Fonte: Controanalisi
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di Francesco Erspamer – 19 dicembre
Il neocapitalismo liberista ha vinto la guerra fredda raccontando una favola a cui in tanti hanno creduto perché era comodo e conveniente farlo. La favola era che un sistema economico e sociale può arricchire oscenamente una piccola plutocrazia e allo stesso tempo migliorare le condizioni di esistenza di tutti gli altri. Per finanziare la favola e renderla attendibile il capitalismo ha dissipato risorse naturali accumulate in milioni di anni e un patrimonio etico e di civiltà costruito in millenni. Ora è restato poco o nulla da consumare e la favola si è rivelata una menzogna. Ma il capitalismo non ha più bisogno di raccontarla: il suo scopo lo ha raggiunto: non ha più avversari che minaccino la sua supremazia.
Per inerzia o disperazione molti continuano ad aggrapparsi a quella bugia come i bambini al mito di Babbo Natale. Per illudersi di essere felici identificano la qualità della vita con il consumismo e per dimenticare la loro frustrazione si immergono nei mondi fittizi e ripetitivi dei videogame, dello sport (guardato, non particato), della pornografia. Ma non sono compensazioni di lunga durata: alla fine se ne accorgono anche loro che si sta peggio di prima; per la prima volta in generazioni i genitori si aspettano che i propri figli avranno meno di loro.
La nuova favola del liberismo è che ciò sia inevitabile e addirittura giusto. Che la crisi economica e civile sia la normalità: abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi e ora si deve rientrare nella realtà. Non cascateci: se vi siete fatti ingannare la prima volta, evitate di farvi ingannare ancora. Un futuro di paura e di miseria materiale e culturale non è il nostro destino: è una condizione possibile, forse probabile, ma non necessaria.
La prosperità come diritto o concessione, goduta per qualche decennio da vari popoli (italiani inclusi) come premio per la loro inerzia politica e sociale, non tornerà. Quella era la prima favola del neocapitalismo: l’inesauribilità delle risorse e l’inarrestabilità della crescita in condizioni di libero mercato. La sua nuova favola spiega che chi ha successo merita tutto e chi perde è un fallito e non merita nulla. Che l’ineguaglianza è nell’ordine delle cose e ribellarsi a essa sarebbe inutile o controproducente. Che non c’è altro da fare che adeguarsi ai miti del liberismo: individualismo e culto delle celebrity, deregulation e globalizzazione, concorrenza e meritocrazia; e sperare o sognare di essere fra i vincenti.
Invece un’alternativa c’è: organizzarsi e lottare. Come fecero i lavoratori due secoli fa, in un’altra epoca in cui il capitalismo vittorioso si trovò in una posizione di assoluta egemonia: ma fu costretto a diminuire le sue pretese per via dell’opposizione dei movimenti socialisti e comunisti. Se i beni del pianeta e specificamente del nostro paese saranno amministrati responsabilmente e distribuiti in maniera equa (che non significa identica) ce ne sarà per tutti. È anzi ancora possibile conservare il nostro attuale livello di benessere o migliorarlo. Ciò che è cambiato è che non lo otterremo più in cambio della nostra passività e obbedienza. L’età dei diritti garantiti dallo stato è finita perché lo stato e il capitalismo sono ormai la stessa cosa. Prenderne atto e ricominciare a impegnarsi politicamente e sindacalmente è l’indispensabile premessa di ogni speranza di non diventare dei miserabili e dei servi. Solo se i troppo ricchi saranno molto meno ricchi i poveri saranno meno poveri.
[Questo articolo è apparso anche nella rubrica Left turn sulla VOCE di New York]