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Intervento in Senato nel dibattito sulle mie dimissioni. 26-11-2014
Signor presidente, signori senatori,
in questo momento due sentimenti opposti cozzano nel mio animo: la ritrosia e l’ardimento. La ritrosia viene dalla preoccupazione di impegnare la vostra attenzione e il tempo prezioso dell’assemblea su una mera iniziativa personale. Me ne scuso con tutti voi. D’altro canto, ringrazio chi, pur non condividendo le mie posizioni, ha espresso – con una parola o una stretta di mano -comprensione per il mio gesto. Fa molto piacere riceverla, sia dai senatori di altri gruppi sia dai cari colleghi del mio Partito democratico, nonché dai membri della direzione e dal segretario Matteo Renzi.
La questione sarà risolta con il vostro voto segreto e ne accetterò il risultato in ogni caso. È una forma di saggezza parlamentare che il singolo non sia più padrone delle sue dimissioni e quindi sia anche più libero di indugiare sulle sue motivazioni. Da qui scaturisce l’ardimento che mi consente di parlarvi senza vincoli, come se le dimissioni fossero già state accolte, e di proporvi alcune riflessioni come contributo alla vostra discussione futura.
Ho risolto il dilemma tra responsabilità politica e coerenza ideale coniugando voto di fiducia e dimissioni. E’ un gesto molto personale, che non riguarda le regole di partito, bensì appella una garanzia istituzionale. Il presidente americano governa il mondo senza disporre della disciplina di partito dei suoi senatori. In quella limpida democrazia la concentrazione del potere trova un contrappeso nei parlamentari “senza vincolo di mandato”. Questa libertà e il dovere di rappresentare la nazione, i capisaldi scritti nel nostro articolo 67 svaniscono se si legifera in via ordinaria con il voto di fiducia. Su questo strumento, però, evitiamo il gioco delle parti di abusarne quando si è in maggioranza e di criticarlo quando si è minoranza. Sarebbe ipocrita abbandonarsi alle polemiche di parte senza vedere che i problemi di oggi sono il frutto di un ventennio sbagliato. Riformare ha sempre significato indebolire il Parlamento promettendo in cambio decisioni più rapide. Si può può trarre un bilancio di questa illusione? Abbiamo perso molto nella qualità della democrazia senza guadagnare nulla nell’efficienza di governo. Diminuiscono i voti degli elettori e aumentano i premi di maggioranza ai partiti. Si rischia il governo maggioritario in una democrazia minoritaria, come si è visto nel voto di domenica. La politica si indebolisce ma pretende di fare tutto da sola, trascurando le garanzie e i contrappesi, come si vede nella revisione costituzionale. Le garanzie diminuiscono anche per i lavoratori che possono essere licenziati con motivazioni false. Bastano quelle economiche a nascondere quelle discriminatorie. Davvero non riesco a convincermi che bisogna peggiorare la legge Monti-Fornero per creare sviluppo. Arretrano sempre insieme le garanzie istituzionali e quelle sociali.
Nel mondo d’oggi, non solo in Italia, le così dette riforme strutturali ripudiano la democrazia discutidora, come la chiamava il grande pensiero conservatore nell’epoca della Restaurazione. Il nostro presente è rivolto al passato senza averne neppure la consapevolezza. A furia di annunciare se stesso, il Nuovo è diventato vecchio senza produrre alcuna novità. L’ardimento, allora, mi induce a proporvi tre considerazioni inattuali sul Parlamento. Sì, inattuali perché in contrasto col tempo attuale e proprio per questo a favore di un tempo venturo.
1. Legge. In Italia è scomparsa la Legge, non solo perché non è rispettata, ma anche perché non è più prodotta dal Parlamento, e le due carenze si aiutano a vicenda. Le chiamiamo ancora leggi ma da tanto tempo ratifichiamo, su proposta del Governo, solo ammassi di norme frammentate, eterogenee e improvvisate, complicando all’inverosimile la vita quotidiana dei cittadini, dei funzionari e delle imprese. All’iniziativa parlamentare rimangono le celebrazioni di eventi, le nicchie corporative e le regalie territoriali. L’esecutivo è padrone del legislativo.
Nel ventennio i governi hanno ottenuto pieni poteri senza sapere cosa farne: la destra non ha realizzato la rivoluzione liberista e la sinistra non ha attuato le riforme sociali. La delega al governo, quindi, non ha rafforzato la decisione politica ma si è tradotta in maggiore potere della burocrazia.
Abbiamo preso a picconate l’argine che nello Stato di diritto separa legislazione e amministrazione, pensando così di procedere più spediti, ma creando un pantano normativo. Al contrario, occorre separare il legislatore dal burocrate per scrivere buone leggi – poche e davvero necessarie, semplici e davvero regolative, leggibili e davvero rispettate. Restituire al Parlamento la potestà della Legge è una riforma semplice e non richiede di cambiare la Costituzione, anzi di attuarla.
2. Riconoscimento. La lunga crisi ha diffuso nel Paese la discordia. Ne abbiamo tanta paura che cerchiamo di occultarla, ormai da quasi un lustro, sotto il mantello di quella governabilità che ha reso ingovernabile il Paese per mancanza di progetti alternativi. Si vagheggia il partito centrale, mentre le periferie sociali vanno in frantumi.
Nel dominio dell’amministrazione tutto è già deciso e chi non è d’accordo diventa un conservatore o un ribelle. Al contrario, nel Parlamento sovrano la Legge è sempre un’opera incerta, è il frutto di una tensione tra parti che si scontrano e nello stesso tempo si riconoscono. E in questo modo la discordia non è più fine a se stessa ma produce un cambiamento.
L’Italia di oggi avrebbe tanto bisogno di rappresentare in quest’aula le sue differenze, affinché possano riconoscersi e modificarsi reciprocamente. C’è una magia del Parlamento nel migliorare i suoi componenti. Nella vera dialettica parlamentare i partiti sono sollecitati a rielaborare le motivazioni ideali e sociali da cui hanno preso origine. I movimenti che hanno raccolto la protesta hanno l’occasione della proposta senza smarrirsi nell’urlo sterile. Anche tra i singoli parlamentari, perfino i più duri di cuore dovranno ammettere che il primo giorno, nella solennità di questo luogo, hanno provato un’emozione, che predisponeva a mettersi in gioco nel confronto con l’altro.
3. Riforma. Tutti si aspettano la decisione che sblocchi il Paese, come una spada che taglia il nodo gordiano senza neppure provare a scioglierlo. È un mito italiano di questi tempi, ma è profondamente anti-italiano nella lunga durata. Chi di voi mi sa indicare nella storia nazionale un successo raggiunto dall’alto? Le cose buone sono venute quando una politica consapevole di non poter fare tutto da sola ha saputo aiutare i riformatori che nella società già stavano realizzando qualcosa di nuovo, dalla scuola elementare, ai distretti industriali, alla diffusione dello stile italiano nel mondo.
Ancor di più oggi avremmo bisogno di un Parlamento che aiuti i riformatori e prima di tutto li riconosca nella società italiana. Invece di bloccarsi in quest’aula a respingere emendamenti spesso inutili si dovrebbe impegnare più tempo nelle commissioni parlamentari come laboratori dell’innovazione, ascoltando i territori che si reinventano, i giovani che aprono strade nuove, le amministrazioni che stupiscono i cittadini, gli insegnanti che lasciano un dono nelle vite dei ragazzi, le imprese che valorizzano il lavoro, gli scienziati, gli esperti e gli artisti che sarebbero felici di servire il Paese, come ci ripete la senatrice Cattaneo.
Prendere coscienza delle virtù su cui si può contare è un esercizio di autostima nazionale che rafforza il principio morale. Non bastano le norme a combattere la corruzione se un popolo intero non ritrova l’amor proprio repubblicano.
È davvero inattuale immaginare che qui si curi l’autostima del Paese. Tanti comportamenti sciagurati di singoli e di gruppi hanno dato motivo di scandalo, favorendo una sorta di inversione tra causa ed effetto. Si dice che il Parlamento non ha potere perché non è degno, ma il Parlamento è degno solo se ha un potere reale.
Quando non era più cancelliere, Bismarck si era pentito di aver indebolito il Reichstag, riconoscendo che le inadeguatezze assembleari non erano una giustificazione plausibile. Lo racconta Max Weber per dimostrare che il rango alto o basso dell’istituzione dipende prima di tutto dalla sua funzione, cioè – per dirlo con le sue parole – “se i grandi problemi sono risolti in modo decisivo dal Parlamento oppure se esso non è altro che l’apparato di consenso, peraltro mal tollerato, di una burocrazia dominante”.