà una seconda volta. Il rischio non è tanto che una Nazione decida di abbandonare l’edificio in fiamme, ma che l’intera costruzione crolli su sé stessa.

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