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di Marco Schiaffino 26 aprile 2016
Secondo quanto dichiarato il 18 aprile da Tito Boeri, l’INPS rischia l’implosione. A ben vedere, però, è più probabile che a implodere sia il futuro dei cittadini. I dati sono spietati: con l’attuale sistema pensionistico, la generazione nata negli anni 80 rischia di raggiungere la pensione a 75 anni. In pratica, stiamo parlando di una condanna ai lavori forzati vita natural durante. Il tutto, per ritrovarsi con una pensione da fame. Da quando l’INPS ha messo online il calcolatore e avviato la spedizione delle famigerate “cartoline arancioni”, infatti, i cittadini italiani hanno una certezza: la pensione che riceveranno sarà una (piccola) frazione del loro ultimo salario. Insomma: il percorso avviato nel nome della “sostenibilità” della spesa previdenziale ha provocato non solo l’erosione dei diritti in capo ai lavoratori, ma anche una strana sovversione logica che si può riassumere in sei parole: più sei povero, più devi lavorare. Operai, agricoltori, minatori e magazzinieri devono lavorare fino a 80 anni. Notai, avvocati, manager e dirigenti possono andarsene in pensione prima.
Di fronte all’emergenza pensioni, il pensiero unico si muove secondo i suoi classici dettami: negare l’aspetto politico e ridurre la questione a materia da commercialisti. Commentatori ed esperti, nel rilanciare l’allarme del presidente dell’INPS, insistono a battere sui soliti tasti: bassa natalità, età media in aumento, crisi occupazionale. Roba trita e ritrita, che rappresenta un castello di carte che crolla alla prima occhiata ravvicinata. Senza affrontare questioni eccessivamente tecniche, vale la pena però sottolineare alcuni fatti.
Primo: l’aspettativa di vita non cresce come si pensava, anzi. Per la prima volta nella storia si stanno cogliendo segnali che vanno in senso contrario. D’altra parte l’avvelenamento sistematico dell’ambiente e il continuo ribasso degli standard di vita non potevano avere conseguenze molto diverse. È probabile quindi che in futuro si vivrà meno e, soprattutto, si vivrà peggio. I dati più preoccupanti, infatti, riguardano l’aspettativa di vita “in salute”. Una brutta notizia sia per le previsioni di spesa in ambito sanitario, sia per le velleità governative di tenere tutti a lavorare oltre i 70 anni.
Secondo: le politiche governative che incentivano il lavoro precario e discontinuo (a tutto favore delle aziende) sono parte del problema. Continuare sulla strada percorsa negli ultimi 20 anni permette di mascherare il fenomeno della disoccupazione e fare un po’ di maquillage ai dati statistici, ma finirà per schiantare il già malridotto sistema di welfare. Terzo: le malcelate tentazioni di fare a pezzi il sistema previdenziale pubblico per lasciare spazio alla sua finanziarizzazione attraverso la previdenza integrativa sono (oltre che criminali) assolutamente irrealizzabili. Con salari tra i più bassi in Europa, pensare che i lavoratori possano rivolgersi al privato e accantonare per “integrare” l’assegno da fame che gli passerà l’INPS è semplicemente impossibile.
Di fronte a questo scenario, è evidente che ci troviamo a un bivio. Continuare ottusamente a perseguire le politiche neoliberiste di Unione Europea, Fondo Monetario e Banca Mondiale significa, molto semplicemente, far esplodere ulteriormente le diseguaglianze privando di fatto milioni di cittadini della possibilità di avere un futuro. L’unica alternativa è quella di affidarsi al semplice buon senso, attuando una rivoluzione copernicana nel rapporto tra politica ed economia. Trasformando il pareggio di bilancio da costante a variabile e subordinandolo all’obiettivo di garantire prestazioni dignitose per tutti, attuando una redistribuzione degli oneri in chiave fortemente progressiva. Introducendo quello che, più semplicemente, si chiama giustizia sociale.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 24 di Marzo-Aprile 2016 “Il Grande Esodo“