Le elezioni a Roma: una sfida in campo aperto al Partito della Nazione

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Stefano Ciccone
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di Stefano Ciccone (Presidenza Nazionale SEL) – 14 gennaio 2016

La discussione in SEL in vista delle elezioni amministrative mostra come analisi condivise in questi mesi non abbiano visto un effettivo chiarimento. Ciò ha determinato un’espressione contraddittoria e incompleta delle scelte politiche assunte collettivamente, pregiudicandone l’efficacia e la credibilità. Per questo credo necessaria una discussione più franca, che faccia meno uso di artifici retorici per coprire legittime opzioni divergenti.
Soprattutto sulle elezioni romane, abbiamo assistito a un largo uso di una retorica immaginifica per sostenere proposte più modeste di accomodamento a un alleanza elettorale con il PD. Dopo la “nuda vita” e la “società degli algoritmi” è mancato solo un riferimento alle navi in fiamme al largo dei bastioni di Orione per dare un senso eroico alla scelta di mantenere a Roma l’alleanza con un PD che si è dimostrato largamente compromesso in un sistema di potere degenerativo e che ha affossato con un colpo di mano il sindaco Marino. Gli interventi di Massimiliano Smeriglio evocano più volte la “sfida”, “la mischia della battaglia” e da Blade Runner ci si sente quasi catapultati nell’epica tolkeniana.
Ma se l’obiettivo è costituire “il partito della città e dei cittadini pronti a sfidare il «partito della nazione»”, il luogo più adatto non appare l’interno della coalizione con il PD. Bisogna avere il coraggio e l’ambizione di battersi in un campo più largo parlando alla sofferenza delle periferie, alla solitudine del lavoro, alle mille esperienze innovative che crescono nella città.
Se davvero “non si dà processo costituente senza mettere in campo la capacità di battersi, di farsi cambiamento, e di accarezzare il sogno di un successo”, la sfida al Partito della Nazione va fatta nella società, in campo aperto, “attraversando le comunità locali” e non nel recinto delle primarie, nel gioco di equilibrio tra correnti PD, tra chi sosterrà Giachetti e chi vorrà mettergli lo sgambetto. Anche con il coraggio di mettere a rischio, in una fase, qualche postazione di governo o sottogoverno locale.
Una prospettiva chiusa e indisponibile ad alleanze? Non aiuta questa discussione la confusione tra l’opportunità di alleanze (locali o su specifiche tematiche) e l’adesione a una coalizione. Podemos e Siriza non rimuovono il tema delle alleanze ma a partire dalla proposta di una prospettiva leggibile e da un’autonomia politico culturale. Mentre esempi come il PSDI con la Democrazia Cristiana o il Partito dei contadini con il POUP in Polonia mostrano come si possa stare anche in un’alleanza con la vocazione all’autoconservazione di una “ridotta minoritaria”.
La partecipazione alle primarie presuppone un “popolo” di riferimento, una prospettiva strategica unificante, un vincolo di solidarietà che vada oltre le diverse candidature e che vincoli anche la leadership a interpretare la base condivisa della coalizione. Questo non vale a Milano, dove la candidatura di Sala rappresenta una evidente discontinuità con l’esperienza Pisapia. E tantomeno vale a Roma, dove la Giunta si è rotta prima dell’estate per produrre un monocolore PD e poi un commissariamento voluto da Renzi. Bene invece ha fatto SEL a riaffermare esperienze come quella di Cagliari.
Il PD “ha sostenuto lealmente questi governi locali”? E queste esperienze sono state effettivamente innovative? Cecilia D’Elia, pur affermandolo nel suo intervento, omette il riferimento a Roma che invece oggi è al centro della discussione. Eppure proprio a Roma assistiamo a iniziative che invitano SEL ad impegnarsi di nuovo in una coalizione con il PD riversando su SEL una contraddizione tutta interna al Partito Democratico.
Colpisce che, a fronte della evidente strumentalità dell’invito da parte del PD, che dopo aver chiuso la coalizione nazionale e fatto cadere la giunta romana, oggi usa come elemento polemico la proposta di alleanza, non appaia in questi interventi nessun riferimento all’ipocrisia di questo invito e si riduca tutto a una polemica con le scelte operate da SEL. Se l’intento è “sfidare” il Pd, non è un buon inizio attribuire le contraddizioni alla sinistra senza chiedere conto delle responsabilità di Renzi, Orfini e del gruppo dirigente romano del Partito Democratico. Quella aperta, dunque, appare più una contesa sulla prospettiva di SEL che non un’iniziativa tesa a sfidare effettivamente il Partito Democratico i cui dirigenti renziani sono ben lieti di un’acquisizione in funzione subalterna di parte della sinistra, senza spostare di una virgola il proprio assetto programmatico.
Ma si dice, “noi vogliamo vincere, non vogliamo consegnare la città alle destre e ai populismi”. Giusto, come direbbe Lapalisse, è sempre meglio vincere che perdere. Ma chi oggi nel PD e non solo agita un po’ tardivamente il solito spauracchio del “voto utile” per fare argine alla possibile “vittoria delle destre o dei populismi” (argomenti che il PD Nardella considererebbe figli di una superata distinzione novecentesca tra destra e sinistra) dovrebbe chiedersi: come mai si teme una sconfitta dopo lo sviluppo di esperienze di governo di centro sinistra in tutte le grandi città e in alcune regioni e nel pieno di una “innovativa” esperienza di governo del PD a livello nazionale? Cosa hanno prodotto queste esperienze di governo negli equilibri dei poteri, negli orientamenti diffusi in una città come Roma?
Se oggi il PD rischia concretamente di perdere a Roma non è certo per la mancanza del supporto di SEL, ma per la fine disastrosa della Giunta Marino, per i gravissimi limiti che ha avuto questa stessa giunta, per la grave compromissione del PD nel sistema di potere scoperchiato da Mafia Capitale, per il fallimento del “modello Roma”, per l’incapacità di dare risposte alla crisi della città e per le politiche dei governi Letta, Monti e Renzi che hanno scaricato sulle città pressione fiscale e taglio dei servizi. Soprattutto perché il “centrosinistra” di ieri ha guardato a Monti e il Partito della Nazione di oggi non rappresenta un’alternativa alle politiche che hanno aggravato la crisi europea.
Una risposta basata solo su un gioco di alleanze elettorali appare dunque riduttiva e politicista. Come se fosse sufficiente la sommatoria di sigle per colmare il vuoto esistente, l’incapacità di dare una risposta diversa alle paure, agli egoismi e alla rabbia alimentati dalla crisi e dalla lacerazione delle reti di socialità urbane.
Pare peraltro semplicistica se non strumentale la distinzione tra PD buono e PD cattivo (salvo, come a Milano, acconciarsi a dover sostenere il candidato del PD cattivo qualora vincesse le primarie).
Ma, al di là dei singoli casi locali, non si può costruire una stagione nuova se non si fanno i conti con la chiusura di quella precedente. E infatti la discussione su Roma rimanda a una questione più generale.
La fase del centrosinistra si è esaurita non solo per il passaggio da Bersani a Renzi, dato non marginale, ma perché è mutato lo scenario complessivo: l’imposizione dei vincoli europei, il volgersi del disagio e della domanda di cambiamento verso il movimento 5 stelle, la crescita dei populismi, l’astensione. E sarebbe un errore considerare Renzi una mera parentesi da superare agevolmente aspettando un semplice cambio di segreteria al prossimo congresso.
Il cosiddetto “campo largo del centrosinistra” è divenuto un recinto ristretto e ha mutato forma e identità. Chi oggi ripropone, di nuovo, questa formula, dimentica il messaggio delle elezioni regionali in Emilia Romagna dove ha votato il 37% degli elettori. È dunque tramontata la stagione in cui, con una brutta immagine, si poteva pensare di lanciare un’OPA sul centrosinistra e candidarsi a determinare l’indirizzo dell’alleanza.
Forse ora emerge anche la fragilità di quella prospettiva, il suo “azzardo” che scommetteva sulla possibilità di determinare una connessione tra domande di cambiamento e coalizione per determinare una svolta facendo leva sulla risorsa di una leadership ma senza curare la costruzione di pratiche, l’accumulazione di intelligenze, la costruzione di reti sociali.
Prendere atto della chiusura di questa stagione vuol dire, come chiede Cecilia D’Elia, “abbandonare la lotta politica sul futuro del paese”? Al contrario. Il problema è chiedersi quale forma possa oggi assumere questo sforzo e di cosa ci sia bisogno perché la sinistra possa incidere effettivamente sulle esperienze di governo e sull’orientamento di parti significative della società.
Le esperienze di governo locali e la stessa esperienza dei governi Letta e Monti dimostrano che se non si è in grado di determinare una rottura con i vincoli delle politiche di austerity non si contribuisce ad aprire una prospettiva e ad aggregare energie nuove ma, al contrario, si incrina la credibilità di una alternativa e si aumenta la distanza con le componenti più dinamiche ed esigenti della società. Si tratta di una questione che la sinistra PD ha avuto di fronte e che ha portato alcuni suoi esponenti a scegliere di uscire da quel partito.
Una sinistra che accetti il quadro e i vincoli dell’assetto renziano e limiti la propria azione in una prospettiva emendativa rischia di condannarsi alla marginalità. Lo sta sperimentando la sinistra PD che si trova nell’incapacità di prospettare e praticare un’alternativa credibile su cui costruire interlocuzioni significative con la società, ciclicamente indicata come una zavorra riottosa.
Per altro verso le grandi contraddizioni prodotte dalle politiche renziane generano sofferenze e conflitti: dalla mobilitazione del mondo della scuola, al disagio crescente nel mondo sindacale, alla percezione di una distanza antropologica da parte di un’opinione pubblica politicizzata e consapevole. Queste contraddizioni non producono però spostamenti significativi dal punto di vista elettorale e non alimentano un’alternativa.
Perché la sofferenza sociale prodotta dalla crisi e dalle politiche di governo della crisi prende la via dell’astensione o segue le sirene delle destre o del “populismo” del M5S e non viene intercettata dalla sinistra? Cosa manca? Dobbiamo rafforzare la resistenza di chi nell’ambito del contenitore renziano tenta, meritoriamente, di condizionarne l’azione e intercettarne le difficoltà? O non è forse più necessario, benché più ambizioso e difficile, provare a costruire una proposta alternativa e credibile, leggibile nella società non basata solo sui posizionamenti politici? Chi con onestà si pone l’obiettivo di parlare al corpo sociale largo e articolato che ancora oggi fa riferimento al PD e di interloquire con chi in quel partito si batte contro la politica renziana deve assumersi la responsabilità di costruire una soggettività credibile e capace di innovazione politica.
È necessario costruire una soggettività politica adeguata alla profondità della crisi che è crisi politica, crisi istituzionale, crisi dei legami sociali, crisi economica e di sistema. Qui è evidente l’inadeguatezza politico culturale delle forze in campo. Ma questa consapevolezza e il timore di una prospettiva “regressiva sul terreno della cultura politica” non possono essere utilizzati come alibi per rassegnarsi a una sinistra testimoniale e subalterna nella coalizione o all’opposizione. Qual è la condizione perché si produca una rete di relazioni sociali, una vita partecipativa ricca capaci di produrre una capacità di elaborazione innovativa? possono credibilmente aspirare a svolgere questo ruolo le organizzazioni esistenti? Abbiamo detto tutti insieme che SEL non è sufficiente e non è autosufficiente. E non solo per dimensioni ma anche per cultura politica e capacità di relazione con la società. Una consapevolezza che valeva quando si contrapponeva il solito “campo largo del centrosinistra” a presunte spinte “partitiste” ma che oggi appare dimenticata in nome di una ritrovata “boria di partito”.
Chi, allora, si batte per una sinistra non minoritaria, non conservativa e non subalterna, deve porsi l’obiettivo di costruire un soggetto che per dimensioni, pluralità di culture e radicamento nella società possa effettivamente diventare luogo di costruzione di una risposta adeguata alla radicalità della crisi e di un’innovazione politico culturale.
Una risposta, abbiamo detto nel nostro congresso, che non può essere nazionale, ma che deve riconnettersi quantomeno a una proposta europea alternativa alla crisi e alla subalternità del Partito del Socialismo Europeo alle dissennate politiche che hanno aggravato la crisi e stanno conducendo l’Europa all’implosione.
Un soggetto che abbia al tempo stesso la credibilità per rappresentare un interlocutore, un’opzione politica riconoscibile. Un nuovo partito? Certo non una sommatoria dell’esistente. La necessità d’innovazione politica nelle forme è tema sempre rimosso, derubricato a democraticismo. Eppure un nodo cruciale nella crisi della politica è la difficoltà a costruire forme di relazione capaci di produrre elaborazione politica e relazione con la società. È dunque necessario superare l’alternativa tra due opzioni altrettanto arretrate: la fede nel monoteismo del partito, o peggio “una chiesa”, ma anche la deriva politeista della difesa dei piccoli feticci, la logica pattizia di equilibrio tra componenti o la semplificazione di “una testa un voto” che non faccia i conti su come si costruiscono gli orientamenti, come si valorizzano le differenze senza la strettoia della logica di maggioranza che ha ogni volta prodotto scissioni e lacerazioni.
C’è molto da pensare e da fare, ma per farlo serve uno spazio largo, plurale, libero e in relazione con le culture e le pratiche che si producono nella società.

Contributo di Stefano Ciccone (Presidenza Nazionale SEL).

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