Fonte: il sole 24 ore
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LE PASSIONI DEGLI OLIVETTI – di NERIO NESI – ed. ARAGNO
recensione di Paolo Bricco
La cifra degli «altri» Olivetti
Un libro, in fondo, sentimentale. Scritto da un uomo che sentimentale non è. Nerio Nesi – dirigente industriale, banchiere, politico – ha appena pubblicato il volume Le passioni degli Olivetti. Lì, Nesi, ritorna. A Ivrea, dove venne assunto nel gennaio del 1958, a 33 anni, con il compito di creare la direzione dei servizi finanziari.
Il merito migliore di Nesi è di non avere appiattito l’intera struttura narrativa e interpretativa del libro su Adriano. Ponendolo sullo stesso piano del padre Camillo e del figlio Roberto, Nesi sfugge alla mitopoietica del personaggio Adriano: quell’insieme di realtà e fantasia, documenti ed emotività, studi e totem che lo fanno uscire dalla dimensione storica e lo fanno entrare nella leggenda, rendendolo un magnete in grado di attrarre, di plasmare e quasi di “falsificare” tutto ciò che è – o sembra – olivettiano.
Adriano, senz’altro, dunque. Ma anche – e soprattutto – Camillo e Roberto. Nella fase di Camillo si mescolano la tecnologia meccanica e l’attitudine estetica, la capacità organizzativa e i primi semi di umanesimo che trasfigurano gli operai in esseri umani, non in senso paternalistico ma semmai in senso insieme positivista e socialista. Tutti tratti che verranno, poi, sviluppati in maniera raffinata ed utopisticamente sistemica, eterodossa e vagamente messianica dal figlio Adriano.
Il libro di Nesi, però, è soprattutto un libro di sentimenti e quindi di passioni. Camillo è il riferimento di questa comunità di contadini e allevatori diventati operai e tecnici: «Nel settembre del 1943, ai sindacalisti della fabbrica di Ivrea che erano andati a salutarlo, Camillo aveva lasciato un messaggio drammatico, ma non disperato, un testamento, un appello, usando un linguaggio insolito per un uomo che, per tutta la vita, non aveva mai usato termini così perentori: “Non siamo ancora liberi, preparatevi a difendere voi stessi, le vostre case, le vostre famiglie, le vostre macchine. Armatevi, nascondete le armi, siate forti”». Alla sua morte, Nesi riporta quanto scritto da Libero Bigiaretti, scrittore a lungo capo dell’ufficio stampa: «Morì il 4 dicembre 1943. Il giorno in cui fu trasportato al cimitero pioveva; ma da Ivrea, dai borghi vicini, si erano arrampicati su per la Serra, fino a Biella i suoi operai. Erano arrivati con ogni mezzo, i più in bicicletta. I tedeschi già davano la caccia ai partigiani, razziavano uomini, minacciavano intere popolazioni. Il piccolo cimitero israelitico di Biella poteva diventare un luogo di massacro; ma esso si popolò, quel giorno, di uomini silenziosi, a capo scoperto, sui cui volti la pioggia cancellava inutilmente le lacrime».
L’altro perno del libro è, appunto, Roberto Olivetti. Un uomo con qualcosa di tragico, scomparso in mezzo al silenzio dei più il 27 aprile 1985, molti anni dopo avere lasciato gli incarichi operativi in azienda. Una personalità, in vita, non soccombente alla figura del padre. Ma, di sicuro, costantemente irrorata e circoscritta dall’energia – quasi incomprensibile – di una delle figure più enigmatiche del Novecento europeo. «Aveva, con il padre, – scrive Nesi – rapporti difficili, talvolta ai limiti della rottura».
L’elemento più malinconico e interessante di Roberto resta la sua dimensione di fautore dell’elettronica. Una convinzione risalente già agli anni Cinquanta, che sarà il filo rosso della sua esperienza manageriale e umana, politica ed economica negli anni della ditta di famiglia. In questo senso, il volume di Nesi appare utile perché modifica lo stereotipo – dotato di fissità astorica – di una Olivetti votata con convinzione e in maniera uniforme all’elettronica. In realtà, così non fu. «Nella contrapposizione fra elettronici e meccanici – scrive Nesi raccontando le difficoltà di Roberto – erano questi ultimi a considerarsi i veri depositari dell’esempio e della cultura industriale di Adriano Olivetti. Gli elettronici costituivano un gruppo ristretto, erano molto giovani e stavano fuori dal Canavese. I meccanici, invece, avevano fatto la storia dell’azienda, a Ivrea e nelle sue propaggini italiane e internazionali. Molti avevano lavorato a fianco di Adriano Olivetti, alcuni addirittura avevano conosciuto personalmente il fondatore, Camillo Olivetti, ed erano stati protagonisti dei successi industriali e commerciali di quel tempo. Loro sì che si sentivano depositari della storia olivettiana».
Il senso di alterità non è soltanto nei confronti dei depositari della tradizione industriale olivettiana. Il senso di alterità si fa acuto anche verso le élite del Paese. E, questo, capita soprattutto negli anni della crisi finanziaria della Olivetti, quando la concomitanza degli investimenti nella grande elettronica e dell’operazione Underwood (l’acquisizione realizzata da Adriano poco prima di morire e tanto gravida di complessità) portarono la Olivetti in condizioni di gravissima tensione finanziaria. Nesi è un protagonista diretto del passaggio che avrebbe portato alla costituzione del Gruppo di Intervento, al sacrificio della grande elettronica e alla conservazione delle attività nel Nord America. In quel frangente, egli incontrò Enrico Cuccia. «Fu in quel periodo che Roberto mi incaricò di andare in Mediobanca ad illustrare la situazione della Società Olivetti. Andai e spiegai al famoso Dottor Cuccia che cos’era l’impresa Olivetti, la sua peculiarità, il suo ruolo, il futuro dell’elettronica; accalorandomi, mi permisi anche di accennargli i problemi del Canavese. Mi accorsi, dopo pochi minuti, che questi argomenti non lo interessavano per nulla e che mi ascoltava con noia sempre più palese, quasi con fastidio. Mi identificavo con la Olivetti e questo atteggiamento mi offese anche personalmente. Tornato a Ivrea, chiesi a Roberto: “Sono così i grandi banchieri?” Mi rispose amaramente: “Non lo sapevi?”. Non lo sapevo”».
Nella vicenda a suo modo drammatica della Olivetti degli anni Sessanta Roberto è, dunque, un simbolo. Ed è un simbolo anche dell’ “approdo mancato” di tutta l’Italia, la traiettoria incompiuta della modernizzazione del nostro Paese, che ha conosciuto le frontiere tecnologiche ma non è riuscito a rimanere agganciato ad esse: «Roberto fu sconfitto, ma fu sconfitto combattendo e la sconfitta non fu soltanto sua, ma anche e soprattutto della ricerca scientifica informatica italiana. Dopo che entrambi avevamo lasciato la Olivetti, ebbi soltanto poche occasioni di incontrarlo. Ma rimase in me l’impressione di un uomo solo: i suoi sogni erano finiti», scrive Nerio Nesi.