Fonte: bin-italia.org
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di Andrea Fumagalli 8 agosto 2016
Nel 1943, l’economista polacco Michael Kalecki, scriveva un saggio dal titolo “Gli aspetti politici della piena occupazione”, nel quale sosteneva che per i capitalisti era preferibile rinunciare a ottenere il massimo profitto, ottenibile se si aumentava la produzione sino al raggiungimento appunto della piena occupazione, per mantenere un certo livello di disoccupazione. Tale disoccupazione svolgeva il ruolo “marxiano” di esercito industriale di riserva impedendo il rafforzamento della capacità contrattuale dei sindacati e quindi consentendo un maggior controllo della forza-lavoro. Per i capitalisti, l’obiettivo del controllo e della governance unilaterale del mercato del lavoro aveva un valore decisamente superiore a qualche migliaio di dollari in più di profitto.
Kalecki aggungeva che solo nei casi in cui il controllo della forza lavoro era assunto dall’autoritarismo statale allora era possibile massimizzare l’occupazione e quindi i profitti. Era questo il caso della Germania nazista, non a caso l’unico paese a quel tempo che poteva fregiarsi dell’aver raggiunto la piena occupazione (favorita, notava Kalecki, da una politica di espansione della domanda per scopi bellici).
Il quadro dipinto da Kalecki – ignoto alla maggior parte degli economisti mainstream – si è ripetuto più volte nel corso dell’ultimo secolo, anche se in misura differente e con risultati alterni: dagli Usa degli anni kennedismo al Cile di Pinochet, all’Italia degli anni del boom economico.
L’esercito industriale di riserva allora era costituito dai disoccupati, ora dalla forza lavoro immigrata e sottopagata.
Tale consapevolezza è stata alla base del compromesso fordista del dopoguerra.
Nel capitalismo contemporaneo, tutto ciò si ripresenta in forma nuova. L’esercito industriale del lavoro non è più al di fuori del mercato del lavoro ma è sempre più al suo interno. Facciamo riferimento alla condizione di precarietà e all’estendersi di una vera e propria trappola della precarietà, che facilitando il dumping sociale sui redditi da lavoro, favorisce persino la diffusione di lavoro non pagato, sino a istituzionalizzarlo (vedi il progetto Garanzia Giovani e l’effetto del Jobs Act).
Per i capitalisti, la trappola della precarietà diventa oggi lo strumento che consente di tenere sotto controllo la forza lavoro anche a scapito di un minor livello dei profitti aggregati, esattamente come poteva essere “politicamente” conveniente nel fordismo mantenere un livello minimo di disoccupazione.
Parliamo di un livello aggregato di profitto, perchè a livello micro, dove il contesto economico lo consente, si persevera comunque l’obiettivo di massimizzare non tanto i profitti ma piuttosto le rendite derivanti da proprietà individuale o da monopolio di posizione.
Si tratta, a differenza del passato, su scala microeconomica, di un obiettivo del tutto perseguibile senza i rischi di un aumento della conflittualità sociale.
Il risultato finale è che è conveniente ridurre le politiche sociali esistenti e rifiutarsi di perseguire politiche di sostegno al reddito, anche se per fasce crescenti della popolazione, il reddito stesso si riduce sempre più sino ad ampliare la fascia di povertà assoluta e relativa, come le recenti statistiche ben evidenziano.
In una simile situazione economica, l’introduzione di un reddito minimo di base (soprattutto se condizionato, selezionato e temporaneo) costituirebbe oggi uno strumento essenziale e nevralgico per incrementare i profitti imprenditoriali: tale misura infatti avrebbe l’effetto di incrementare la domanda senza incidere sul costo del lavoro, stimolare gli investimenti e quindi gli stessi profitti.
Eppure la paura che l’introduzione di un redito minimo di base possa, seppur minimamente, ampliare i gradi di libertà decisionali e/o di rifiuto di molti lavoratori/trici è tale che si preferisce non adottalo ma avversarlo, con l’argomentazione, del tutto falsa e non provata, che è solo l’accesso al lavoro che consente di ottenere un livello dignitoso di reddito. Al riguardo, oltre a ricordare la diffusione di forme di lavoro gratuito e precario sottopagato, è sufficiente dare un’occhiata alle statistiche sulla povertà, che vedono in costante aumento il numero dei “working poor”, cioè di coloro che, pur lavorando, non riescono a ottenere un reddito superiore alla soglia di povertà relativa.
Come ai tempi di Kalecki, si preferisci quindi adottare politiche economiche che incrementano la povertà invece che combatterla. Si tratta di scelte obbligate, ci dicono. La ragione è semplice: non ci sono i soldi e le politiche d’austerity, sia europee che nazionali, lo impediscono
Eppure….. Eppure, per altre finalità i soldi compaiono all’improvviso. Sarebbero tanti gli esempi. Ci limitiamo al più eclatante: gli interventi pubblici sul fronte del sistema creditizio a livello europeo e nazionale negli anni della crisi.
Dal 2008 a oggi, i salvataggi con soldi pubblici delle banche in difficoltà sono stati numerosi. Come ci ricorda Ugo Marani (http://keynesblog.com/2016/01/02/la-schizofrenia-europea-tra-salvataggi-bancari-e-austerita-fiscale/), a iniziare le danze sono le banche anglosassoni. La Northern Rock, a fine 2008, beneficia di una linea di finanziamento e di garanzia di circa 27 miliardi di sterline concessa congiuntamente dalla Bank of England e dal Tesoro. La Royal Bank of Scotland, nel medesimo periodo, gode di due sottoscrizioni di capitale dal governo inglese: la prima di venti miliardi di sterline, con una partecipazione al capitale ordinario del 63%; la seconda di 13 miliardi. Dal bilancio del 2011 della banca si rileva che l’ammontare garantito dallo Stato è pari a 131,8 miliardi di sterline. Ancora in Gran Bretagna: il Lloyds Bank Group riceve dallo stato una sottoscrizione di capitale pari a circa venti miliardi di sterline, pari al 44% delle azioni ordinarie della nuova banca nata dalla fusione tra Lloyds e Halifax Bank of Scotland. I governi di Germania e Spagna, successivamente, non sono da meno dei colleghi britannici: gli aumenti di capitale sottoscritti con fondi pubblici, solo a ricordarne taluni, riguardano il Banco Fin. De Ahorros (23 mlrd), la Commerzbank (18.2), la Bayerische Landesbank (10.5), la Landesbanken Baden-Wurtenberg (5.0) e poi la Dexia in Belgio (10.5), l’ING Group (10.0) e la ABN AMRO Group (3.3), la BNP Paribas (7.6) e la Société Géneral (3.4) in Francia. Quando si tratta di salvare il sistema del credito, i governi europei riscontrano una unità di intenti che mai si era vista.
Secondo i dati R&S Mediobanca, 2015, l’Europa stanzia complessivamente un ammontare netto di interventi, sotto forma di (ri)capitalizzazione, di garanzie e di linee di credito e/o di oltre mille miliardi di euro. Di questi, oltre 253 erano stati destinati a banche spagnole, 156 a istituzioni britanniche, 110 a quelle irlandesi e oltre 80 a quelle tedesche e italiane. Un trasferimento finanziario che non ha riscontri con la storia del nostro continente: la Commissione Europea (http://ec.europa.eu/competition/publications/csb/csb2015_001_en.pdf) stima che dall’inizio della crisi i paesi comunitari siano intervenuti a favore di 112 istituzioni bancarie nazionali.
Di tutto questo intervento pubblico, l’Italia ne ha usufruito per una cifra non superiore ai 5 miliardi (in massima parte fagocitato dai Tremonti Bond per il primo salvataggio di Monte dei Paschi (MPS) e la Cassa di Risparmio di Genova. Il motivo è semplice: l’arretratezza del sistema creditizio italiano, poco internazionalizzato e aperto alla concorrenza, ha rappresentato una sorta di scudo nella prima fase della crisi finanziaria. Tuttavia, nella fase più acuta della recessione economica, dopo il 2011, tale arretratezza si è rivelata un boomerang, con l’esplosione dei crediti inesigibili: Si tratta di un fattore, unita a logiche di gestione in collusione con i poteri locali, che in un sistema a bassa capitalizzazione e assai frammentato, ha evidenziato la fragilità della struttura patrimoniale, acuita, per di più, dall’inasprirsi dei controlli di vigilanza, una volta trasferiti dalle paternalistiche e consenzienti mani della Banca d’Italia a quelle più efficienti e rigide dell’EBA (European Banking Authority), sotto il diretto controllo della Bce.
Ecco che veniamo all’oggi. Viene costituito il Fondo Atlante, metà con i soldi della Casa Depositi Prestiti (CDP) e metà con fondi delle principali banche private, dopo il salvataggio delle quattro banche locali del Centro-Italia nel 2015. Metà della dote (5 miliardi) viene subito spesa per coprire i buchi patrimoniali della mala gestione di Banca Veneta e Banca Popolare Veneta. A partire da inizio d’anno, vengono al pettine anche i nodi di altre banche italiana, prima fra tutte MPS: 29 miliardi di sofferenze bancarie e intervento straordinario di ricapitalizzazione di 5 miliardi. Uno speciale veicolo della stessa MPS si occuperà di rilevare le sofferenze per un importo lordo di 27 miliardi, corrispondenti a 9,6 miliardi netti. Questa operazione sarà effettuata con le cartolarizzazioni, di cui 6 miliardi coperti dalla garanzia pubblica (GACS, una sorta di bad bank pubblica) per la tranche senior con rating “investment grade”, mentre la tranche mezzanina da 1,6 miliardi sarà acquistata dal fondo Atlante (BDP) e quella junior da 1,6 miliardi sarà caricata sugli azionisti. Questi subiranno dalla ricapitalizzazione una diluizione pari all’81% (condizione assai rara e più che vantaggiosa per chi si trova in una situazione debitoria!).
In conclusione, al momento attuale possiamo stimare in circa 12,6 miliardi l’intervento di sostegno al sistema italiano del credito negli ultimi sei mesi. Poca cosa, se si calcola che per un risanamento reale delle banche in difficoltà sarebbero necessari quasi 200 miliardi. Nessun problema: il governo ha già fatto sapere che, se necessario, i soldi verranno trovati, come sono stati già trovati i suddetti 12,6 miliardi: d’altra parte, affermano all’unisono Renzi e il ministro Padoan, non si può far pagare ai piccoli azionisti o, ancor peggio, ai risparmiatori la perfida congiuntura negativa che ha colpito un settore comunque in buona salute (a sentir loro)!
A livello europeo, invece, per il salvataggio delle banche, è stata sborsata dalle casse dei diversi Stati una cifra pari a 1000 miliardi di euro.
Ve lo immaginate quante persone avrebbero potuto godere di un reddito minimo di base con una simile somma a disposizione?